Nelle scorse settimane ha trovato grande risonanza la notizia, fornita dal Consiglio Universitario Nazionale (Cun), del preoccupante calo delle iscrizioni all’università, ma questa allarmante tendenza è solo la punta di una crisi che sta investendo non solo il settore italiano ma anche quello dei Paesi anglofoni. La delicatezza della situazione è evidente fin dal titolo della dichiarazione del Cun, “Le emergenze del sistema”, (in allegato).
Il primo elemento dolente è la bassa spesa che lo Stato destina a istruzione e formazione: nel 2010 è stato assegnato il 4,5% del Pil, valore ancora lontano dalla media dell’Ue (5,5%). L’Italia resta indietro anche per quanto riguarda il solo sistema universitario a cui va 1% del Pil (di cui l’0,8% alle strutture pubbliche, il resto a quelle private) contro la media europea del 1,5% e la media Ocse del 1,6% (dati Ocse 2009). 0,5-1 punti percentuali di distacco possono sembrare variazioni insignificanti, eppure il Fondo di finanziamento ordinario, principale canale del sostegno statale all’università, ha subito dal 2001 una contrazione di risorse tale da arrivare a disporre per il 2013 di una somma che è inferiore al totale delle spese fisse a carico degli Atenei.
Ulteriore settore sofferente è la spesa statale per il diritto allo studio: tra il 2009 e il
Il governo Monti e le borse di studio da tagliare
Il 15 febbraio scorso il governo uscente ha presentato alla Conferenza Stato Regioni un decreto, previsto dalla riforma Gelmini, che riformerà i criteri di assegnazione delle borse. L’intenzione è quella di differenziare a livello regionale la soglia di accesso alla graduatoria (oggi 20.124,71 euro di ISEE), per rendere l’assegnazione più equa possibile. In realtà si tratta solo di un modo per diminuire gli aventi diritto, poiché i nuovi livelli di ISEE sono tutti più bassi di quello attuale e mal si adeguano all’aumentato costo della vita (20 mila euro in Lombardia, 17.150 euro nel Lazio, 14.300 euro in Sicilia e Campania). Secondo le stime dell’Udu (Unione degli Universitari), in base ai nuovi criteri, solo il 45% degli studenti che l’anno scorso hanno usufruito della borsa di studio potrebbe aderire nuovamente al bando.
Bocciato per due volte durante
La tassa è destinata alle casse delle Regioni, che gestiscono i fondi per il diritto allo studio; ma non tutte si sono sempre comportate virtuosamente. Sempre all’inizio di questo mese, il Tar del Piemonte ha disposto il riesamino delle graduatorie delle borse di studio per il 2011/12, imponendo di “implementare i fondi con il gettito della tassa regionale per il diritto allo studio dell’anno accademico 2011/12” del valore di due milioni di euro, mai trasformati in borse di studio, mentre proprio per mancanza di fondi solo 2mila, su quasi 8mila idonei, avevano ricevuto la borsa di studio.
Le possibilità estere
Alla fine non sono solo gli studenti brillanti a rifugiarsi all’estero ma anche i giovani professori, attirati dalla possibilità di ottenere “validi contratti di ricerca” e dai differenziali di retribuzione, che possono arrivare al 50-70% in più rispetto agli stipendi offerti dall’università italiana. Questa “emigrazione culturale delle giovani generazioni”, come la chiama il Cun nel suo rapporto, accompagnata dall’impossibilità economica di attirare le migliori menti del panorama globale, non può che impoverire l’insegnamento e la formazione. È una crisi “irreversibile” quella cui gli Atenei e le Comunità Accademiche si stanno avviando. Non si tratta semplicemente di non riuscire a sostenere le spese correnti: ad essere messa in pericolo è l’esecuzione stessa dei propri compiti istituzionali, il “procedere alla formazione delle giovani generazioni, promuovere la ricerca scientifica e contribuire al contempo allo sviluppo e alla diffusione della cultura, valore costituzionalmente elevato a principio fondamentale della Repubblica”.
Le conseguenze dello svilimento del sistema formativo sono ben evidenti. Il PISA, un’indagine dell’Ocse sulle competenze degli studenti 15enni nella propria lingua madre, in matematica e nelle scienze, colloca il nostro Paese agli ultimi posti nella graduatoria dei 25 Paesi Ue partecipanti alla rilevazione. Nel 2011 il 44% della popolazione tra i 24 e i 64 anni ha dichiarato come titolo di studio più alto la licenza di terza media. Tra coloro che hanno ottenuto il diploma, quasi il 40% ha deciso di non proseguire il percorso scolastico (soprattutto gli studenti degli istituti tecnici e professionali). Un immatricolato su 5 abbandona l’università dopo il primo anno. Per l’anno accademico 2010/2011 il 33,6% degli iscritti ad un corso di laurea si è dichiarato fuoricorso. Secondo i sondaggi di Almalaurea, solo il 41,9% dei laureati di primo livello si iscrive ad una laurea specialistica od ad un master.
In aumento il numero di giovani senza arte né parte
Nel 2011 si sono contati oltre due milioni (il 22,7% dei giovani tra i 15 e i 29 anni) dei cosiddetti Neet, acronimo per “Not in Education, Employment or Training”, cioè non inseriti in un percorso scolastico e/o formativo né impegnati in un’attività lavorativa. Il mercato del lavoro è particolarmente in sofferenza per il primo impiego, tanto per i laureati che per i diplomati. Le studentesse poi sono doppiamente penalizzate: per le laureate di primo livello, la disoccupazione è al 23%, contro il 14,8% dei colleghi maschi, e al 18%, contro il 10,2% maschile, per le altre (corsi a ciclo unico o specialistici biennali).
I dati non cambiano spostandoci lungo
Usa, i prestiti non rimborsati
Questa disoccupazione “d’eccellenza” non è una peculiarità italiana, anzi è un problema diffuso a livello mondiale. La disoccupazione tra i neolaureati negli Stati Uniti ha raggiunto quasi il 4%, un valore ancora sotto la media nazionale (mentre vi si pone al di sopra quello dei disoccupati non laureati), ma preoccupante per la sua tendenza ad aumentare nel tempo. A gennaio il rapporto di TransUnion, società statunitense di analisi del mercato finanziario, sui prestiti (federali e non) agli studenti ha sottolineato le criticità della situazione. Il rischio è quello dello scoppio di una nuova bolla finanziaria, in un momento molto delicato per l’economia statunitense. La somma complessivamente erogata è cresciuta smisuratamente tra il 2007 e il 2012 raggiungendo il totale di 900 miliardi dollari; ma un numero sempre maggiore di prestiti non viene ripagato a scadenza (circa il 33% contro il 24% di cinque anni fa). Secondo gli analisti di TransUnion, questa scarsa affidabilità (senza precedenti) potrebbe essere spiegata in parte proprio dal ritorno “coatto” all’università. Non riuscendo a trovare un impiego molti laureati hanno rincominciato gli studi, dilazionando il pagamento del prestito e stipulandone spesso un altro.
Il fallimento della laurea 3+2
Se gli studenti americani hanno risposto alla crisi economica implementando maggiormente la propria formazione, come si può spiegare la fuga degli italiani dall’istruzione superiore? Dati alla mano, è dal 2008 che i giovani neodiplomati hanno incominciato ad orientarsi sempre di più verso la ricerca (vana) di un impiego. Secondo l’analisi della Fondazione Agnelli, una possibile spiegazione del fenomeno è la delusione delle famiglie rispetto alla riforma del 3+2, che ha fallito nel suo obiettivo di velocizzazione dell’ingresso sul mercato del lavoro. I nuovi laureati hanno trovato occupazioni spesso precarie e poco retribuite, a causa sia della “miopia” delle imprese italiane, che impiegano meno laureati rispetto alle loro concorrenti europee, sia degli stessi Atenei, che non hanno saputo adeguare l’offerta formativa alle richieste dal mercato. Non dovrebbe allora stupire se alcune famiglie stigmatizzino l’università come un investimento sbagliato, o perlomeno inutile. Un investimento, tra l’altro, non indifferente: la retta media dell’Università italiana (1100 euro) è tra le più alte in Europa, dove figurano anche alcuni paesi che hanno completamente abolito le tasse universitarie (i Paesi baltici e l’Austria).
C’è chi allora emigra, oppure resta a casa come i Neet; ma c’è anche chi torna alle origini: dal censimento agricolo della Coldiretti è emerso che la maggioranza dei laureati a capo di un’azienda agricola (il 6,8% del totale) proviene da facoltà diverse da quella di agraria.
dichiarazione_cun_su_emergenze_sistema.pdf