Ho viaggiato molto in questi giorni. Ho attraversato diverse città del Nord: Bolzano, Treviso, Brescia, Milano e poi sono sceso a Roma. In macchina durante il viaggio da Milano a Roma, pioveva tutto il tempo ma nella foschia, in quel vapore denso e fermo che riempiva l’aria, il paesaggio sembrava sereno.
Mi sembrava che il sole ci fosse lì dietro a quel grigio bagnato, nascosto e per qualche ragione invisibile eppure presente come se stesse attendendo qualcosa.
Ho incontrato diversi italiani in questo mio viaggio: persone del nord e del sud, persone che vivono nella regione dove sono nati e più spesso persone che ci sono arrivate… strada facendo.
Le ho guardate, ascoltate con attenzione, credo, e ne sono stato felice.
Poi, deve essere stato stasera mentre salutavo degli amici vecchi e nuovi a Trastevere, dopo una pizza e una birra, che ho avuto il primo impulso segreto. Qualcosa che ho registrato nell’inconscio ma che non è arrivato su, dove c’è la mia volontà o la mia possibilità. Qualcosa che è rimasto segreto, come il sole in attesa, e che emerge solo ora che è notte fonda. E il sonno non viene.
Il lavoro e la vita che ha comportato questo viaggio ha fatto si che per oggi, giorno in cui scrivo questi miei articoli su golem, non avessi pronta una conversazione da pubblicare.
E’ strano, mi sono detto, ho avuto delle conversazioni così intense, ho incontrato persone che mai avrei immaginato di incontrare, ho rivisto vecchi amici con grande gioia, eppure ora mi ritrovo solo.
Deve esserci un motivo.
Ed ecco che mi è comparsa l’immagine. L’impulso si è manifestato in tutta la sua perentoria impalpabilità. E, come un ospite inatteso, si è presentato chiedendomi di eseguire, forse, un compito. Se fossi meno esperto o meno convinto che la sua venuta nasconde un interesse, una qualche convenienza per me, probabilmente lo respingerei quest’impulso e l’immagine che porta. Lo respingerei per pudore o per scetticismo, pensando che esso non è altro che stanchezza rovesciata, non è altro che un istinto infantile.
Ma stasera, prima della pizza, sono stato a teatro e ho ascoltato dei versi di Garcia Lorca.
Uno mi ha colpito, lì tradotto sul muro del teatro da una proiezione intelligente.
Diceva pressappoco che nel sogno il tempo sembra iniziare. Che il sogno è il luogo dove il tempo nasce e muore. Senza alcuna azione.
Così ora che la notte sta finendo e l’alba comincia a sorgere spinta dal gracchiare di uccelli mai sentiti qui a Roma, mi sento pronto ad abbandonarmi ad un sogno-tempo che ha qualcosa da dirmi o piuttosto che sembra volermi portare in un luogo. Spero non solo a me.
Ed eccola, allora, quest’immagine: è l’alba, in una piccola piazza disabitata di un paese italiano.
Un silenzio fermo, bianco, avvolge l’aria. Improvvisamente mi accorgo di esserci. Ma quando avverto l’impulso a prendermi per mano, come per accertarmi della mia esistenza, ecco che, voltandomi, mi accorgo che ci sono delle persone accanto a me. E altre che sopraggiungono. Sembriamo tutti piuttosto smarriti e ci guardiamo severamente. Poi, come se qualcosa ci governasse nello stesso modo, cominciamo a muoverci e c’inoltriamo nelle strade vuote e appena illuminate.
E il paese sembra complice di questo disegno così oscuro e così preciso.
Camminiamo, il camminare sembra terapeutico, sembra distenderci. Lentamente questo gruppo formato da persone di tutte le età e sesso ed estrazione sociale, si compatta divenendo un essere unico che striscia come un serpente che ha deciso di alzarsi. Camminiamo sui piedi, sui suoi tanti diversi piedi mentre gli occhi vagano tra lo stupore e la concentrazione. Dove stiamo andando?
E cosa ci faccio io qui?
Mentre la domanda si sviluppa nel mio corpo, isolandomi brevemente, mi accorgo che però quelle persone non sono estranee. Piano, uno alla volta, riconosco alcune delle persone che ho incontrato in questi giorni: un gruppo di giovani psicologi dall’aria attenta, una donna architetto, un biologo che studia i pipistrelli di notte da solo nel bosco per capire come proteggere le pale eoliche, una coppia di uomini, amanti da molti anni, un direttore di una fondazione culturale e la sua intensa assistente, una giovane fotografa straniera e bellissima che lavora nella moda, un magistrato e il suo filosofo, una ragazza in cinta proprietaria di un bellissimo negozio di cose riciclate, un signore di mezza età a cui ho chiesto un’informazione in strada, un ragazzo che sedeva di fronte a me sul treno, una signora gentile che mi ha dato da mangiare molto tardi in un ristorante riaprendo la cucina, una coppia di giovani fotografi che lavorano insieme nei matrimoni, lui fotografando gli sposi, lei tenendogli il cane in modo che anche lui partecipi alla festa, un vecchio psicologo di ottant’anni dallo sguardo dolcissimo e un tempo amico del papa, una giovane studentessa calabrese dallo sguardo attento e un po’ triste, un fisico sdentato e simpaticissimo con il suo figlio pittore forse un po’ malato ma intelligentissimo dato che programma il suo computer Hal. Una mia cara amica innamorata di un ragazzo straniero più giovane.
Perché loro? E gli altri, i tanti altri che ho incontrato in questi giorni per un solo attimo o per più attimi? Non capisco. Per quale motivo sono qui con me, in questo paese sconosciuto e che pure sembriamo conoscere, mentre procediamo in un’alba sospesa e immobile, come un chiodo ficcato nel cielo?
Camminiamo. E piano cominciamo ad uscire dal paese. Passiamo vicino ad un cimitero custodito da un cipresso che assomiglia ad un gigante magrissimo. A qualcuno gli sembra di scorgere un’ombra che si aggira tra le tombe, ma non ci si ferma. Poi le strade diventano più rade, il mosaico del paese sembra sfinirsi o aprirsi verso la pianura. Le stelle s’impossessano del nostro sguardo e sempre nel silenzio, ecco che ci ritroviamo in mezzo alla campagna.
La fotografa è rimasta un po’ indietro a guardare qualcosa ed allora il gruppo si ferma ad aspettarla. Poi lei si rivolta e si riprende a camminare.
Dove stiamo andando? Mi sento responsabile. Forse sono io che ho radunato tutti loro, qui, a vagare nella notte o nell’alba? O forse no. Mi accorgo che qualcuno mi sta guardando ma sento che è per rassicurarmi e allora mi abbandono nuovamente al paesaggio.
La campagna ci inghiotte e strani alberi ci scortano osservandoci, sento che è come se fossimo formiche cresciute che raramente si vedono comparire nella radura ma di cui loro conoscono l’esistenza. Gli alberi si guardano tra loro ammirati. E’ bello sfilare per loro e sentirli incantati per noi. Camminiamo sempre insieme. Il silenzio ha l’oro in bocca.
Finché la radura diventa più potente. Gli alberi svaniscono ed un venticello leggero viene da lontano. Ironico ma anche lui complice.
Io non so dove andare però la cosa sembra non avere importanza. Evidentemente qualcosa ci guida anche ora che non c’è più una strada.
Quando tutto sembra tornare indietro verso il buio, succhiandosi perfino l’alba, ecco che improvvisamente, così come eravamo apparsi a noi stessi, ci ritroviamo a pochi metri da un albero contorto. E seduto sotto la sua chioma riccia e crespa, un uomo si massaggia soavemente i piedi.
Ci avviciniamo.
Canticchia, sembra non accorgersi di noi. Ora tutti gli siamo di fronte, fermi nelle luce, ritornata chiara; allora lui ci guarda di sottecchi e comincia a fare delle smorfie stralunate, facendoci capire che gode come un matto di quel massaggio. Si è lui: è Totò. Lo riconosco subito e mi viene voglia di piangere, voglia di abbracciarlo. Ma il pudore mi immobilizza. Anche agli altri sembra fare lo stesso effetto. Salvo a qualcuno che essendo straniero non lo conosce. Totò muove gli occhi come solo lui sa fare, e il suo piede, tra le mani, sembra un bambino che ride di gusto. Poi esclama:
– Hai visto grillo del malaugurio? Sono venuti a trovarmi. Tu non ci credevi, dicevi che non sarebbe venuto nessuno e invece… eccoli qui. Grillo, grillaccio ora ci crederai. Dai su… scendi ora!.. Basta star lassù! Ora che sono arrivati, puoi anche scendere.
Ma Grillo non si muove. Tutti noi cerchiamo di vedere dove se ne sta, su quale ramo è appollaiato. Ma nulla si muove.
Totò allora fa cenno di avvicinarci. Lo sguardo rassicurante e complice è più di un invito e in un attimo siamo tutti sotto l’albero. Più stretti.
– Eh, il grillaccio! Gli piace fare il solitario. Ma non è cattivo. Volete provare a tirarlo giù? E’ lassù, lassù, sopra quel ramo in fondo a sinistra.
Ma ancora nulla si vede.
Totò non sembra meravigliarsi e continua il suo massaggio.
Poi con voce flebile ma decisa la studentessa esclama:
– Totò, caro Totò ho fatto un sogno.
Totò la guarda colpito e dolce. – Che sogno hai fatto figlia mia? Dimmi…
– C’era un corvo che non riusciva più a volare, aveva la testa bianca. E voleva vedere il mare.
– Il mare? Hai sentito Grillaccio, voleva vedere il mare!
E tu, tu cosa hai fatto per farlo volare?
– Niente, lo guardavo ma lui era triste.
Silenzio. L’alba. Il vento. L’albero.
Tutto sembra immobile per sempre.
La notte si era dimenticata di noi, credo di aver pensato.
Ma mentre finivo il mio pensiero, il figlio pittore si è voltato verso di me e ha alzato gli occhi verso il cielo. – Eccolo! è li… ma non guardate! Ora c’è, ora non c’è. Ora c’è, ha ripetuto lentamente, e ora non c’è.
Così siamo rimasti in attesa ancora. Mentre l’albero ci guardava e Totò continuava il suo massaggio. Poi mi sono addormentato.