Non si poteva celebrare meglio il bicentenario wagneriano alla Scala che con un’edizione completa della Tetralogia. Le due integrali del ciclo, proposte in due settimane consecutive, riprendevano le quattro opere wagneriane presentate a Milano e a Berlino a partire dal 2010, nello spettacolare allestimento firmato da Guy Cassiers.
E sono state punteggiate da una serie di conferenze (tenute da Andrea Malvano e Elisabetta Fava), e proiezioni di film (il Ludwig di Luchino Visconti e Wagner di Tony Palmer). Insomma una vera full immersion per gli appassionati wagneriani. Dopo Clemens Krauss, che nel 1938 diresse alla Scala tutto il Ring nella stessa settimana, è toccato questa volta a Daniel Barenboim. La sua lettura è apparsa molto personale, quasi prima di dinamismo e di contrasti, tutt’altro che muscolare. Ma era insieme grandiosa e nitidissima, caratterizzata da tempi piuttosto lenti e sempre ad alta tensione, ricca di sfumature e di atmosfere, cesellata in ogni dettaglio timbrico e tematico, equilibratissima nel bilanciamento tra le voci e l’orchestra (ammirevole l’orchestra scaligera, in particolare nelle sezioni degli archi e dei legni), con un tempo musicale e un colore orchestrale perfettamente coerenti con la lettura scenica di Cassiers. Il regista belga, che aveva nel 2009 aveva incantato il pubblico del teatro La Monnaie di Bruxelles con un onirico allestimento dell’opera di Kris Defoort, The House of the Sleeping Beauties, viene da una delle scene teatrali, quella “fiamminga”, che è oggi tra le più originali in Europa, tra quelle capaci di dettare le nuove tendenze nel mondo del teatro. La sua regia del Ring era pensata proprio nell’arco complessivo di uno spettacolo di 16 ore, con una forma teatrale che sintetizzava molto efficacemente l’idea del dramma wagneriano, e la sua idea di opera d’arte totale (Gesamtkunstwerk), attingendo al mondo dell’opera e a quello del teatro, ma anche a quello delle arti plastiche e visive, della scultura, del cinema, della danza, della videoarte. Il groviglio di corpi umani del grande bassorilievo Les passions humaines dello scultore belga Jef Lambeaux (che si trova nell’omonimo tempio progettato da Victor Horta, a Bruxelles) offriva all’intero ciclo dovizia di elementi figurativi e simbolici che si intrecciavano con richiami agli animali in formaldeide di Damien Hirst. Le proiezioni caleidoscopiche sul fondale (video di Arjen Klerkx e di Kurt D’Haeseleer), evocavano canyon e paesaggi desertici, boschi fittissimi, immagini formicolati e continue metamorfosi di acqua, fuoco, sangue, fumo, colate di lava rossa, gialla e grigia, sciami di insetti, volti e mani, intrecciati e sfumati come nei dipinti di Gerhard Richter. Le luci, magnifiche, di Enrico Bagnoli, giocavano sulle silhouettes dei protagonisti proiettate sui lati del palcoscenico, sulle ombre ingigantite di Fafner e Fasolt che tenevano per mano una minuscola Freia, su fasci di luce gialla per l’oro del Reno, su lame sottili di luce rossa per i momenti cruenti. Bagnoli firmava anche le scene: faceva ruotare vorticosamente una sfera che incombeva, sospesa sui personaggi, come un segno del destino (e che diventava schermo per strane proiezioni dall’effetto stroboscopico); creava fitte boscaglie con lunghe aste, sottili monoliti, di materiali diversi, calati dall’alto, e variamente illuminati; stendeva pozze d’acqua sul palcoscenico, per la gioia delle figlie del reno; costruiva le scene intorno a blocchi geometrici, assemblati in forme diverse, ma con l’eco di antichi altari; giocava con praticabili che rimodulavano in continuazione lo spazio scenico: ergendo per esempio una Erda di altezza smisurata (nel Rheingold), o inclinando di 90 gradi una griglia di cubi e gabbie che diventava la fucina di Siegfired, con tubi al neon che lampeggiavano come le «gioiose faville» di Notung; disegnava la casa di Hunding con dei virtuosistici giochi prospettici e il palazzo di Gunther e dei Ghibicunghi mettendo insieme grandi teche luminose, come un macabro reliquario di resti umani, reperti di eroi morti in battaglia, che apparivano come una citazione deformata del bassorilievo di Lambeaux e insieme delle opere di Damien Hirst. Anche i danzatori (che si muovevano con le coreografie di Sidi Larbi Cherkaoui) sembravano i corpi del bassorilievo che prendevano vita, dando forma alle metamorfosi dell’elmo magico, diventando alter ego dei personaggi, incarnazione delle loro emozioni e dei loro tormenti interiori, animando il grande drago con un telo dai disegni optical. Cassiers otteneva in questo modo un flusso continuo di immagini. Non lavorava sulla recitazione dei personaggi, non cercava il gesto scenico realistico, nemmeno lo slancio eroico. Mirava a di comporre dei tableaux, fatti di gesti ieratici, molto studiati, che sembravano spesso en ralenti. La sua regia giocava sulla contrapposizione tra il mondo degli Dei e quello degli uomini, accomunati dalla medesima violenza, sete di potere e di sangue, che portava entrambi al disfacimento, e che trovava il proprio epilogo nella Götterdämmerung, letta da Cassiers come metafora della crisi della nostra epoca. Cast stellare, a partire dall’Alberich di Johannes Martin Kränzle, baritono di grande presenza scenica, dalla voce insieme possente e piena di angoscia e di accenti drammatici. Applauditissimi nel Rheingold anche il tenore Stephan Rügamer, un Loge dal timbro penetrante, bel fraseggio a notevoli doti attoriali, il tonante Alexander Tsymbalyuk nei panni del gigante Fafner, Ekaterina Gubanova (Fricka) e Anna Samuil che interpretava Freia con una raffinata voce da soprano lirico (un po’ troppo leggera invece per la Gutrune del Crepuscolo). Nel ruolo di Wotan-Wanderer si sono alternati tre intrepreti di grande spessore: Michael Volle (nel Rheingold), René Pape, al suo debutto in questa parte, e fisicamente indisposto, ma che si è ammirato per il fraseggio che coglieva bene il carattere tragico del suo personaggio (nella Walküre), e Terje Stensvold (nel Siegfried). Emozionante, per l’afflato amoroso, il senso drammatico, la copiosità delle voci la coppia dei fratelli-amanti della Walküre: Simon O’Neill (Siegmund) e Waltraut Meier, una Sieglinde intensa, attenta a ogni sfumatura semantica del testo (bravissima anche nel ruolo di Waltraute e della seconda delle Norne nella Götterdämmerung). Mikhail Petrenko, nel doppio ruolo di malvagio di Hunding e di Hagen, suppliva alla mancanza di un timbro davvero tonate e cavernoso, con un fraseggio elegante, un’emissione raffinata, e una recitazione piena di carattere. Ottimo il Mime di Peter Brunder, eccellente caratterista, lamentoso e querulo senza scadere nel grottesco (e sempre cantando), anche acrobatico nell’arrampicarsi tra le griglie della sua fucina. Meno interessante invece il Gunther di Gerd Grochowski, tecnicamente impeccabile ma senza carattere. Il tenore canadese Lance Ryan era un Siegfried collaudato, un vero Heldentenor, anche dal fisico prestante e dal fare baldanzoso. Peccato che, forse per avere abusato di questo ruolo, la sua voce apparisse non sempre intonatissima, con qualche suono fuori controllo, viziata da un vibrato ampio e fastidioso, un po’ affaticata nelle zone più liriche e nei legati espressivi. Su tutti i cantanti dominava, come una divinità dell’empiero wagneriano, la Brünnhilde di Iréne Theorin: la sua voce inondava letteralmente il teatro, con un’emissione facile, naturale anche nelle tessiture più impervie, senza il minimo cedimento, e con un canto sempre intenso, interiorizzato, ricco di sfumature espressive.