Il festival Musica di Strasburgo ha compiuto 30 anni. È nato nel 1983 su impulso di Jack Lang, allora ministro della Cultura e di Pierre Pflimlin, sindaco di Strasburgo, con la vocazione di sostenere la creazione musicale contemporanea. Ha presentato negli anni grandi compositori come Boulez, Stockhausen, Ligeti, Berio, Donatoni, Cage, Xenakis, Aperghis, Kurtág, Dutilleux, Lachenmann.
E ha sempre avuto un grande riscontro da parte del pubblico. 30 anni celebrati anche con un doppio cd dell’etichetta francese L’empreinte digitale (ED13236) che raccoglie nove prime mondiali affidate all’ensemble Accroche Note, registrate live dall’edizione del 1996 (Redemption di James Dillon) a quella del 2011 (Hypothèses du sextuor di Philippe Manoury), con lavori di Christophe Bertrand, Pascal Dusapin, Philippe Hurel, Luca Francesconi, Alessandro Solbiati, Stefano Gervasoni. Tra gli appuntamenti più interessanti quest’anno ci sono stati tre concerti sinfonici con le orchestre di Baden-Baden, di Stoccarda e di Colonia, diversi spettacoli di teatro musicale, e i ritratti di due ex-giovani-compositori, arrivati alla loro piena maturità stilistica, quarantenni destinati a diventare dei punti di riferimento nella musica del XXI secolo: Yann Robin et Francesco Filidei. Parigino, classe 1974, il primo ha studiato a Marsiglia con Georges Bœuf e poi al Conservatorio di Parigi con Frédéric Durieux e Michaël Levinas, per poi completare la sua formazione al Centre Acanthes sotto la guida di Jonathan Harvey e a Royaumont con Brian Ferneyhough.
Saturazionisti ma non troppo
È stato spesso associato alla corrente dei “saturazionisti”, ma la sua musica si dimostra in realtà più articolata, eloquente, meno magmatica rispetto a quella di alcuni suoi colleghi come Raphaël Cendo. Eppure sempre carica di tensione e di energia, come ha dimostrato la prima mondiale di Monumenta eseguito nel concerto di apertura dalla Orchestra del SWR di Baden-Baden e Friburgo diretta da François-Xavier Roth, esempio del suo stile radicale e originalissimo. Di grande potere seduttivo è stato anche Draft I, pure in prima esecuzione mondiale, lavoro per fisarmonica concepito come una forma in evoluzione, fatta di gesti violenti, di grandi soffi e turbolenze, di sonorità che eploravano i limiti tecnici e timbrici dello strumento e lo facevano apparire come un animale che sbuffava e ruggiva. Complice anche l’esecuzione di Pascal Contet, autentico virtuoso della fisarmonica, che ha suonato anche Something out of Apocalypse (2012) di Pierre Jodlowski (pezzo denso, pieno di materiali molto connotati, ispirato al film Apocalypse Now), e il collaudato Plein-jeu (2010) capolavoro di Philippe Hurel per fisarmonica e elettronica, costruito come una serie di variazioni, con una densa polifonia punteggiata da “incrostazioni” rumoristiche, e un sottile gioco di progressive contaminazioni tra i suoni della fisarmonica e quelli dell’elettronica. Tanto è satura la musica di Robin quanto leggera, aerea quella di Francesco Filidei. Nato nel 1973, formatosi al Conservatorio di Firenze e poi a quello di Parigi, allievo di Salvartore Sciarrino, Filidei è anche un apprezzato organista (allievo di Jean Guillou). Eppure il suo linguaggio musicale non ha nulla della severità e della solennità che evoca l’organo. Semmai è dominato da un gusto ludico, spesso grottesco, eppure caratterizzato da una scrittura strumentale calibrata e da un perfetto senso della forma.
Dai Fiori di Frescobaldi a Jim Morrison
A Strasburgo si è ascoltata una delle sue prime esperienze compositive, la Toccata per pianoforte composta nel 1995, dove il pianista (Wilhem Latchoumia) è chiamato ad agire sullo strumento senza suonare, ma accarezzandolo, colpendolo, grattando sulla tastiera: «il pianista evoca una voce intima del pianoforte, considerato come una specie di grande animale nero, con delle zampe, dei denti (bianchi e neri), e delle grandi labbra (il coperchio), per dare vita a una specie di scheletro musicale». Lo stesso Latchoumia, insieme all’ottimo Ensemble Linea (diretto da Jean-Philippe Wurtz) ha eseguito, ancora di Filidei, la prima mondiale di Ballata, per pianoforte e ensemble. Un lavoro incantevole, che nasceva dallo studio della musica di Chopin e di Liszt (alla quale Filidei si è dedicato durante il suo soggiorno romano di Villa Medici). Ritmica, frammentata, Ballata si basava su gamme cromatiche discendenti, su grandi scarti dinamici, sulla giustapposizione di densi blocchi di suono, di scarne linee melodiche, di improvvise trame scintillanti, con fischietti e grancassa. Il concerto dell’Ensemble Linea è stato uno dei più belli di tutto il festival, anche perché accanto alla musica di Filidei c’era quella di Fausto Romitelli, con due lavori di rara esecuzione, emblematici del suo linguaggio al tempo stesso sapiente e sovversivo: Amok Koma (2001) si muoveva tra materiali eterogenei, sottoposti a processi di ripetizione e di degradazione, scanditi da accordi del pianoforte e delle percussioni metalliche, come uno scampanio, spinti verso gli estremi del silenzio e della saturazione; Lost (1997), per soprano (l’ottima Allison Bell) e ensemble, metteva in musica i versi surreali di Jim Morrison, immagini di tempeste e mari di sangue, trasformate in un caleidoscopio di suoni, dove le linee vocali si intrecciavano con una trama piena di risonanze, intrisa di elementi pop e techno, colorata da strumenti non convenzionali (come il kazoo, l’armonica a bocca, il flauto di Pan, la chitarra elettrica). Ma torniamo a Filidei, che è riuscito a sedurre il pubblico di Strasburgo anche con Ogni gesto d’Amore (2009) per violoncello e orchestra (quella del SWR di Stoccarda), e soprattutto, nel concerto finale, con Fiori di fiori (2012). Ispirato ai Fiori musicali di Girolamo Frescolbaldi, e alla fascinazione del suono dell’organo, dai suoi mantici, dai suoi meccanismi, questo lavoro orchestrale giocava su lunghi pedali, ricche fioriture, ironiche citazioni frescobaldiane – il Capriccio Pastorale (dal primo libro delle Toccate d’intavolatura di cimbalo et organo) e il Ricercar con obbligo di cantare la Quinta parte senza Toccarla (dai Fiori Musicali) – che emergevano distorte, sinistre, affidate agli armonici degli archi, come suoni provenienti da una cattedrale sommersa. Tutto intorno una fantasmagoria di suoni, di contrattempi, di staccati, cinguettii, glissati, frustate degli archi nell’aria, sibili e soffi delle percussioni, restituita in tutta la sua meraviglia da Emilio Pomárico, sul podio della dell’Orchestra del WDR di Colonia. Finale in gran spolvero che comprendeva anche i Quatre Études (2012) di Georges Aperghis, uno dei suoi rari lavori orchestrali, che privilegiava trame dense e ovattate ma con improvvisi squarci violenti di ottoni e percussioni, e con linee stridenti che davano al pezzo un contegno espressionistico.
Il sigillo bergmaniano e gli stregoni
In programma c’era poi Body Mandala (2006) di Jonathan Harvey, bell’omaggio al compositore inglese recentemente scomparso (e molto eseguito a Strasburgo), straordinario esempio della sua musica timbrica e piena di echi lontani: come un cerimoniale pieno di fervore, evocava infatti i suoni di un monastero tibetano, i suoi oboi (gyaling), i corni (dungchen), i gong e i piatti, le lente salmodie alternate a affetti staccati, di gocciolamento, di fruscii. E infine unbalanced instability (2012) di Dieter Ammann, compositore svizzero (classe 1962, formatosi anche nel jazz e poi sotto la guida di Wolfgang Rihm e Witold Lutoslawski) al suo debutto a Strasburgo: un concerto per violino interpretato dalla bravissima Carolin Widmann, caratterizzato da textures variabili, da un materiale che si rinnovava in continuazione, dando vita a un percorso labirintico, con farsi liriche, bolle impressionistiche, lunghe fasce avvolgenti dell’orchestra, sulle quali si distendeva una parte del violino sempre più incalzante e forsennata. Rapsodico ed eterogeneo è parso anche l’altro lavoro di Amman, The Freedom Of Speech (1996), per sei strumenti, presentato in un bel concerto dell’ensemble Accroche Note. Molto più interessante, nello stesso concerto, la nuova versione di Illud etiam di Philippe Manoury: prendendo spunto da alcune scene del Settimo Sigillo di Ingmar Bergman, e da alcune vicende di stregoneria, il compositore francese affidava al soprano solista (l’estroversa Françoise Kubler) due testi (uno medievale in latino, riportato da Carlo Ginzburg in Storia notturna. Una decifrazione del sabba; l’altro un sonetto di Louise Labé), che corrispondevano a due ruoli distinti (quello dell’inquisitrice e quello della sventurata strega pronta ad essere arsa sul rogo) e a due linee melodiche contrastanti (una implacabile, rigida, sottolineata da rintocchi di campane, l’altra sensuale morbida, contornata da «fiamme sonore» suscitate dal live electronics). Da salutare come un vero capolavoro è stato Tratado de lo inasible, prima mondiale (commande d’État) di Alberto Posadas. Il compositore spagnolo (nato a Valladolid nel 1967, allievo di Francisco Guerrero, noto per aver applicato alla composizione tecniche combinatorie della matematica e teorie frattali) ha voluto esplorare in questo lavoro la natura dell’inafferrabile, dell’instabile, del discontinuo, utilizzando materiali sonori molto fragili, estratti dalle risorse di ciascuno dei cinque strumenti utilizzati – clarinetto (basso e contrabbasso), sassofono (soprano e baritono), violoncello, contrabbasso e fisarmonica. Materiali allo stato grezzo, primitivi, limitati, dotati di una grande forza d’inerzia, quindi non facilmente trasformabili, ma capaci di sprigionare energia. Ne risultava un pezzo concentrato nel registro grave, giocato su minime variazioni di dinamica, di articolazione, di emissione, che partiva da uno stato sordo e vaporoso della materia sonora, e poi si raddensava fino a raggiungere uno stato solido, molto dinamico.
Le illuminazioni
Dalla Spagna, come Posadas, veniva un altro dei compositori che più hanno impressionato al Festival Musica. Si tratta di Hèctor Parra, nato nel 1976 a Barcellona, anche lui cresciuto musicalmente in Francia, all’Ircam, poi a Lione e a Ginevra, allievo di Brian Ferneyhough, Jonathan Harvey, Michael Jarrell. Commissionato ed eseguito dall’Ensemble Intercontemporain, Caressant l’horizon (2011) chiamava in causa un organico assai vasto, per dare vita a una scrittura orchestrale satura, dove comparivano solo periodicamente zone più rarefatte degli archi, con strutture armoniche di tipo tonale (sottotraccia), cadenze, ritardi, modulazioni, che gli conferivano al pezzo l’aspetto di un grande poema sinfonico, movimentato, romantico, cataclismatico. Il festival ha dato ampio spazio al teatro musicale, con un nuovo allestimento semiscenico di Quartett di Luca Francesconi, firmato da Nuno Carinhas e affidato al Remix Ensemble (dove l’elettronica, spazializzata, sostituiva la parte orchestrale e corale della prima scaligera); con MCBTH, rivisitazione del Macbeth shakespeariano messa in scena dal geniale Guy Cassiers, piena di effetti video, di sofisticati giochi di luci e proiezioni (su una scenografia spartana, fatta di assi di legno grezzo), punteggiata dalla musica di Dominique Pauwels, per tre voci femminili (Francine Vis, Fanny Alofs, Ekaterina Levental), ensemble (lo Spectra Ensemble diretto da Filip Rathé) e elettronica. Una bella scoperta è stato il teatro musicale dell’argentino Sebastian Rivas. Nato nel 1975, ha cominciato la sua carriera a contatto col jazz, col rock, con l’improvvisazione, poi si è trasferito in Francia per studiare all’Ircam, con Ivan Fedele, Klaus Huber, Brian Ferneyhough, Jonathan Harvey, Michel Jarrell, François Paris. La Nuit Hallucinée (2012), nata come un’opera radiofonica (vincitrice lo scorso anno del Prix Italia) e presentata in forma di concerto (dall’Ensemble Multilatérale con Charles Berling come voce recitante e il soprano Isabel Soccoja), si basava su estratti dalle Illuminations di Arthur Rimbaud, e disegnava un mondo sonoro e poetico pieno di allucinazioni e collisioni di senso.
Attenti a quei due
Più legata alla realtà storica e politica era l’altra opera di Rivas – presentata recentemente anche al Teatro Palladium di Roma, nell’ambito del festival RomaEuropa: Aliados (alleati) raccontava (con l’affilata ironia del librettista Esteban Buch) la storica visita che Margaret Thatcher fece ad Augusto Pinochet, a Londra, per ringraziarlo del suo sostegno nella guerra delle Falkland. Due personaggi al crepuscolo della loro storia, che intrecciavano ricordi distorti dall’Alzheimer, dalla demenza senile, dalle rispettive convinzioni ideologiche, dando vita a una tragicommedia. La partitura, per sei strumenti e live electronics, creava un ordito sordo, con lunghe fasce armoniche, come turbolenze minacciose, con citazioni colte (dall’Histoire du soldat di Stravinskij, dal Don Giovanni di Mozart, da Pagliacci di Leoncavallo, dalla Didone di Purcell), inni (quello britannico e quello cileno), ritmi di Tango, canzoni di Frank Sinatra. I musicisti dell’Ensemble Multilatérale, diretti da Léo Warynski, suonavano sul fondo della scena. Davanti a loro si muovevano i cinque personaggi: Pinochet in abito militare giallo (l’ottimo baritono Lionel Peintre, dall’aspetto un po’ troppo giovanile), inebetito davanti alla televisione, si esprimeva attraverso un canto frammentario e ripetitivo; Lady Margaret Thatcher (il mezzo-soprano Nora Petrocenko, dalla voce calda e copiosa) in tailleur verde, si incantava in continuazione, sempre immersa nei suoi pensieri, un po’ autistica. Poi c’era l’aiutante di campo di Pinochet (Thill Mantero), in blu, sempre impegnato a somministrare medicine al suo generale; l’efficiente infermiera di lei (il soprano Mélanie Boisvert), in completo arancione; e il povero marinaio argentino (interpretato dall’attore Richard Dubelski), l’unico lacero, umano, senza colori, che simboleggiava l’intera umanità sofferente e vittima di questi personaggi odiosi. Nitido e sferzante anche l’allestimento scenico di Antoine Gindt, che mescolava la recitazione sulla scena con spezzoni di documentari, immagini d’epoca, e i primi piani dei personaggi ripresi da cameramen on stage.
(la foto è di Philippe Stirnweiss)