Il nuovo piano agricolo europeo non piace agli italiani che sempre più massicciamente stanno lasciando incolte le loro terre. La Politica agricola comune, nata come strumento di sostegno agli agricoltori europei, ha definitivamente spostato le sue finalità su di un piano molto più ecologista, di tutela dell’ambiente e della qualità alimentare.
Il piano comunitario per il 2014-2020vuole rendere il settore più efficace nello stimolare una “crescita economica sostenibile, intelligente e inclusiva”, obiettivo primario della strategia comunitaria decennale Europe 2020 (in allegato il documentoLa politica agricola comune verso il 2020. Rispondere alle sfide future dell’alimentazione, delle risorse naturali e del territorio). Si vuole, insomma, che l’agricoltura europea sia competitiva non solo dal punto di vista economico, ma anche sotto il profilo ambientale; la riforma di assegnazione dei fondi ha infatti privilegiato le forme di agricoltura ecocompatibili (come la rotazione dei seminativi, il pascolo permanente o il set-aside ecologico), attraverso le quali fosse possibile rivitalizzare anche il tessuto sociale rurale: le politiche comunitarie hanno sottolineato l’importanza delle vendite dirette e dei mercati locali, e fatto proprie le esigenze specifiche dei giovani agricoltori, preparando un pacchetto di aiuti alla gestione delle incertezze del mercato e dell’instabilità dei redditi, particolarmente forti in questa crisi economica.
Un sostegno da 300mila euro
La volontà dell’Unione Europea a rendere la Pac (politica agricola comune) “più verde, più equa, più efficiente e più efficace” ha comportato un netto spostamento di risorse: mentre nel 1991 le misure di mercato, come l’intervento pubblico e i prezzi garantiti, rappresentavano il 92% della bilancio Pac, nel 2009 vi è stato destinato solo il 7%. Gli strumenti di assistenza finanziaria vengono utilizzati in maniera molto più selettiva: gli aiuti al reddito saranno più mirati alla crescita, all’occupazione e soprattutto alla ricerca e all’innovazione. Il Parlamento Europeo, che ha approvato la Pac il 13 marzo scorso, ha stabilito un tetto massimo per i pagamenti diretti a qualsiasi azienda (300mila euro) e la pubblicazione dei nomi dei beneficiari dei finanziamenti agricoli, decidendo l’esclusione dei proprietari di terreni destinati ad aeroporti e società sportive, a meno che non dimostrino che l’agricoltura contribuisce al reddito annuale per una quota sostanziale. Tutto ciò ha scatenato dure polemiche da parte delle confederazioni agricole dei vari Stati membri. Ezio Veggia, vicepresidente di Confagricoltura, durante la presentazione alla sede della Facoltà di Architettura di Valle Giulia, del documentario Green generation di Sergio Malatesta, prodotto da Maiora Film, ha criticato duramente le nuove misure europee, esprimendo un’opinione comune a Cia, Confcooperative Fedagri e Legacoop agroalimentare. Secondo Confagricoltura, le politiche comunitarie vorrebbero disincentivare la produttività del settore agricolo, proprio quando è invece chiamato a rispondere ad una crescente domanda mondiale. Il settore, d’altro canto, si trova ad affrontare una grossa crisi: secondo l’Istat, negli ultimi dieci anni sono stati abbandonati circa 15000 chilometri quadrati di terreni agricoli, pari alla superficie della Calabria. A sopravvivere sono le coltivazioni più convenienti, per il positivo rapporto costi/ricavi o per gli incentivi offerti dalla legislazione comunitaria e nazionale. Al posto dei campi rinascono i boschi, creando però veri e propri allarmi ecologici: dall’avvistamento di caprioli e cinghiali ai margini della periferia di Torino, all’aumento del rischio idrogeologico in Liguria, a causa dell’abbandono delle opere di terrazzamento.
Unico dato positivo: il calo dei pesticidi
Su di una questione, però, agricoltori ed istituzioni europee possono trovare una convergenza di interessi. Secondo i dati presentati da Veggia, negli ultimi 15 anni si è registrato il 40% in meno di pesticidi, il17% in meno delle emissioni di Co2, e solo l’1,3% dei prodotti ortofrutticoli italiani non viene prodotto a norma; inoltre, in Italia, come nel resto d’Europa, le aziende agricole sono tra i più importanti siti di produzione di energia alternativa. Sostanzialmente quello agricolo è un settore strategico nella difesa della biodiversità, nonché un’ottima base di rilancio per l’energia alternativa. Europe 2020 ha posto come obiettivo di lungo termine, tra gli altri, l’efficienza energetica, da coniugarsi in tre campi d’azione: la riduzione delle emissioni di Co2, il contenimento del costo dell’energia, e il potenziamento del mercato interno. La parola d’ordine è riconversione tecnologica, attraverso lo sviluppo dell’energia solare, dei biocarburanti di seconda generazione, ma soprattutto degli impianti nucleari: la programmazione dell’Unione Europea sulla sperimentazione delle fonti di energia pulita resta dunque incerta; più forti sono gli incentivi europei alle “eco industrie”, orientate all’uso efficiente delle risorse, energetiche e non, attraverso l’utilizzo del rifiuto come risorsa. Il documentario Green generation indaga proprio sui costi e sulle potenzialità della tecnologia ecocompatibile, cercando di capire perché non riesce a trovare uno sviluppo di più ampio raggio. In questo senso, secondo Veggia, il 62% delle aziende agricole utilizzerebbe già energia alternativa, come quella solare, geotermica e di biomassa, su cui però non mancano le polemiche.
Alla ricerca dell’energia verde
Per biomasse si intende un insieme di materiali d’origine vegetale, in genere scarti da attività agroforestali, la cui combustione produce energia elettrica; la quantità di zolfo e di ossidi di azoto rilasciata è nettamente inferiore ai combustibili fossili come il carbone. Per ridurre effettivamente l’impatto ambientale però, è necessario che le centrali termiche siano di piccole dimensioni e alimentate con biomasse locali. Il biogas invece è una miscela di vari tipi di gas (in gran parte metano) ottenuta a partire dalla fermentazione batterica di rifiuti organici, letame e vegetali in decomposizione: in questo senso, se fosse più diffusa la raccolta differenziata dei rifiuti, le discariche urbane diventerebbero un’importante risorsa. Questo sistema presenta delle problematiche irrisolte di stoccaggio (alcuni batteri utilizzati durante il processo di fermentazione si sono rivelati termoresistenti); soprattutto, ha incontrato le resistenze dei movimenti ambientalisti a causa della destinazione di interi campi di maisal solo scopo energetico: “in primo luogo – ha spiegato Carlo Petrini, fondatore di Slow Food in una recente intervista – si sottrae cibo a uomini e animali per produrre energia. Inoltre, la monocoltura di mais impoverisce i terreni, aumentando la necessità di concimi chimici costosi. Il problema è che per ottenere gli incentivi statali non fa alcuna differenza il materiale utilizzato nelle centrali”. La Politica Agricola Comune 2014-2020 sottolinea invece l’importanza della sperimentazione dei sottoprodotti e prodotti di scarto per la produzione di energia. In sostanza, a trovarsi svantaggiate nella nuova riforma dei finanziamenti comunitari, sono le realtà più mastodontiche, come le cooperative: l’Unione Europea ha identificato nello sviluppo dei mercati locali la chiave per uscire da questa lunga crisi economica. Ci ha spiegato perché Maria Prezioso, docente di Geografia economica all’Università di Roma Tor Vergata e Espon Contact Point per la disseminazione del programma e dei progetti comunitari sul territorio italiano (l’European Observation Network for Territorial Development and Cohesion, o Espon, valuta per l’appunto l’impatto delle policy europee).
Ezio Veggia ha parlato di depotenziamento a livello industriale del settore agricolo; in effetti, in questi ultimi anni, la Politica Agricola Comune e le strategie comunitarie hanno sempre più spostato l’accento sullo “sviluppo rurale”, che coniuga le necessità del settore agricolo con altre problematiche, come la salvaguardia della biodiversità o l’inquinamento. Qual è l’obiettivo che si pone l’Unione Europea?
Gli obiettivi dell’Unione Europea vengono negoziati volta per volta durante i periodi di progettazione delle strategie comunitarie; arrivati al periodo successivo, alcuni obiettivi si rivelano superati dalle circostanze, altri invece confermano la loro importanza: è il caso della “sostenibilità”, che resta un punto fermo delle policy europee dalla Strategia di Lisbona 2000-2009 ad oggi. Chiaramente, da una strategia non scaturisce un solo obiettivo; emergono piuttosto dei concetti chiave, che gli Stati membri coniugano con azioni nei vari settori, tra cui anche quello agricolo. L’agricoltura però è un settore particolare: al centro della sua attività produttiva ci sono il consumatore e il territorio, ma soprattutto, le realtà rurali sono considerate dall’Unione Europea, per via di alcune loro caratteristiche, un importante capitale potenziale per il rilancio del territorio: gli studi condotti da Espon confermano che in questi tessuti sociali è più forte la social inclusion [l’integrazione di persone ai margini della società] e meno forte il problema di genere, nonché quello dell’autosufficienza energetica. Ovviamente non sono ecosistemi perfetti, ma rappresentano basi di partenza molto importanti per lo sviluppo di una green economy, il vero obiettivo dell’Unione Europea. Europe 2020 è stata definita “una sfida” proprio per questo.
Quali sono gli steps prospettati da Europe 2020? Come si può arrivare ad un sistema economico totalmente nuovo?
Occorrerà del tempo, questo è indubbio; ma non parliamo di uno stravolgimento completo. Opportunità come la certificazione di qualità permettono ai sistemi agricoli già forti di consolidare la propria posizione; ma tale produzione deve essere sostenibile: la green economy è legata alle diversità territoriali, di cui sviluppa la competitività e la sostenibilità. Questo significa impiantare filiere produttive che siano autosufficienti, emettano meno Co2 e che facciano del rifiuto una risorsa primaria. Ciò non significa che le innovazioni debbano restare confinate al settore agricolo o energetico: ad esempio, Pirelli ha prodotto pneumatici dagli scarti di riso. Il valore aggiunto di questi nuovi processi agricoli scaturisce proprio dall’integrazione con altri settori. Dalle filiere sostenibili nascono nuove forme di produzione, nuovi prodotti che troveranno nuovi mercati: le potenzialità sono immense e molti paesi europei – come la Gran Bretagna, i Paesi Bassi, il Belgio e i Paesi Baltici – le stanno sfruttando già da tempo.
In Italia chi è più attento a questi temi?
Ovviamente, la pianificazione deve essere elaborata a livello nazionale – pensiamo solo al problema infrastrutturale – ma l’adattamento ai contesti deve essere affidato alle Regioni, che sono chiamate a individuare e potenziare il proprio capitale georeferenziato. In questo senso, l’Emilia Romagna e la Toscana stanno avanzando proposte interessanti, mentre il Nord-Est è molto più reticente. Quello proposto dall’Unione Europea è un modello nuovo di economia, che inevitabilmente si trova in conflitto con i sistemi tradizionali, anche con quelli considerati virtuosi fino a qualche anno fa. Il problema è che il mondo si sta già evolvendo in questa direzione: nei paesi europei in crisi, e anche in Italia, i produttori agricoli hanno incominciato in modo autonomo a gestire il mercato del consumo nelle città. I benefici della diminuzione dei prezzi, risultato dell’abbattimento dei costi di intermediazione, si sono fatti sentire subito: la crisi e l’inflazione strisciante stanno intaccando pesantemente il potere d’acquisto dei salari.
Cosa ne pensa dell’ultima strategia nazionale?
Dall’unità centrale arrivano messaggi ambigui. Il governo Monti ha rinunciato ad una quota dei Fondi strutturali pur di entrare nella nuova Politica Agricola Comune, soprattutto per rilanciare il Mezzogiorno, decidendo di investire in campo energetico e tecnologico, sul recupero delle risorse naturali e sul turismo. Quei fondi erano destinati all’istruzione e alla ricerca e sviluppo, un’evidente contraddizione: se dobbiamo importare l’innovazione, rischiamo di alimentare ulteriormente la dipendenza tecnico-economica dagli altri paesi europei. Inoltre, sviluppando un aspetto così ristretto della green economy, la crescita occupazionale si verificherà solo in determinati settori, come l’ingegneria, lasciando insoluta la riforma dei servizi accessori, in primis gestionali e finanziari. Dov’è, mi chiedo, il territorio e la sua domanda di sviluppo “dal basso” in questa offerta per il sistema Paese?