Pechino festeggia dieci anni nella World Trade Organization e in un forum appena concluso illustra i nuovi orizzonti. Entrata nel Wto come 143esimo membro – evento che segnò l’inizio di una nuova fase storica caratterizzata da un processo di riforme e di apertura del Paese – la Cina rappresenta oggi la seconda potenza economica mondiale.
Dopo aver elencato una serie di progetti e di buoni propositi volti a migliorare il Paese sotto tutti gli aspetti, il presidente Hu Jintao ha affermato che la Cina continuerà a impegnarsi per promuovere lo sviluppo comune del mondo e continuerà a svolgere un ruolo costruttivo nella comunità economica globale. Discorso piuttosto buonista e demagogico che fa ben sperare l’Europa, che vede nella Cina il suo “salvatore”.
Un gruppo di nazioni in declino
Purtroppo però le aspettative dell’Eurozona rischiano di essere deluse se non si apportano drastici cambiamenti al sistema. Per molti funzionari cinesi infatti, l’Europa rappresenta ormai solamente un gruppo di nazioni in declino, i cui cittadini dovrebbero mettersi a lavorare di più. Della stessa opinione pare essere anche Jonathan Holslag, direttore della ricerca per il Brussels Institute of Contemporary China Studies, che negli stessi termini si è espresso alla vigilia dell’ Eu-China Summit che si sarebbe dovuto tenere a Tianjin ma che è stato rimandato a causa “degli imminenti vertici del Consiglio europeo e dei capi di stato dell’Eurozona”. Questo non è certo il primo dei vertici rinviati per far fronte a emergenze più urgenti, non c’è dunque da stupirsi se risulta difficile contraddire l’atteggiamento descritto da Holslag e smentire l’opinione che la leadership cinese nutre nei confronti del vecchio continente e in particolar modo dell’Italia. Infatti pare proprio che negli ultimi tempi in Cina chi dice Europa dice Italia. Basta dare un’occhiata alle pagine dei quotidiani e delle riviste cinesi per farsene un’idea: “Crisi europea: allerta sull’Italia, no ad altra benzina sul fuoco”, “Situazione del debito poco ottimista: l’Italia mette i bastoni tra le ruote al piano di aiuti europeo”…e questi sono solo alcuni dei titoli pubblicati dal sito di news economiche Hexun finché è rimasto in sella il governo Berlusconi. L’arrivo di Mario Monti è stato accolto con un prudente silenzio.
Il vecchio continente malato di troppo welfare
Secondo Jin Luqun, presidente del China Investiment Corporation, l’Europa è uno dei pochi colossi economici e politici che si aspetta la carità dalla Cina e dalle nazioni emergenti, ma prima di discutere di un eventuale intervento è necessario che metta in atto delle riforme radicali che ridimensionino il suo welfare eccessivo e che imponga delle norme sul lavoro meno elastiche che inducano il popolo a lavorare più duramente e più a lungo. Ora è dunque Pechino a dettar legge. Volato a Pechino per “incontri di routine”, il direttore del Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria (Fesf, c.d. “Fondo salva-stati”), Klaus Regling ha affermato di aver discusso con gli investitori della creazione di “nuovi prodotti finanziari” e ha negato con decisione che la Cina abbia posto delle condizioni in cambio dell’acquisto di bond europei. Sembrerebbe dunque che soddisfare i desideri dei compratori sia la nuova missione di Regling. Tuttavia la tempistica del viaggio fa pensare a una connessione con il possibile intervento della Cina a salvataggio del debito pubblico europeo che parrebbe non dispiacere neanche al presidente francese Nicolas Sarkozy, che dopo una conversazione telefonica con il presidente Hu Jintao, ha difeso l’idea dell’ingresso del Dragone affermando che se la Cina,che possiede il 60% delle riserve globali, dovesse decidere di investire sull’euro anziché sul dollaro, non vi sarebbero motivi per rifiutare.
Le richieste cinesi
E mentre si diffondono notizie sull’arrivo degli investimenti cinesi, fioccano anche le ipotesi su cosa Pechino potrebbe volere in cambio del suo aiuto: dal riconoscimento dell’economia di mercato, che consentirebbe alle merci cinesi di evitare numerose pratiche antidumping, a un ammorbidimento sul fronte dello yuan, la moneta cinese che secondo Washington e Bruxelles viene scambiata a un valore inferiore a quello reale. Ma Regling ha escluso la ricerca di un ritorno politico in cambio di eventuali investimenti da parte cinese sostenendo che la ricerca di opportunità di investimento solide, sicure e interessanti sia del tutto plausibile da parte di un Paese che possiede 3200 miliardi di dollari di riserve in valuta estera. Davanti a tali cifre, verrebbe da chiedersi come potrebbe l’Italia, un paese così piccolo al confronto e con un debito eccessivo, attrarre l’attenzione del colosso cinese, e nel caso vi riuscisse, che futuro avrebbero gli investimenti cinesi. Secondo Guan Jianzhong, Presidente dell’agenzia di rating Dagong, il fondo di investimento cinese o gli investitori cinesi potrebbero cercare settori come banche o energia poiché le infrastrutture potrebbero richiedere tempi di ritorno economico molto lunghi. Ma se è importante capire dove il governo cinese vuole investire lo è altrettanto capire dove l’Italia abbia intenzione di consentire tali investimenti. In realtà il grado di apertura della Cina verso l’Italia potrebbe essere maggiore rispetto ad altri paesi purché l’economia italiana non si spaventi davanti all’arrivo di capitali cinesi e vengano costituite anche delle organizzazioni affidabili che informino gli investitori cinesi sull’Italia e li invoglino a investire.
L’Italia, un Paese interessante dall’eccessivo debito pubblico
Quando la Cina guarda il mondo in realtà non guarda alla dimensione di un Paese perché sono tutti importanti per raggiungere uno sviluppo equilibrato. L’Italia è di per se la terza potenza economica in Eurozona, il suo mercato è molto attraente, ha buoni fondamentali ma anche un eccessivo debito pubblico e troppa espansione del credito, se le linee guida del governo economico cambiassero radicalmente allora si potrebbe interagire con la Cina che ha bisogno dell’esportazione delle merci e dei capitali. La Cina non ha problemi di eccessivi debiti ha tanta capacità di produzione e di creazione della ricchezza quindi esporta tanto e guadagna tanta valuta estera, una capacità di spesa che l’Occidente non ha, non sfrutta la propria capacità di creazione del valore e il denaro guadagnato per ricomprare i prodotti cinesi,
ma utilizza la modalità dell’espansione del credito puntando su una moneta cinese forte che limiti le esportazioni. In realtà la Cina non ha bisogno di incamerare troppa valuta estera perché poi non riuscirebbe a spenderla, alla Cina interesserebbe comprare merci e non solo prodotti finanziari con il rischio di non vedersi restituito l’investimento. L’Italia è da mesi sotto osservazione cinese con prospettiva negativa ma comunque in fase di valutazione.
L’asse Berlino-Pechino
Ben diversa appare invece la posizione della Germania. Dal 2010 Berlino e Pechino hanno attivato un regime di consultazioni governative bilaterali rafforzate. I crescenti legami economici con la Cina sono testimoniati da recenti episodi come l’acquisizione, da parte della Banca Centrale Cinese, del 3,04% del capitale della tedesca Munich Re, la più grande compagnia di riassicurazione del mondo; l’acquisto del produttore di elettronica di consumo Medion, da parte di Lenovo, colosso dei personal computer; l’interesse della Beijing Automotive Industry Holding Co per un’acquisizione di Opel. Un’ondata di investimenti cinesi a cui verosimilmente ne seguiranno molti altri. Stando a quanto annunciato da Angel Merkel durante il sesto Forun sino-tedesco per la cooperazione economica e tecnologica, l’obiettivo è quello di incoraggiare le società cinesi a investire in Germania in misura sempre maggiore ed è proprio questa la differenza sostanziale con l’Italia. La Germania ha infatti da tempo compreso l’importanza di intercettare le opportunità economiche offerte dalle economie emergenti e considera strategico il partenariato con la Cina. Mentre la maggior parte del tessuto produttivo italiano guarda alla Cina come a una minaccia, le imprese tedesche registrano risultati positivi, nonostante la crisi economica europea, anche grazie alla loro forte presenza in Cina, infatti la Germania è l’unico dei paesi del G7 che dal 2000 in poi non ha visto diminuire la propria quota mondiale di esportazioni nonostante la competizione cinese.
Il calo di esportazioni della più grande fabbrica mondiale
Tuttavia sarebbe errato pensare alla Cina come a un “deus ex machina”. Il calo della domanda di beni da importare in Europa e negli Stati Uniti, conseguenza diretta della crisi mondiale in atto, ha colpito duramente anche la più grande fabbrica del mondo. Nel terzo trimestre infatti, il Prodotto interno lordo di Pechino ha fatto registrare un netto passo indietro, da +9,5% a +9,1%. Dati preoccupanti soprattutto perché, con l’avvento del 2012, si avvicina il XVIII Congresso del Partito Comunista che sancirà il ricambio della leadership cinese, un momento politico importante a cui occorre arrivarci con una situazione economica quantomeno sottocontrollo. “La situazione grave e complessa dell’economia mondiale si tradurrà inevitabilmente in una domanda mondiale insufficiente” così si è espresso il vicepremier cinese Wang Qishan, consapevole del delicato momento. Per riacquistare credibilità e spirito competitivo Pechino ha promesso alle aziende che si occupano di esportazione profondi sgravi fiscali. Ma come sempre accade, a risentire maggiormente di questa brusca frenata economica sono le famiglie. Nelle ultime settimane si sono moltiplicate le proteste dei lavoratori contro il governo e gli industriali, che fra corruzione e negazione dei diritti dei lavoratori, fanno calare i salari e aumentare il tasso di disoccupazione. A Shanghai è durato più di una settimana lo sciopero degli operai della “Hi-P International”, fabbrica che lavora in subappalto per Apple e Hewlett Packard, contro il licenziamento di circa 1000 operai in seguito alla decisione dell’azienda di spostare la produzione in un’altra città. Contro i manifestanti è intervenuta la polizia e ci sono stati scontri con feriti e arresti. Dopo i primi due giorni, l’azienda ha proposto di mettere a disposizione dei lavoratori un bus per il trasferimento, ma questo non è bastato a placare gli animi. I dipendenti spiegano che anche se trasportati da un pullman la fabbrica dista comunque un’ora e mezza da Shanghai e considerati i ritmi lavorativi, che a volte prevedono anche turni di 20 ore, tra andata e ritorno, a loro non resterebbe neanche il tempo per riposare.
I diritti negati dei cittadini
Per far fronte a questi disagi Zhou Yongkang, membro del comitato permanente del politburo del Partito Comunista Cinese, ha annunciato la necessità di creare nuove misure che abbiano “caratteristiche cinesi”, in grado di adeguarsi e soddisfare l’economia socialista del mercato, misure che prevedono oltre al miglioramento dei fondi per i disoccupati anche un aumento delle forze di sicurezza e un maggiore controllo dei siti internet, il luogo dove si diffondono gli inviti alle proteste. Ancora una volta la soluzione proposta ai problemi di carattere politico-economico del Paese si traduce nel porre un ulteriore limite alla libertà dei cittadini, fondamentalmente perché l’economia cinese dipende in tutto e per tutto dai politici che la governano come vogliono anche filtrando le informazioni o, se necessario, diffondendone di false, precludendo in tal modo al popolo la possibilità di conoscere e sviluppare un pensiero critico che li induca a far sentire la propria voce.