Continuiamo a parlare dell’esperimento carcerario del dottor Zimbardo che, pur essendo sfuggito di mano, è riuscito a far capire diversi meccanismi della mente umana e delle interazioni fra le persone, i loro ruoli e i loro personaggi. Eravamo arrivati al secondo giorno, quando scoppiò una rivolta dai “prigionieri”, violentemente arginata dalle “guardie”.


Terzo giorno. Il soggetto 8612
Il terzo giorno uno dei “prigionieri”, il numero 8612, incominciò a sentirsi male: manifestò pensieri disorganizzati, pianti incontrollabili, eccessi d’ira e disturbi emotivi di vario genere. Lo stesso Zimbardo ammise che i “responsabili della prigione”(quindi lui compreso) si erano talmente calati nel ruolo, che pensarono che l’8612 li stesse prendendo in giro per essere “scarcerato”.
8612 fu, allora, intervistato da uno dei consulenti che lo rimproverò per aver resistito così poco. Gli venne quindi offerta la possibilità di diventare un loro informatore, in cambio non avrebbe avuto troppi fastidi dalle guardie. Gli venne chiesto di pensarci su e fu riportato in cella. A questo punto l’8612, durante la conta successiva al suo incontro con le “autorità”, disse agli altri prigionieri che non sarebbero più potuti andare via di là, e che non avrebbero potuto interrompere tutto quello che stava accadendo. Ciò confermò nei “prigionieri” la sensazione di essere davvero in gabbia. Il “prigioniero” 8612 cominciò a comportarsi come se fosse pazzo, ovvero comportarsi come probabilmente nel suo immaginario si sarebbe comportato un pazzo: cominciò quindi a urlare e mostrare tutta la sua rabbia. Ci misero un po’, Zimbardo e gli assistenti, a capire che quel soggetto aveva messo in scena quel personaggio fuori di testa per comunicare che stava realmente soffrendo.

L’arrivo del soggetto 416
L’8612 fu quindi sostituito con un altro soggetto (preso tra quelli di riserva): entrò in scena il 416. Questi non sperimentò gradualmente la tirannia delle guardie: nella prigione echeggiava già un senso di orrore; inoltre i vecchi “prigionieri” gli dissero che si trattava di una vera prigione dalla quale era impossibile fuggire (e pensate che impressione deve aver fatto vedere quella realtà così torbida e senza tempo, d’improvviso, sotto i suoi occhi).
Il 416 reagì a tutto questo iniziando uno sciopero della fame, con lo scopo di far liberare lui e tutti gli altri. Le guardie non riuscirono a farlo mangiare in nessun modo, decisero quindi di rinchiuderlo nella cella di isolamento per tre ore (il limite massimo da loro stabilito era un’ora), ma il 416 continuò a rifiutare il cibo. Si poteva quasi considerare un eroe questo ragazzo che aveva avuto il coraggio di protestare per le ingiustizie che tutti stavano subendo, eppure fu considerato dagli altri “detenuti” uno in cerca di rogne. Infatti quando il “capo delle guardie” disse agli altri “prigionieri” che avrebbe liberato il 416 dalla cella di isolamento solo se avessero rinunciato alle loro coperte, nessuno accettò lo scambio.

Quarto giorno. Le visite dei parenti
Il quarto giorno fu dedicato alle visite di amici e parenti. Poiché il ruolo dei ricercatori era ormai diventato quello di trattenere i “prigionieri” a tutti i costi, si preoccuparono molto di lasciare una bella impressioni nei genitori, in modo che questi non li obbligassero a liberare i loro ragazzi. Essendo infatti la finta prigione ridotta in modo pessimo, decisero di pulirla, o meglio di farla pulire dai finti “detenuti” e di renderla piacevole mandando musica in filodiffusione. Gli stessi “prigionieri” vennero ben nutriti, lavati e rasati; e i visitatori furono fatti accogliere da un’attraente ex cheerleader dell’università di Stanford.
I visitatori erano molto emozionati per la situazione sperimentale a cui stavano prendendo parte. Si dovettero registrare uno ad uno e attendere mezz’ora prima di incontrare i loro ragazzi; in questa mezz’ora furono informati del fatto che ognuno di loro non avrebbe potuto ricevere più di 2 persone alla volta e per non più di dieci minuti, e che durante l’incontro sarebbe stata presente una “guardia” a sorvegliare il tutto. Prima di entrare i genitori parlarono del “caso” del loro figlio con il “Direttore” e tutti protestarono per le regole delle quali erano stati informati. Dunque anche i visitatori ebbero un ruolo in questo esperimento gestendolo tramite i propri personaggi.
Ad esempio una delle mamme disse al “Responsabile” della prigione, ovvero al dottor Zimbardo, dopo la visita al figlio, che non aveva mai visto il suo ragazzo in quel modo, inscenando probabilmente il personaggio della mamma che si preoccupa per il proprio cucciolo. Il dottor Zimbardo, il cui scopo era diventato quello di non rilasciare i “prigionieri”, decise di spostare il focus della questione sulla personalità del figlio di questa donna, dunque si rivolse prima alla madre chiedendo cosa avesse suo figlio che non andasse: forse non dormiva bene? Questa domanda aveva ovviamente l’obiettivo di far apparire minimi i problemi che potesse avere un ragazzo sano in una situazione del genere. Il direttore quindi si rivolse al padre e gli chiese se credeva che il figlio non potesse sopportare tutto questo. A questo punto il personaggio del padre virile, quello che produce solo figli altrettanto virili, si sentì chiamato in causa e affermò che suo figlio era “uno tosto”, un leader, poi si girò verso la moglie e le disse “Andiamo tesoro, abbiamo già perso troppo tempo”. Chiamandola tesoro volle probabilmente indicare al “Responsabile” il fatto che sua moglie era un “tesoro di donna”, come dire, quella dolce metà facente parte del sesso debole, dunque in quanto tale (la società lo sa), un po’ troppo apprensiva nei confronti di un figliolo in realtà molto forte.

Prigionieri in fuga
Dopo la visita dei genitori, una delle guardie sentì i “detenuti” parlare di una possibile fuga organizzata dall’ ex prigioniero 8612, da loro liberato la sera prima. Giunse infatti voce che egli stesse organizzando un blitz, che avrebbe dovuto aver luogo quella notte stessa, per liberare gli altri.
Anche in questa occasione Zimbardo e la sua équipe non si comportarono da studiosi: invece di registrare da bravi psicologi sperimentali il tentativo di fuga, si preoccuparono della sicurezza della “prigione”. Il loro scopo era diventato, da bravi responsabili di un carcere, quello di reprimere la fuga. Anzi, Zimbardo e i suoi ricercatori tralasciarono completamente la registrazione dei dati, cosa che invece avrebbe dovuto avere la priorità. Qui appare chiaro che siamo noi a scegliere a quale dei nostri personaggi dare retta, ma appare anche chiaro che questa nostra scelta sarà influenzata dall’interazione con la società, che ci approva o che ci segue (o meno).
Si riunirono quindi il “Direttore” della prigione, il “Supervisore” e uno dei “Luogotenenti”, essi decisero di mettere una spia nella cella che prima era occupata dal numero 8619. Costui avrebbe dovuto informare sul complotto in atto. Nel frattempo Zimbardo si recò al Dipartimento di Polizia di Palo Alto e chiese il permesso di trasferire i suoi prigionieri all’interno del loro vecchio carcere. Questa richiesta fu ovviamente respinta, provocando rabbia e disgusto nel dottor Zimbardo, o forse nel responsabile Zimbardo. Infatti egli stesso ammise, più avanti, che era ormai calato completamente nel ruolo di responsabile del carcere, e a provocare quei sentimenti di rabbia fu proprio il fatto della mancanza di cooperazione tra le loro strutture.
Venne perciò ideato un piano alternativo: la prigione venne smantellata e i prigionieri incatenati in un altro piano dell’edificio, così che quando fossero arrivati gli intrusi, non avrebbero trovato nessuno da liberare. Avrebbero trovato solo il dr. Zimbardo che gli avrebbe detto che l’esperimento era finito. A quel punto avrebbero potuto riportare i prigionieri indietro e avrebbero raddoppiato le misure di sicurezza. Pensarono addirittura di attirare con una scusa l’ex prigioniero, il numero 8612, per imprigionarlo nuovamente visto quello che aveva combinato, proprio come se fosse un ex detenuto in libertà condizionata.
Zimbardo racconta quindi che mentre se ne stava seduto ad aspettare l’irruzione di quel gruppo di ragazzi, arrivò un suo collega, il dottor Gordon Bower il quale, saputo dell’esperimento in atto, andò a vedere come stesse procedendo. Zimbardo gli spiegò cosa stava per accadere, e lui gli chiese quale fosse la variabile indipendente di quello studio. Zimbardo si alterò: ma come? Mentre lui doveva far fronte ad una possibile fuga, mentre la sicurezza dei suoi uomini e la stabilità della sua prigione erano messe in pericolo, il collega stava a preoccuparsi della variabile indipendente?
Philip Zimbardo ammise che solo dopo molto tempo si rese conto di quanto fosse entrato nel suo ruolo, stava ormai pensando come un responsabile di prigione.
E pensare il suo scopo era dimostrare quanto le strutture carcerarie fossero istigatrici di comportamenti violenti.
La voce dell’irruzione si rivelò comunque falsa, non si presentò nessuno. Questo fece sentire tutti molto frustrati, sia i ricercatori che le guardie: tutta quella fatica per niente… Qualcuno avrebbe dovuto pagare per questo!

Il quinto giorno. La visita del prete
Il quinto giorno, infatti, le guardie intensificarono il loro grado di pressione sui “prigionieri”, li costrinsero a pulire i bagni a mani nude, li obbligarono a fare flessioni e le conte durarono anche diverse ore. Le “guardie” svolgevano ormai il loro ruolo con estrema facilità.
A questo punto Zimbardo decise di aggiungere un elemento da lui stesso definito kafkiano: invitò un prete ex cappellano di un carcere, il quale parlò uno alla volta con tutti i prigionieri. Questi erano ormai così identificati nel loro ruolo, che la metà di loro si presentò al prete invece che con il proprio nome di battesimo con il numero assegnato.

 

Anche il prete entrò subito nella parte, e per lui fu alquanto facile in quanto proveniva proprio dalla cappella di un carcere. Zimbardo notò che questo prete aveva talmente imparato bene a comportarsi nella maniera stereotipata in cui si deve comportare un prete, che sembrava la versione cinematografica di se stesso.
Costui chiese ad ognuno dei ragazzi cosa stesse facendo per poter uscire di lì, spiegando poi loro che l’unico modo che avevano di uscire di prigione era quello di rivolgersi a un legale. Si offrì inoltre di contattare i genitori per far sì che essi si rivolgessero appunto ad un avvocato, molti dei ragazzi accettarono l’offerta. Questa visita fece sì che la linea tra finzione e realtà, divenisse ancora più sottile.

Il caso del soggetto 819
Ci fu un “prigioniero”, il numero 819, che si rifiutò di parlare col prete: non mangiava e avrebbe preferito parlare con un dottore. Venne convinto a parlare sia col prete che col “responsabile” (il dottor Zimbardo), e mentre parlava con quest’ultimo scoppiò a piangere. Zimbardo lo liberò della catena che aveva al piede e gli disse di andare a riposare nella stanza adiacente al “cortile della prigione”, intanto che gli avrebbe procurato del cibo e un medico.
Nel frattempo una delle guardie mise in fila gli altri prigionieri e gli fece intonare per una decina di volte un coro contro il numero 819. Zimbardo si rese conto che l’819 avrebbe potuto sentire quel coro: si precipitò da lui trovandolo in un pianto dirotto mentre in sottofondo si sentivano i cori che lo etichettavano come un cattivo prigioniero.
Zimbardo gli suggerì di andarsene via assieme a lui, ma egli rispose che non poteva perché voleva dimostrare di non essere un cattivo prigioniero.
A questo punto il direttore gli disse che lui non era il numero 819 ma tal dei tali (il nome e cognome), e che lui era il dottor Zimbardo, ovvero uno psicologo e non un responsabile di una prigione, e che infatti quella non era affatto una vera prigione, ma solo un esperimento, e gli altri ragazzi erano studenti come lui, non prigionieri.
Il ragazzo smise di piangere, alzò lo sguardo e disse: “Ok, andiamo”.

La richiesta dell’avvocato
La sera di quello stesso giorno alcuni genitori contattarono Zimbardo e pretesero un avvocato allo scopo di far uscire i loro figli di prigione. Erano infatti stati contattati dal prete che aveva suggerito di rivolgersi ad un legale: ormai tutti erano entrati nella realtà di questa rappresentazione e i genitori erano disposti anche a spendere soldi per un legale che facesse uscire i figli di prigione.
Zimbardo chiamò dunque un avvocato, il quale si presentò il giorno dopo, e sebbene anch’egli fosse a conoscenza del fatto che si trattasse solo di un esperimento, pose con estrema professionalità una serie di domande di natura legale ai prigionieri. (fine seconda parte – continua)

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