A Davos è in corso il meeting del World Economic Forum, appuntamento annuale di una certa rilevanza per comprendere la direzione che il mondo intende perseguire in merito a diverse tematiche.
Non si tratta certo di un centro di potere, visto che in definitiva non viene presa alcuna decisione, tuttavia la levatura dei 2.500 partecipanti, tra cui quaranta tra capi di Stato e di Governo, impone quantomeno un ascolto vigile degli interventi, i cui messaggi sono spesso nascosti tra le righe. Le discussioni in corso partono da un assunto fondamentale: l’economia rimane il cuore delle relazioni internazionali, alla base delle principali tensioni politiche, per cui ogni paese tenta di promuovere, o imporre, la propria ricetta.
Nessuna di queste, tuttavia, può definirsi giusta, rimarcando ancora una volta il fatto che l’economia non è per nulla una scienza esatta, pura matematica, ma viene declinata sulla base degli interessi particolari espressi dalle forze in campo.
I segnali che arrivano dalla Svizzera sono comunque forti e potenti. Nel primo giorno si è discusso di ineguaglianza distributiva: la notizia che la metà della ricchezza mondiale è in mano ad 85 persone ha fatto il giro del mondo grazie, alla capillare opera di diffusione promossa dai media, sempre solerti quando si tratta di divulgare dati a sfondo fortemente emotivo.
Il fenomeno, tuttavia, non sorprende certo gli addetti ai lavori, ben consci che la propagazione ormai ultra quarantennale dei modelli neo-liberisti ha acuito la distanza tra ricchi e poveri. Il problema, in questo caso, è piuttosto la tendenza riscontrata anche negli ultimi anni, quando internet e le nuove tecnologie sembravano dover aprire le porte a nuove forme di benessere condiviso.
Non è andata così, anzi si è verificato l’effetto opposto, essendo gli amministratori delegati di grandi aziende del web proprio tra le persone più ricche del globo. Dal Wef, ad ogni modo, non ci si aspetta una particolare attenzione verso i temi sociali, che vengono generalmente trattati in presentazioni collaterali, ad esempio in merito alle migrazioni occupazionali ed alle condizioni di lavoro in particolari aree geografiche.
Rispetto agli anni passati, occorre constatare un’evoluzione del dibattito, che si sposta dal breve al medio-lungo periodo. Sul piatto, infatti, non sembra più esserci la questione finanziaria nella sua accezione fatalistica, poiché si sta diffondendo la convinzione che il peggio sia passato.
Con l’attenuazione del rischio di fallimento nella zona Euro, coadiuvata da una politica monetaria fortemente espansiva da parte delle principali banche centrali mondiali, la liquidità nel sistema bancario inizia lentamente a riprendersi ed anche il credito si sta rimettendo in moto. Nonostante questo, già dai primi interventi si è capito che la notte non è passata, in quanto le paure si sono spostate su altri fronti, in primis vero Washington e Tokyo. Il nuovo governo giapponese, infatti, ha avviato una serie di riforme istituzionali volte a favorire la crescita, ma il nodo rimane sempre quello: il debito più alto del mondo (oltre il 220%) ed i crescenti deficit annuali non generano certo un approccio sereno verso l’economia nipponica.
Anche Obama ha il suo bel da fare, con il Congresso che tiene sotto scacco i conti pubblici, ed il mondo intero di conseguenza, spingendo i mercati al limite una volta ogni sei mesi. Se questi due colossi dovessero perdere la fiducia della finanza mondiale, una redistribuzione di ruoli sarebbe inevitabile.
Le ripercussioni di questo incremento del rischio paese nelle economie avanzate toccano certamente anche l’Europa, quindi anche l’Italia, soprattutto sul fronte delle modalità di reazione. Stati Uniti e Giappone si stanno prodigando per tornare competitivi e per farlo stanno svalutando le proprie monete, immettendo liquidità nel sistema e spingendo moderatamente sull’inflazione, mantenendo i tassi d’interesse ai minimi storici.
Tale operazione consente loro di sfruttare un vantaggio soprattutto verso l’Europa che, nonostante la crisi, rimane il partner commerciale privilegiato alla luce del suo mercato da 500 milioni di consumatori, tutto sommato ricchi.
Per converso, a Bruxelles e Francoforte non si pensa minimamente alle misure di risposta, anzi si continua ad insistere sul dogma antinflazionistico. In buona sostanza, i paesi europei incontrano sempre maggiori difficoltà ad esportare i propri beni fuori dai confini continentali: il cosiddetto “Euro forte”, strettamente collegato alla volontà di contenere i prezzi interni, rappresenta un limite sempre più pressante per molti (troppi) paesi.
La situazione non sembra preoccupare la Germania che, alla luce della propria specializzazione tecnologica ed alla scarsa inflazione, riesce a rimanere competitiva sui mercati, sfruttando al massimo il potenziale del Mercato Unico europeo.
Nel frattempo chi affonda siamo noi, perché i nostri beni competono con alternative a basso costo ed altrettanto bassa qualità, visto che il marchio made in Italy non influisce ancora quanto potrebbe sulle scelte del consumatore straniero.
Il ruolo del nostro Paese nell’affrontare questa ed altre questioni poste dal Wef è del tutto marginale. Una sostanziale impotenza caratterizza la nostra economia, in balia di scelte troppo complesse e quasi mai condivise all’interno dello scacchiere europeo, che dovrebbe rappresentare il megafono attraverso cui far valere il proprio punto di vista.
L’intero impianto comunitario, infatti, esprime una forte debolezza in confronto alle grandi potenze mondiali, in grado di prendere decisioni sui cambi, sull’inflazione, sulle norme afferenti la produzione sulla base di una volontà politica unitaria.
Le istituzioni europee, al contrario, si muovono lentamente perché, come rimarcato ormai da anni, viene sempre a mancare la legittimazione politica. Di conseguenza, le azioni intraprese risultano tardive e poco credibili, essendo spesso ampiamente contestate da parte dei medesimi governi che partecipano al processo decisionale.
Il punto è che l’Italia non è la Germania e nemmeno il Regno Unito, paesi che possono permettersi di dialogare separatamente con le altre potenze in virtù della loro posizione: il primo come leader indiscusso della zona Euro, la locomotiva d’Europa, il secondo come centro finanziario mondiale e detentore di una moneta che ancora oggi ha un notevole appeal.
Quando gli interessi di questi non coincidono con i nostri, come avveniva appena dieci o quindici anni fa, a rimetterci siamo noi. A Davos, in ultima analisi, non si decideranno le sorti dell’economia mondiale e tantomeno di quella italiana, ma non si può non prendere atto del declassamento di fatto del nostro paese, una triste uscita di scena che purtroppo sembra irreversibile.
L’unico appiglio a cui aggrapparsi rimane questa pur malfunzionante Europa, dove i nostri concittadini ricoprono ancora cariche di prestigio ed attraverso cui si può tornare a essere decisivi. Sarebbe dunque il caso di lavorare per rimodellare l’UE in modo da far valere le nostre idee, piuttosto che ostinarsi sulla strada del rifiuto o addirittura dell’uscita.