Altrimenti ci arrabbiamo, Le Iene, Le invasioni barbariche, C’è posta per te, Parla con me, ma anche Stasera mi tuffo, La terra dei cuochi, I migliori anni, Ti lascio una canzone, Volami nel cuore, Chi fermerà la musica: sono sempre di più i programmi televisivi il cui nome rappresenta una citazione – esplicita o implicita – di titoli di film o canzoni.
Ad aprire le danze furono, nel 1997, Le Iene: la trasmissione di Italia 1 riprendeva dal film di Quentin Tarantino (risalente a cinque anni prima) non solo il titolo, ma anche la grafica della locandina; nel 2000, poi fu la volta di C’è posta per te, il programma di Maria De Filippi che citava l’omonimo film con Meg Ryan e Tom Hanks, uscito al cinema nel 1998. Nel 2004 toccò a La7 proporre Le invasioni barbariche: il talk di Daria Bignardi era ispirato, almeno nel titolo, al film canadese premio Oscar dell’anno prima. Più tardi, mentre Serena Dandini si ispirava alla pellicola di Pedro Almodovar Parla con lei (del 2002) per proporre su Raitre il suo Parla con me, prese il via la moda di citare, oltre ai film, anche le canzoni: da I migliori anni di Carlo Conti (in onda dal 2008, ispirata a I migliori anni della nostra vita di Renato Zero, del 1995) a Volami nel cuore di Pupo (titolo ripreso da una canzone di Mina), da Ti lascio una canzone di Antonella Clerici (dal pezzo di Gino Paoli) fino all’ultimo programma della stessa Clerici, La terra dei cuochi, citazione della Terra dei cachi di Elio e le storie tese.
Ma l’elenco sarebbe lunghissimo: Altrimenti ci arrabbiamo (l’ultimo show del sabato sera di Milly Carlucci, ripreso dal film omonimo con Bud Spencer), il prossimo Stasera mi tuffo di Canale 5 (ispirato dal brano Stasera mi butto di Rocky Roberts), Soliti ignoti di Fabrizio Frizzi (si torna indietro al 1958 e alla commedia di Mario Monicelli), Chi fermerà la musica di Pupo (dalla hit dei Pooh)… e si potrebbe continuare all’infinito.
Lo stesso Pupo parla ora di un “copia-copia di titoli” che rappresenta “il segnale di una tv sempre più in piena crisi e carenza di idee”, “costretta ad andare a succhiare nel bacino del cinema e della musica”. Ma è davvero così?
Secondo Mariagrazia Fanchi, professore associato di Storia culturale dei media audiovisivi all’Università Cattolica, “la scelta del titolo di un prodotto culturale di successo (romanzo, canzone, film) funziona da strategia di ingaggio per un particolare segmento di fruitori”. Fanchi parla di “forme più recenti di economia del simbolico, che si caratterizzano proprio per una tendenza al riuso, come capitalizzazione di un portato (anche in questo caso esperienziale e simbolico) che può essere trasferito sul nuovo prodotto e di cui quest’ultimo può beneficiare. Non parlerei dunque di carenza di creatività, piuttosto della necessità di ancorare (nel mare magnum delle proposte di consumo) i nuovi contenuti a un sostrato esperienziale solido e ricco”.
Insomma, si punta al titolo conosciuto per attirare lo spettatore. Sulla stessa linea d’onda Paola Abbiezzi, docente del Dipartimento di Scienze della comunicazione e dello spettacolo della Cattolica, secondo la quale “la ricorrenza nell’utilizzo di titoli cinematografici per i programmi televisivi non deve considerarsi un abuso, né una mancanza di fantasia o creatività. Anzi, ritengo che si tratti di una buona strategia comunicativa: il titolo deve essere necessariamente il gancio, lo stimolo per il telespettatore che trova una proposta sempre più ampia e sempre meno definita. Lo spettatore ha bisogno di orientarsi: quale migliore occasione se non quella di utilizzare un titolo cinematografico? Può senza dubbio colpire la sua attenzione e predisporlo, almeno in un primo momento, a una scelta sulla base di motivazioni inconsce. In più il cinema si fa garante di qualità a dispetto di una tv che è considerata sempre più spesso come luogo della decadenza culturale: una citazione cinematografica, dunque, offre agli autori una legittimazione più alta, quasi a presentare il parente elegante, di cui andare orgogliosi vantando anche qualche (debole) somiglianza”.
Giacomo Manzoli, docente di Forme audiovisive della cultura popolare all’Università di Bologna, sottolinea d’altra parte che in Italia “Fausto Brizzi (regista di Notte prima degli esami) è stato il primo a teorizzare l’utilità di legare il titolo di un film a quello di qualche canzone famosa per potersi meglio imprimere nella memoria dello spettatore, bersagliato da un’offerta culturale esorbitante”: si tratterebbe, quindi, di “una strategia pubblicitaria, legata alla transitività dei diversi settori dell’industria culturale. Si potrebbe rispolverare la teoria della rimediazione di Bolter e Grusin, due studiosi americani che hanno evidenziato che i nuovi media sistematicamente ‘ri-mediano’ quelli precedenti: il contenuto di ogni nuovo media, cioè, è la somma dei media che lo hanno preceduto. In questa ottica, niente di strano se la tv riutilizza contenuti dell’industria musicale cambiandoli di segno e di senso. Poi, sì, certo, c’è anche una certa stanchezza, un’incapacità di elaborare forme e concetti del tutto originali. Anche qui, niente di nuovo, è uno dei segni della postmodernità, il regno del riciclo e del riutilizzo, nella convinzione che sia quasi impossibile dire alcunché di completamente nuovo”.
Ma attenzione: “Qualcuno – conclude Manzoli – potrebbe anche ipotizzare che sia uno dei segnali di quella ‘fine della televisione’ che già nel 2007 uno studioso francese (Missika) affermava essere abbondantemente avvenuta”.