Il diritto dell’imputato ad assistere (e a partecipare) al processo costituisce un punto fermo del nostro ordinamento e, ovviamente, di ogni ordinamento ispirato ai principi del contraddittorio e della formazione della prova innanzi al giudice.
Gli artt. 24, 25, 27, 111 della Costituzione non consentono altra interpretazione.
E dunque, quando un imputato sia legittimamente impedito, è giusto e logico che il processo si fermi, finché l’impedimento non venga a cessare.
Gli artt. 178 e 179 del codice di procedura penale prevedono, come è noto, tra le nullità assolute, quelle relative all’intervento, all’assistenza e alla rappresentanza dell’imputato.
Ovviamente, tra gli impedimenti legittimi, un “posto d’onore” spetta a quelli dovuti a motivi di salute.
Non ogni problema di salute, tuttavia, costituisce un impedimento a comparire in udienza (o nella fase predibattimentale). La giurisprudenza richiede che l’impedimento sia assoluto, vale a dire che il soggetto non possa in nessuna maniera superarlo -sia pure solo per il tempo necessario allo svolgersi dell’udienza- senza pagarne conseguenze (o correre seri rischi) sul piano della sua integrità psicofisica.
È dunque impensabile (contrasterebbe con l’art. 32 Cost.) pretendere dall’imputato comportamenti che, in qualsiasi modo, mettano in pericolo la sua integrità.
Per questa ragione, si è ritenuto, ad esempio, che costituisca impedimento assoluto a comparire anche la necessità, attestata da certificazione medica, di semplice “riposo domiciliare” (Cass. sez. seconda, sent. n. 17281, 5.5/18.5.2006, ric. Barbara e altri, Rv 234753). Purché, si intende, sia indicata la patologia, in quanto, l’onere di provare l’impedimento grava interamente sull’imputato, che, dunque, in casi del genere, non può invocare la normativa sulla privacy.
Ma –questo è il nodo della questione- la valutazione della sussistenza dell’impedimento e della sua gravità è rimessa, ovviamente, al giudice.
Le Sezioni unite della Corte suprema, con una importante sentenza (n. 36635, 27.9/11.10.2005, ric. Gagliardi, Rv 231810), hanno chiarito che il giudice, anche in presenza di certificato medico, può ritenere non sussistente l’impedimento assoluto dell’imputato a comparire, purché, nel valutare la situazione, tenga nel debito rilievo la natura dell’infermità, valutandone, appunto, il carattere impeditivo e dandone conto nella motivazione del suo provvedimento (conformemente, tra le molte, Cass. sez. quinta, sent. 5540, 14.12.2007/5.2.2008, ric. Spanu, Rv 239100).
Pertanto: solo disattendendo, con adeguata valutazione del referto, la rilevanza della patologia da cui si afferma essere colpito l’imputato, il giudice potrà pervenire a un giudizio negativo circa l’assoluta impossibilità a comparire.
Ovviamente, oggetto di valutazione deve essere anche la attualità dell’impedimento, per cui è stato ritenuto corretto (Cass. sez. quinta sent. 43373, 6.10/30.11.2005, ric. Fontana, Rv 233079) il diniego del rinvio chiesto sulla base di un certificato medico, nel quale non era stata indicata la prevedibile durata della malattia.
Da qui la necessità di disporre, quando necessario, la c.d. “visita fiscale”.
In realtà, il medico del paziente e il medico fiscale hanno diverse prospettive diagnostiche: il primo ha quale obiettivo la guarigione dell’ammalato, il secondo la possibilità che il soggetto, se pur in non perfette condizioni, possa intervenire nel dibattimento, partecipando coscientemente al processo (art. 70 del codice di procedura penale), senza che sia compromessa la possibilità di guarigione.
La necessità che il processo si svolga, sia pure imponendo un qualche sacrificio all’imputato (il quale, però, può sempre rinunziare a comparire), è insita nel “sistema”, atteso che, già a livello costituzionale, con il principio della ragionevole durata del processo (art. 111, comma primo) si è voluta sottolineare l’esigenza primaria di limitare –per quanto possibile- le pendenze giudiziarie, causa di incertezza e di turbamento (anche, eventualmente) per l’opinione pubblica.
Ma, se così stanno le cose, è certamente una forzatura (per adoperare un eufemismo) una pressione extraprocessuale, volta a orientare la scelta del giudice in tema di legittimo impedimento.
La differenza tra contestazione/critica di un provvedimento giudiziario e tentativo di condizionamento del giudice è evidente. La prima è lecita; la seconda è vietata e, in taluni casi, sanzionata penalmente (artt. 377 e 611 del codice penale: intralcio alla giustizia, violenza o minaccia per costringere a commettere un reato).
In un sistema democraticamente incentrato sulla divisione dei poteri, è impensabile che i tifosi dell’imputato pretendano di far pressione sui giudicanti perché assumano questa o quella decisione, sia pure una decisione “marginale”, quale quella relativa agli stop and go delle udienze.
Il sistema processuale non può tollerare comportamenti di tal genere e quando, malauguratamente, essi dovessero esser posti in essere con allarmante insistenza, tanto da determinare una incompatibilità ambientale tra il processo e il contesto sociale nel quale esso si svolge (o si dovrebbe svolgere), il processo stesso dovrà essere “spostato” in altra sede, tramite l’istituto della rimessione (art. 45 e seguenti del codice di procedura penale).
Ancora non si era visto, però, (né aveva potuto immaginarlo il legislatore) un evento come quello verificatosi qualche giorno addietro: la “invasione” di un tribunale ad opera di un nutrito gruppo di senatori e deputati (tra i quali almeno due ex magistrati). Il folto gregge parlamentare, superato l’ingresso del minaccioso edificio littorio milanese, è entrato nel palazzo di giustizia alla ricerca di un’aula specifica, nella quale si sarebbe dovuto celebrare un certo processo.
Ora, è noto che non sono queste le modalità di ingresso in un tribunale. In genere è richiesta la esibizione di un documento e il passaggio attraverso le forche caudine di un metal detector.
È domanda retorica chiedersi che cosa sarebbe successo se una simile performance fosse stata tentata da studenti capelloni, con i canonici jeans sdruciti o da operai licenziati, muniti di caschi multicolori.
Manganellate, cariche e arresti, ça va sans dire.
E invece la TV ci ha rimandato le immagini di appartenenti alle Forze dell’ordine che facevano il saluto militare alla comitiva dei contestatori.
È stata l’immagine più eloquente del “paradosso istituzionale” che andava in scena sotto gli occhi dei telespettatori e dei cittadini (le due categorie, ormai, sono quasi corrispondenti).
Alle autorità è dovuto il saluto e l’ossequio, specie se tra di loro ci sono due ex ministri della giustizia e alcuni ex sottosegretari, tutti attuali “onorevoli”. E tuttavia il carattere “pressorio” e obiettivamente minaccioso era percepibile ictu oculi (sempre che non si abbiano disturbi alla vista, si intende) e le modalità del pellegrinaggio sul luogo del martirio volevano, con tutta evidenza, rimarcare “la squalifica” della funzione giudiziaria ad opera di soggetti titolari di rilevantissimi munera publica.
L’evento è stato deplorato in alto loco. Ci mancherebbe, verrebbe voglia di aggiungere, considerata, oltretutto, la sospetta rilevanza penale di tale condotta, certamente non coperta dal “nesso funzionale” di cui all’art. 68 Cost. e all’art 3 della legge 140 del 2003, come interpretati dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria.
E alla deplorazione orale è seguito un comunicato scritto, che, per la verità, lascia un po’ perplessi per la (apparente) posizione di equidistanza che l’estensore sembra avere assunto.
Da un lato, infatti, si afferma che il controllo di legalità è “un imperativo assoluto”, cui non può sottrarsi nemmeno chi, in una democrazia rappresentativa, abbia ricevuto una investitura popolare; dall’altro, si auspica che siano evitate “interferenze tra vicende processuali e vicende politiche”.
La formula può non essere sibillina a patto che il destinatario sia facilmente individuabile. È infatti chiaro che, quando si verificano invasioni di campo (ormai, evidentemente, non si tratta solamente di una metafora), l’attività processuale ne esce compressa e mortificata. E però occorre chiedersi, per converso, in che maniera un processo può esercitare interferenza su una vicenda politica.
Evidentemente, innanzitutto, se in esso si discuta di accuse manifestamente false, pretestuose, costruite ad arte; accuse, vale a dire, calunniose, confezionate per squalificare e neutralizzare un uomo o una parte politica.
È questo ciò che si è voluto far intendere?
Chi muove rimproveri di tal fatta dovrebbe avere solidi elementi sui quali fare perno. Se non li ha, sta egli stesso esercitando una interferenza sul processo penale, che, non si dimentichi, è essenzialmente attività di accertamento (secondo una metodica pre-data) di un’ipotesi di accusa.
Se, viceversa, si vuol significare che l’attività processuale deve tenere conto dei “tempi della politica”, bisogna intendersi: una cosa sono gli eventuali impegni istituzionali di un imputato (che, a determinate condizioni, possono costituire impedimento legittimo: cfr. Corte cost. sentenze 451/2005, 186/2005 e altre), altro è la valutazione di opportunità sulle ricadute in termini di consenso che determinate iniziative giudiziarie possono avere su questo o quel candidato, questo o quell’uomo politico.
Le scelte di opportunità non competono al giudice, il quale è vincolato (deve, dovrebbe esserlo) solo da valutazioni di stretta legalità.
Il comunicato in questione invita i giudici ad attenersi “scrupolosamente” ai principi del giusto processo. Se si pensa che così non si siano comportati alcuni magistrati, sarebbe stato opportuno chiarire quando e perché (attivando le necessarie procedure di accertamento/repressione), anche in considerazione del fatto che gli stessi magistrati sono invitati a non (o sono accusati di?) “attribuirsi missioni improprie”.
E tuttavia la fissazione del c.d. calendario di udienza è attività organizzativa strettamente endoprocessuale. Il giudice, ovviamente, deve, nei limiti del possibile, tener conto degli impegni (e degli impedimenti) delle parti e dei loro difensori. Non di altro. E deve, per quanto il carico di lavoro glielo consenta, rispettare il c.d. principio di concentrazione (art. 477 del codice procedura penale), principio che la dottrina (per tutti, Tonini) ha ravvisato nell’esigenza di evitare che vi siano lunghi intervalli temporali tra l’assunzione delle prove, la discussione finale e la deliberazione della sentenza.
Vi è di più, a nostro modo di vedere. Quando imputato è il titolare di una carica politica elettiva, vi è una ragione ulteriore per stringere i tempi: i rappresentati hanno interesse e diritto (dovrebbero) a conoscere se il rappresentante sia degno di rappresentarli, se abbia commesso reati, se si sia comportato, oppure no, con “con disciplina e onore” (art. 54 comma secondo Cost.).
Se si manifesta comprensione per l’esigenza di una forza politica di vedere garantita la possibilità al suo leader (imputato in più di un processo) di partecipare “adeguatamente alla complessa fase politico-istituzionale, già in pieno svolgimento”, si sta chiedendo al giudice di rispettare precisi e cadenzati impegni istituzionali di quel leader o lo si sta invitando ad astenersi dal fissare le udienze dei processi che riguardano quell’uomo politico per un intero arco temporale, per non disturbare il manovratore? (“fino alla seconda metà del mese di aprile” si legge nel comunicato).
Sarebbe utile capirlo. Perché, nel primo caso, la legge, la dottrina e la giurisprudenza (come sopra si accennava) hanno già trovato la risposta; nel secondo caso, la richiesta è, quantomeno, anomala, dal momento che le problematiche processuali (compresi gli impedimenti per motivi di salute) devono essere risolte all’interno del processo, con gli strumenti predisposti dalla legge e senza tener conto di fattori (e di interventi) esterni. Contro un arbitrario diniego di sussistenza di legittimo impedimento si deve esercitare il diritto di impugnazione e, per quanto a nostra conoscenza, si tratta di censure che non infrequentemente trovano accoglimento.
Il sistema processuale è un universo chiuso (si diceva una volta quod non est in actis non est in mundo) e tale deve rimanere perché la sua impermeabilità è, se non garanzia, quantomeno condizione necessaria, della indipendenza del giudicante.
Il principio è che esso ha, al suo interno, gli strumenti per autocorreggersi (le impugnazioni, le riforme, gli annullamenti).
Certo: il processo è un meccanismo (un organismo?) umano e, come tale, fallibile. Errori, anche gravi, ce ne sono stati e, purtroppo, è prevedibile ce ne saranno ancora. Ma il rimedio non è certo la interferenza esterna, neanche sotto forma della più autorevole moral suasion.
Quando il giudice celebra la legge, egli è un soggetto superiorem non recognoscens; non è gerarchicamente sottoposto a nessun altro organo, non ha un capo, sia che si chiami Giorgio, sia che si chiami Francesco.