Oggi scriverò un articolo un po’ diverso dal solito, sicuramente più arrabbiato.
Mercoledì 4 gennaio alle 24.32, quattro rapinatori entravano in una tabaccheria di Nerviano, paesino alle porte di Milano, con l’intento di rubare l’incasso della serata e qualche pacchetto di sigarette, legavano e picchiavano il marito della proprietaria, lì di turno per la sera: un uomo di 70 anni di magra costituzione.
I quattro criminali lo hanno spinto giù dalle scale, facendogli sbattere la testa sui gradini, gli hanno messo le dita negli occhi, lo hanno preso a pugni e calci e infine gli hanno calpestato la testa.
Perché tanta violenza? L’anziano signore non aveva fatto resistenza e aveva esplicitamente fatto capire ai rapinatori che non avrebbe reagito: potevano prendere quello che volevano e andarsene. E invece no, nonostante tutto c’è stato un assurdo accanimento contro la persona.
E allora, l’occasione ci induce a chiederci: cosa è successo in queste persone che ha portato all’esibizione di tanta violenza?
Possiamo cercare di comprendere come funzionano certi meccanismi nella mente e cosa porta dal pensiero all’azione, soprattutto in un caso del genere. La pietà è (dovrebbe essere) un sentimento umano e qualsiasi cosa possa portare una persona ad agire male (odio, bisogno di soldi, crimine), nel momento in cui ci si trova di fronte un uomo di 70 anni, le difese dovrebbero abbassarsi e indurre anche le persone più vili a comportamenti meno violenti.
Invece no. E allora: cosa avviene nella mente delle persone, portandole ad agire senza alcun ritegno?
Abbiamo già visto, nei miei articoli precedenti, che persone normali possono diventare carnefici in determinate situazioni. Mi riferisco in particolare all’esperimento carcerario del dottor Zimbardo, il quale prese degli studenti universitari e li trasformò in guardie e prigionieri per gioco, provocando in essi nuovi modi di comportarsi: remissivi e impotenti coloro che erano stati “tramutati” in prigionieri, violenti e aggressivi quelli scelti (a caso) per interpretare il ruolo delle guardie. Zimbardo con questo esperimento scoprì che vi erano situazioni capaci di tirare fuori “il male” dalle persone, e se normali studenti possono diventare crudeli e sadici dittatori nel giro di poche ore, pronti a mettere in atto gratuitamente torture, anche sessuali, dove potranno mai arrivare persone già proiettate verso uno stile di vita che di per sé prevede l’utilizzo della violenza e di mezzi illegali?
Proprio come nell’esperimento di Zimbardo, in cui vi erano due gruppi, le guardie e i prigionieri, anche in questo caso si è trattato di un gruppo: questo dà molto da pensare sul potere deindividualizzante che esercita (o subisce) un gruppo, il quale porta ad una riduzione della responsabilità e un aumento dell’aggressività. Ovviamente maggiore sarà il numero di persone con cui si condivide il comportamento e “l’anonimato individuale” che il gruppo comporta, maggiore sarà il livello di deindividualizzazione.
L’anonimato è stato oggetto di un altro esperimento dello stesso dottor Zimbardo. Egli formò due gruppi di 4 donne ciascuno: le donne del primo gruppo si presentarono tra loro e ciascuna indossò un cartellino con il proprio nome. A questo primo gruppo Zimbardo si rivolgeva chiamandole per nome. Nel secondo gruppo invece le donne non conoscevano i nomi delle compagne, si vestirono con dei larghi camici da scienziati e addirittura con la testa coperta da cappucci in modo che non potessero essere riconoscibili. A questo gruppo Zimbardo si rivolgeva come unità complessiva. Ad entrambi i gruppi fu detto che stavano partecipando ad un esperimento sull’apprendimento e che dovevano somministrare delle scosse ad un’altra donna ogni volta che commetteva un errore. Ovviamente la donna era una complice e le scosse non erano reali, ma nessuno dei componenti dei due gruppi lo sapeva. Accadde che il gruppo anonimo somministrò un numero di scosse doppio rispetto a quello con i nomi dichiarati.
Anche gli aggressori di cui stiamo parlando si sentivano probabilmente deresponsabilizzati dall’anonimato in cui si trovavano, essendo in un ambiente buio e a volto coperto e proprio questo contesto potrebbe aver aumentato il grado di violenza.
Gli esperimenti del dottor Zimbardo non deludono mai fanno riflettere sulla nostra “stupidità di massa”.
Un esempio emblematico viene anche da famoso film di Stanley Kubrick “Arancia meccanica”.
Già in un altro mio articolo abbiamo visto come il singolo individuo diminuisca il suo quoziente intellettivo se immerso in una massa, in questo caso in un branco da seguire.
Come la forza di una catena è equivalente al suo anello più debole, l’intelligenza di un gruppo è equivalente a quella del componente più stupido.
Inoltre non dimentichiamoci del personaggio che stavano vestendo questi aggressori: vestendo le senso letterale. A questo proposito un esperimento identico e quello di Zimbardo, ma centrato sul ruolo degli abiti (e dunque sul “vestito” che fa il personaggio), venne fatto da Johnson & Downing nel 1979: i gruppi erano 3, uno vestito coi propri abiti, uno vestito con le “divise” del Ku Klux Klan, e uno con abiti da infermiere. Sebbene fosse proprio quest’ultimo, quello degli infermieri, il gruppo dove venne conservato l’anonimato, questo fu il gruppo che diede meno scosse, mentre quello vestito da Ku Klux Klan fu quello che diede le scosse in maggior numero.
Possiamo concludere che, a differenza di quanto si crede, l’abito fa il monaco perché il “monaco” che lo indossa si sente tale grazie al messaggio che riceve dall’abito.
L’abito del delinquente con passamontagna e guanti neri trasmette il proprio messaggio anche se indossato da normali ragazzi, inducendoli a conformare i propri comportamenti all’abito… di scena.
Queste riflessioni (difficili a causa del coinvolgimento personale: la vittima dell’aggressione è mio suocero) spero possano aiutare le persone a ragionare sempre più con la propria testa, rendendole coscienti dei rischi del potere della massa e sempre più attente e vigili nello scorgere questi meccanismi depersonalizzanti.