La crisi economica ha incrementato notevolmente le fila dei cosiddetti “euroscettici”, che vedono nell’abbandono della moneta unica la sola via d’uscita. Il movimento non sembra avere confini, visto che ogni Stato Membro ne ha uno (o più di uno): in Francia è l’estrema destra di Le Pen, in Germania sono gli esponenti bavaresi, in Olanda la destra appena sconfitta alle elezioni.
Per quanto riguarda il nostro paese, la situazione è più articolata: l’euro è osteggiato principalmente dai movimenti dichiaratamente di estrema destra, ma l’abbandono è considerato possibile anche nel movimento di Grillo. Lo stesso Berlusconi ha più volta ammiccato agli euroscettici, teorizzando un’uscita dall’unione monetaria se le condizioni economiche rimangono drammatiche.
Sul piano europeo, le motivazioni con cui diversi politici argomentano la necessità dell’abbandono della moneta unica sono profondamente differenti. In Germania, come in Olanda e negli altri paesi nordeuropei, si punta sui costi che i paesi sostengono per aiutare governi “spendaccioni”, tenuti in vita dai prestiti finanziati con i soldi dei contribuenti. In Francia, ed in misura minore anche in Italia, la critica è fondata su argomenti quasi autarchici, per cui non è possibile “farsi comandare” da paesi stranieri, che hanno interesse ad impoverire alcuni Stati: si tratta in sostanza di mantenere il principio di sovranità tout court sul proprio territorio, di cui quello monetario è solo uno tra i tanti aspetti. Rimangono poi le argomentazioni dei movimenti più mediterranei, tra cui quello italiano, dove si rimpiange la vecchia moneta, poiché l’euro è ritenuto responsabile dell’aumento eccessivo dei prezzi (e quindi del costo della vita).
Nonostante le forti divergenze, le varie anime euroscettiche europee sono accomunate dal tono e dalla modalità prettamente populista della diffusione. In tutti i paesi la matrice di questi movimenti trova nelle fasce più deboli della popolazioni il proprio bacino di consensi, attraverso la vecchia logica del capro espiatorio. Attaccare l’euro e l’Europa nel suo complesso, “esportando” magari le colpe di una classe dirigente poco attenta o di un sistema produttivo che non riesce a rinnovarsi, permette di incrementare il “profitto” di una parte politica, costituito dal numero di voti. Non è un caso che i toni del dibattito si alzino sempre in prossimità dei confronti elettorali: la stessa cancelliera Merkel, che nonostante le critiche non può essere considerata un’euroscettica, fu costretta due anni fa a rinviare la decisione sui primi aiuti alla Grecia a causa delle imminenti elezioni regionali, determinando l’acuirsi di un disastro economico fino a quel momento ritenuto controllabile.
Per un singolo paese, uscire dall’euro non è così semplice e soprattutto non sembra essere così conveniente. L’aspetto più immediato riguarda i costi di conversione della moneta: tralasciando le spese fisiche, concernenti il ripristino della vecchia valuta, si corre il rischio di una fuga di capitali all’estero, visto l’inevitabile processo di svalutazione della moneta nazionale (che secondo le stime sarebbe superiore al 50%). Se la perdita di valore della “nuova” valuta è un bene per le imprese esportatrici, che potrebbero vendere i beni prodotti ad un prezzo molto più competitivo, si assisterebbe tuttavia ad un crollo delle importazioni. In un paese come l’Italia, fortemente dipendente dall’estero per quanto riguarda in particolare le materie prime, i costi industriali aumenterebbero fortemente, al pari dei prezzi di beni a cui siamo sostanzialmente abituati (si pensi solamente ai telefoni o ai computer). L’effetto positivo per le esportazioni sarebbe inoltre temporaneo, dal momento in cui gli altri paesi inizierebbero a “proteggere” nuovamente i propri mercati da una concorrenza sui prezzi considerata sleale, attraverso il ripristino dei dazi doganali. Non si può infatti immaginare un’area di libero scambio europea senza la moneta unica, che garantisce il funzionamento competitivo del mercato eliminando alla radice il problema degli “aiuti” di politica monetaria da parte dei singoli governi.
Una volta tornati alla valuta nazionale, verrebbero poi a mancare le garanzie per un controllo “consapevole” dei conti pubblici. In altre parole, si corre il rischio di un ritorno ad un’economia “drogata” dall’indebitamento, come accaduto dagli anni ’70 in avanti, al fine di mantenere un determinato standard di vita che il sistema di mercato non consentirebbe. In questo caso sarebbe dunque inevitabile un aumento dell’inflazione, strumento che alleggerisce i debiti nel breve periodo ma rende completamente inattendibile una politica di cambi fissi, a sua volta necessaria per garantire il proseguimento dei rapporti commerciali in primis con l’Europa. Tale scenario è reso ancora più plausibile dall’influenza dei mercati: la scontata perdita di fiducia in termini di stabilità finanziaria farebbe schizzare i tassi d’interesse verso l’alto (il tasso medio sui BTP italiani degli anni ’80 era il 16%, contro il 6% odierno), facendo esplodere i costi di rifinanziamento, che pesano sul deficit e sul debito. Per fronteggiare questa situazione occorre una continua immissione di liquidità nel sistema, che genera inflazione e quindi alimenta il circolo vizioso appena descritto, isolando economicamente il paese.
Il “ritorno al passato” non pare dunque una soluzione convincente: gli effetti sui salari, sul costo della vita ed in generale sul “benessere” dei cittadini non saranno con tutta probabilità quelli previsti dai fondamentalisti dell’euroscetticismo. In un mondo economicamente integrato, non è infatti possibile prescindere da accordi internazionali, anche in presenza di una moneta nazionale, in quanto le decisioni prese da alcuni condizionano inevitabilmente le politiche di altri. Concetti simili sono ribaditi dalla critica all’euro più credibile e argomentata (ma soprattutto non populista), ovvero quella proveniente dal mondo accademico. Fin dai primi anni ’90, infatti, alcuni economisti euroscettici, in particolare americani, hanno insistito sull’inefficienza del modello monetario europeo così come progettato. La tesi principale è che l’Europa non soddisfi alcuni requisiti fondamentali della cosiddetta Area Valutaria Ottimale, quali la perfetta mobilità del lavoro tra i paesi e la piena flessibilità di prezzi e salari, necessari per fronteggiare eventuali shock che colpiscano solo alcuni paesi (asimmetrici). Per ovviare a tali mancanze sarebbe necessario implementare una politica fiscale comune, in grado di spostare risorse dalle zone “ricche” alle zone “povere”, come avviene all’interno di qualunque Stato. La conclusione è dunque in un certo senso opposta a quella offerta dai politici euroscettici: dando per assodati i benefici derivanti dalla creazione di un’area produttiva così vasta ed avanzata, occorrerebbe un’integrazione totale dei bilanci, che può scaturire solamente da una volontà politica di cessione della sovranità.
L’abbandono della moneta unica è certamente possibile, ma rimane estremamente pericoloso: ammettendo che si possa superare la prima fase critica, inevitabilmente segnata dalla una profonda crisi recessiva, il nuovo equilibrio lascerebbe ogni singolo paese in balia del mercato globale, in cui a decidere sono poche grandi potenze economiche. L’Italia, il cui vetusto sistema produttivo composto da piccole imprese presenta già notevoli difficoltà a competere in un contesto “protetto” quale l’Unione Europea, perderebbe inevitabilmente la propria posizione, dovendo confrontarsi direttamente con paesi quali gli USA, la Cina o il Brasile. Sotto tale aspetto, l’Europa rappresenta nel lungo periodo l’unica speranza per mantenere livelli economici tali da garantire standard di vita accettabili.