Giovedì sera, otto marzo fonti del governo ellenico davano già per raggiunta la fatidica soglia del 75% di adesioni all’operazione di “swap” dei titoli coordinata dallo stesso esecutivo con l’aiuto delle istituzioni europee.
I non addetti ai lavori non avranno avvertito la fibrillazione della giornata appena trascorsa, tuttavia gli effetti sulla situazione italiana non saranno passati inosservati: lo spread tra BTP e Bund tedeschi è sceso al di sotto dei 300 punti base, ovvero ai livelli dello scorso agosto, per cui il tasso d’interesse sui titoli italiani è al 4,81%.
L’Europa intera, dunque, sta tirando un sospiro di sollievo, specialmente i paesi come l’Italia e la Spagna che rischiavano di ricadere in un vortice debitorio senza avere più alcuno strumento alternativo per contrastarlo.
I festeggiamenti, tuttavia, non possono essere condivisi da tutti gli interpreti della storia: in questi casi accade che vi siano pochi vincitori e molti perdenti, almeno per quanto riguarda il periodo di tempo immediatamente successivo agli eventi.
Non c’è dubbio, infatti, che il salvataggio della Grecia avrà effetti benefici per l’intera Unione Europea, i cui cittadini auspicano di poter beneficiare, nel lungo termine, di una stabilità finanziaria che possa liberarli dallo spettro del fallimento (anche altrui) e dalle conseguenti politiche economiche restrittive.
In altri termini si potrebbe affermare che in questo momento si è scelto il “male minore”, con l’obiettivo di normalizzare uno scenario che stava assumendo una conformazione catastrofica. Sarebbe però necessario cercare di capire quali siano stati gli errori commessi in passato in grado di determinare questa situazione, che peraltro potrebbe manifestarsi nuovamente, anche tra meno di un anno.
Affinché ognuno possa trarre le proprie conclusioni, è utile riepilogare brevemente quanto accaduto, partendo proprio da quest’ultima settimana, ponendo l’accento sulle responsabilità oggettive e sugli interessi che immancabilmente vengono perseguiti dalle parti in gioco.
Il punto di partenza fondamentale è la presa d’atto, riscontrata ufficialmente ormai più di un mese fa, che Atene non è più in grado di ripagare il proprio debito. In genere tale espressione si utilizza con riferimento al futuro, per cui un paese che non cresce e non riduce la spesa potrebbe incontrare difficoltà finanziarie: in questo frangente invece il problema è stato molto più pressante, nel senso che Atene non ha in cassa soldi sufficienti per pagare le scadenze di marzo.
Di qui la necessità di un aiuto esterno, consistente in 130 miliardi, il cui sblocco è stato condizionato da una parte all’adozione di misure profondamente restrittive sul piano nazionale, dall’altra alla ristrutturazione del debito. In sostanza è apparso chiaro che la prima condizione, per quanto dura, non è sufficiente a garantire il ritorno alla sostenibilità, semplicemente perché ormai è troppo tardi: i licenziamenti, le riduzioni agli stipendi e la riforma delle pensioni sono stati interventi utili più a fornire un indirizzo di politica economica, piuttosto che a porre in essere un efficace rimedio alla crisi.
L’operazione di “swap” dei titoli greci rappresenta senza dubbio un crocevia nella storia dell’Unione Europea ed in particolare della zona Euro: si tratta in sostanza di un fallimento, anche se “controllato” e consensuale, in quanto una buona parte del valore dei bond andrà persa. La modalità di rimborso prevede che il creditore riceva una nuovi titoli emessi dal governo greco, ovviamente a tassi inferiori rispetto ai precedenti, più una seconda parte in titoli erogati dal Fondo Europeo di Stabilità.
Le nuove emissioni andranno a coprire solamente il 47% del valore iniziale, mentre il restante 53% non sarà rimborsato.
Sul piano pratico può essere utile un esempio: un soggetto in possesso di titoli greci per un valore di 1.000 euro riceverà altri titoli (in parte greci ed in parte europei) che valgono 475 euro, perdendo semplicemente la quota restante. Inoltre, visto che i tassi saranno inferiori, la perdita complessiva si avvicina al 75%. Il default viene definito “controllato” perché il soggetto creditore deve aderire formalmente a questo accordo per usufruire del rimborso: in caso contrario mantiene il credito integrale, ma corre il rischio di perdere tutto nell’eventualità di un fallimento totale.
La questione si è complicata per via dei paletti imposti dal governo ellenico che ha adottato, in accordo con le istituzioni europee, una serie di vincoli per la messa in atto del piano. In particolare, affinché si proceda con l’operazione, è necessario che le istituzioni aderenti possiedano complessivamente il 90% dei titoli in mano ai privati (dal piano sono infatti esclusi i bond in possesso di istituzioni pubbliche quali la BCE).
Nel caso in cui si raggiunga la soglia del 75%, il governo greco può attivare la cosiddetta “clausola di azione collettiva” (CAC), per cui anche chi non ha aderito alla proposta sarà obbligato a convertire i titoli in proprio possesso.
Dopo una giornata di pathos l’operazione è andata a buon fine, visto che le adesioni sono oltre l’85%. L’esito sembrava essere tuttavia scontato, poiché il piano era stato precedentemente concordato con la maggioranza degli istituti bancari che detengono titoli greci: attivando la CAC il governo potrà in ogni caso costringere tutti all’adesione forzata.
Le banche sono probabilmente l’unica categoria che esce vincitrice dalla partita, dopo aver beneficiato la settimana scorsa del maxi-prestito della BCE al tasso dell’1% in tre anni.
Finora, infatti, gli istituti di credito hanno realizzato forti guadagni grazie agli interessi altissimi maturati nell’ultimo anno, mentre si preparano a reinvestire nel “nuovo” debito greco.
Chi invece non può dirsi soddisfatto sono i fondi pensione ed i piccoli risparmiatori, che difficilmente avranno modo di rifarsi della perdita subita: l’accusa che muovono contro Atene riguarda l’unilateralità della decisione, diventata di fatto vincolante per tutti.
La ristrutturazione del debito greco fa calare dunque il sipario su una vicenda controversa: basti pensare che solo un anno fa i principali rappresentati politici dell’Eurozona erano pronti a contrastare ostinatamente qualunque ipotesi di default.
In questo lasso di tempo è certamente affiorato il legame stretto ed inscindibile, probabilmente anche involontario, che vincola i paesi dell’Unione Europea, per cui un problema del singolo di traduce inevitabilmente in una questione collettiva. La soluzione adottata, tuttavia, lascia campo aperto agli sviluppi più disparati.
Non si può escludere, infatti, che si renda necessario un altro salvataggio: la profonda recessione che sta attraversando la Grecia, sospinta peraltro dall’adozione di misure indubbiamente recessive, renderà estremamente complicata la gestione del deficit per i prossimi anni, con il rischio di un ulteriore ingrossamento del rapporto debito/PIL.