«L’Europa sta cambiando, soprattutto nei valori », parola di Zygmunt Bauman. Il sociologo polacco, classe 1924, parla di etica e di forze della natura, ma anche di politica e potere intervenendo al convegno internazionale sulla «Modernità liquida: per un paesaggio solido» tenuto al Museo Paolo Orsi di Siracusa nei giorni scorsi.
Promosso dalla Facoltà di Architettura di Siracusa, dal Consorzio universitario Archimede e dal Collegio siciliano di Filosofia, il convegno, contava gli architetti Benedetto Gravagnuolo, Carlo Truppi, François Zille, Paolo
L`etica e le forze della natura
Le rovine sono quelle alle quali l’Angelus Novus di Walter Benjamin tentava di voltare le spalle, quelle di T.W. Adorno e della costellazione critica che “fa deflagrare la continuità della storia”; quelle dell’Europa e degli Stati nazionali e del loro disfacimento. Ripensando il disastro del terremoto di Lisbona del 1755, dice al suo esordio Bauman, i grandi animatori della vita intellettuale settecentesca, da Parigi a Londra, da Napoli al lontano New England, introdussero le proprie riflessioni sull’origine di tali eventi all’interno di un dibattito più generale: fenomeni così luttuosi e causa di sì grandi patimenti ponevano importanti quesiti sul rapporto tra etica e carattere razionale del mondo naturale. Terremoti devastanti come quello di Lisbona erano da attribuire a una teleologia, o ancora avevano spiegazioni sovrannaturali determinate da una ragione superiore? In questo ultimo caso si trattava di una ragione diabolica o divina?
Il senso della liquidità
Zygmunt Bauman ha optato per una visione apocalittica, con l’obiettivo di entrare nel vivo dei fattori di degrado che riguardano la società in cui viviamo oggi. Già più di venticinque anni addietro il sociologo si interrogava sul senso della «liquidità» e se, quest’ultima, costituisse una nuova forma di vita che si stava affermando, oppure un transitum, in direzione di un impredicibile futuro. In ogni caso, il tentativo di creare un ordine [sociale] ha di solito delle conseguenze disastrose, dice il sociologo. Persino la metafora del giardino, che è quasi un tropo a significare una società armoniosa e ordinata, cela l’insidia di una deriva distopica. Ed ecco che Bauman per giungere nel vivo dei più stringenti interrogativi sui danni della Globalizzazione, cita le riflessioni di Antonio Gramsci sugli spiaggiamenti totalitaristici e sul partito che si fa Stato. Gramsci nelle “Note sul Machiavelli” parlava del partito come “intellettuale collettivo”, come nuovo Principe, non più volontà singola ma volontà comune, braccio e mente della emancipazione dei ceti popolari sottomessi.
Il Potere, la Politica e lo Stato (in crisi)
Allo stato attuale, la discrepanza fra povertà dei mezzi individuali e la grandiosità dei compiti che si sono andati prefigurando è divenuta incolmabile. Il passaggio cruciale, e la prima sfida paventata da Bauman, sta nel divorzio, un vero e definitivo scollamento, fra Politica — che rappresenta un modello operativo per fare le cose che andrebbero fatte — e il Potere, che sta per la capacità di fare qualcosa, in merito ai problemi che di volta in volta emergono dagli apparati statali e sociali. Tuttavia, il Potere, in una prospettiva sociologica costituita di flussi, non controlla più la Politica e, allo stesso tempo, il Potere tout-court è evaporato. I Poteri [privati, economici] sono sfuggiti di mano alla Politica, e ancora la Politica non sa più come interagire con la realtà; adesso, infatti, non è più lo Stato che può incaricarsi di agire in modo risolutivo su tutti i fronti del vivere sociale. La vera crisi è, secondo Bauman, quella delle Istituzioni. Divenute obsolete e anodine. A chi attribuire la conseguenza del crollo delle Borse? Chi si incaricherà di far rientrare le insolvenze di molti fra i paesi europei come l’Irlanda, la Grecia o il Portogallo?
Il cittadino, novello Davide
Passo dopo passo abbiamo smesso di pensare a istituire una forma di società perfetta. In tal senso, quantunque finanza e prodotti siano ampiamente globalizzati, la Politica resta locale. Gli Stati nazionali sono, difatti, impotenti e non riescono ad avere una vera incidenza sul funzionamento dei mercati. Perciò, l’intero carico relativo all’intervento sul tessuto sociale, al pari della condizione di benessere personale è stata interamente lasciata al singolo e alla sua resilienza. Molte metropoli contemporanee diventano il garbage di problemi creati su scala mondiale, allo stesso modo è accaduto a Lampedusa: non può essere delegato al sindaco di una piccolissima comunità al centro del Mediterraneo l’intera questione dell’immigrazione. Il Welfare, lo stato sociale, aveva fino a poco tempo addietro il compito di farsi carico dei bisogni delle fasce disagiate, provvedendo ai fondamentali (istruzione, sanità, unità abitative). Necessità primarie che oggi tocca al singolo risolvere. La responsabilità della soluzione di tali questioni di base ricade, e dipende, unicamente dal saper fare del cittadino. I problemi sociali dovrebbero trovare soluzioni di ordine sociale. Tuttavia, non esiste né un ente né un’istituzione preposta a rinegoziare su scala globale l’appianamento di questi disagi. Il risultato di questa situazione è una grande incertezza e una condizione comune molto spiacevole. Le conseguenze si misurano, ancora, sull’impossibilità di prevedere il futuro e l’impotenza reattiva al vaglio di interrogativi superiori all’incidenza dell’azione individuale. La sfida più importante sarà costringere Potere e Politica a ricongiungere questi lembi divaricati. Mentre la seconda grande sfida riguarda la sostenibilità: le risorse naturali non sono sufficienti a garantire a tutto il pianeta uguali opportunità di ricchezza e aspettative di vita. Il nuovo ordine globale non ha poi più bisogno dei lavoratori, né dei cittadini. Essi sono diventati «Uomini di scarto», titolo anche di uno dei saggi di Bauman; sans papiers, soprattutto africani, che scappano da guerre e carestie, rischiando la vita per avere un’occasione di riscatto e dignità. È necessario quindi rivedere quei pregiudizi che hanno guidato l’incertezza derivante dalla convivenza con lo straniero, imparando a convivere con l’idea di un’assimilazione parziale e riconoscendo lo scambio in termini di necessità che si sviluppa fra autoctoni e migranti. È necessario che si passi dalla pretesa dell’assimilazione — che è un concetto biologico — alle larghe maglie di un dialogo cooperativo; anzitutto per rimediare all’implacabile calo demografico che fa dell’Europa un continente non competitivo rispetto a Cina e India. Per l’ennesima volta il punto è, per Bauman, la decrescita felice: unico rimedio, in assenza di istituzioni politiche in grado di prendere e applicare decisioni globali efficaci. Bauman, Latouche, Pallante e Mercalli sostengono la “non innocenza delle tecnologie” e l’imperativo di cambiare rotta per evitare di superare il baratro sul quale siamo affacciati. «Ci vorrebbero cinque pianeti per continuare a sostenere questo ritmo di consumi», ha affermato il sociologo.
Nel nome del Pil
Il Pil, d’altronde, non può essere l’unico termometro del benessere, in quanto misura utenze e consumi, non di certo varianti esistenziali rilevanti quali condivisione e solidarietà; che, invece, sono le uniche vere risorse da opporre all’erosione di quell’area di benessere che l’Occidente ha generato parassitando i Paesi terzi. Intemperie e intemperanze, cupezze e riflessioni acuminate sulla globalizzazione e sui problemi che i nuovi processi mondiali stanno ponendo sia agli Stati sia ai singoli individui, lasciati, come ha espresso Bauman in un suo ennesimo saggio, nella loro «solitudine globale».