Sono un direttore di carceri, in pensione, che ha esercitato questo mestiere dal 1967 al 2005. Ho sempre sentito parlare prima e constatato direttamente poi di ‘sovraffollamento’, sia con la vecchia capienza in istituti penitenziari vetusti ma capienti, sia con i nuovi istituti penitenziari.
Per quest’ultimi la ricettività è molto limitata in quanto sono state realizzate celle (pudicamente chiamate ‘stanze di pernottamento’) di 12 mq di superficie, servizio sanitario compreso, bastevoli per una sola persona, occupati da tre unità.
Va subito detto che le nuove costruzioni, costosissime, hanno destinato amplissimi spazi esterni alle sezioni, altrettanto amplissimi corridoi centrali di sezione, solo mq. 12 per le celle. Un clamoroso esempio di miopia concettuale e progettuale, che ha avuto come risultato posti per 44.000 unità fra carceri vecchie e nuove (307 istituti).
Non ci si meravigli se oggi le carceri sono endemicamente sovraffollate.
È ricorrente una opinione disinformante e cioè che la amnistie sono fatte per risolvere il sovraffollamento delle carceri. A questa opinione nei tempi recenti se n’è collegata un’altra e cioè che le amnistie sono adottate per mettere in sicurezza i c.d. “colletti bianchi”. Non saprei dire quanto queste opinioni siano fondate, certo è che di amnistie ne sono state fatte sette, nei seguenti anni: 1946, 1953, 1966, 1970, 1978, 1981, 1990.
Gli indulti. Ne è stato fatto uno in più: 1946, 1953, 1966, 1970, 1981, 1990, 2006. Nel 2006 furono scarcerati circa 17.000 detenuti, era il momento buono per un riordino di tutta la legislazione (codici penali e di procedura compresi), una riorganizzazione dei servizi penitenziari, senza i quali il provvedimento sarebbe stato rapidamente vanificato e, infatti, così è accaduto. Delle carceri nessuno più si è occupato, sono entrate nel cono d’ombra mediatico. I suicidi financo nel personale di polizia penitenziaria non hanno minimamente scalfito la granitica indifferenza delle classi politiche anche ai massimi livelli.
Nel campo della ristorazione gli esercizi si giudicano dallo stato dei loro servizi sanitari, in democrazia dallo stato anche delle carceri.
Dopo il 1994, con il brusco congedo di Niccolò Amato, direttore generale, una cappa plumbea è calata sui penitenziari. Non solo. Non ne sono stati costruiti altri. Problemi di natura finanziaria? Non credo, i soldi si trovano sempre come negli anni ’80, dunque problemi di natura politica, le carceri non erano più di moda, i colletti bianchi sono riusciti a sterilizzare quasi tutte le eventualità di finire in carcere, sia di natura procedurale che di diritto sostanziale. Al vertice dall’amministrazione penitenziaria si sono avvicendati magistrati, l’ultimo dei quali si chiama Franco Ionta, piemontese di Casale Monferrato, laureato a Napoli, in magistratura dal 1976 e, dopo una applicazione alla Procura della Repubblica di Nuoro, approdato alla procura della Repubblica di Roma, entrando a far parte della direzione distrettuale antimafia e successivamente a capo di un pool di magistrati che si occupava di terrorismo nazionale e internazionale.
Inoltre, il capo dipartimento è anche capo della polizia penitenziaria, funzione accessoria che fu istituita da Niccolò Amato.
Insomma, un incarico ben remunerato e molto ambito.
Questa digressione non è inopportuna perché il capo dipartimento, prima definito direttore generale, esercita, o dovrebbe esercitare, una funzione propulsiva di tutte le iniziative, legislative e amministrative, atte a migliorare la qualità di vita all’interno delle carceri, presupposto ineliminabile per l’attuazione di programmi di recupero e riadattamento sociali dei detenuti in esecuzione di pena detentiva definitivamente irrogata.
Ovviamente, questa attività deve essere posta in essere ‘cum grano salis’, ma è ineludibile.
Certo dal 2001 in poi la vita di questa figura istituzionale non è facile, tutt’altro.
Fatto sta che il sovraffollamento nelle carceri montava in forma quasi esponenziale mentre i posti letto disponibili restavano sempre gli stessi. Ciò che è mancato, in modo stridente, è una politica dell’esecuzione penale che facesse il minimo sindacale, e cioè le previsioni di crescita, di incremento delle persone finite in carcere, sulla cui base adottare le opportune iniziative propositive.
Dunque, da una parte non si aveva idea di come sarebbe stato il futuro, e se la si è avuta non mi pare che sia filtrata tramite i media nazionali. Dall’altra parte si è puntato a rimedi non molto efficaci, quali le misure alternative alla detenzione le quali, a regime, concorrono a diminuire non di molto la pressione demografica nelle carceri ma non altro.
E allora? Ecco, bisognava approntare un programma di nuove costruzioni di carceri dislocate opportunamente sul territorio nazionale, con i finanziamenti necessari, tenendosi presente che costruire un carcere non basta, occorre infatti programmare e realizzare in modo sincronizzato la consegna del nuovo carcere con le risorse (economiche e di personale) necessarie a creare le infrastrutture.
A me fu affidato il compito di mettere in funzione il nuovo carcere di Busto Arsizio (1984) e quello di Pavia (1992). Solo per il carcere di Pavia fui convocato a Roma, assieme ad altri direttori aventi lo stesso compito, per sapere di cosa avevamo bisogno per procedere. La convocazione era senza ordine del giorno. Ci fu detto che di assegnare personale non se ne parlava, dovevamo arrangiarci con quello presente nel vecchio istituto. Poi ci fu chiesto di quali risorse economiche necessitavamo. Avendo esercitato con costante applicazione la funzione di ‘funzionario delegato’ e gestito le gare non ebbi difficoltà a stilare un pro-memoria. Naturalmente operai per eccesso e la somma fu assegnata. Pavia fu certamente un carcere messo in funzione in modo soddisfacente.
Non essendo stato fatto nulla che io sappia nel periodo 1995-2006 fu giocoforza por mano ad un progetto di amnistia-indulto, che si tradusse nella legge n.241/2006 concernente il solo indulto (inspiegabilmente, il progetto di amnistia fu stralciato e collocato su binario morto). Fatto curioso, fatta la legge con una ampia maggioranza trasversale la stessa divenne improvvisamente orfana di padre. Non solo. Il CSM denunciava, cinque mesi dopo, che l’indulto estingueva la pena ma non il reato (ovvio, il reato lo estingue l’amnistia), che i reati sicuramente indultati comportavano ugualmente la necessità della celebrazione del processo e quindi gli uffici giudiziari non trassero alcun vantaggio, anzi.
Cosa dire? Che il legislatore moderno ha perso ampiamente, talvolta volutamente, le buone nozioni di tecnica legislativa.
Con l’indulto del 2006 furono scarcerati circa 17.000 detenuti, uno strascico di polemiche si ebbe nella valutazione quantitativa e qualitativa della recidiva. Perdonino gli studiosi, ma ciò fa sorridere, non furono scarcerati soggetti che avevano seguito un percorso rieducativo (oggi più problematico che mai) ma persone accatastate nelle carceri e messe fuori al come va va!
Dal 2006 a oggi nulla è stato fatto per affrontare il problema sovraffollamento e ciò non sorprende, anzi sembra in linea con la cultura dei ministri della giustizia e dell’intero governo precedente.
Oggi la situazione sembra disperata, anche se Nicola Gratteri il 19 dicembre 2011, intervenendo ad Agorà ha detto non esser vero che mancano i posti, vi sono intere sezioni chiuse perché manca il personale.
Sacrosanto. Infatti vi sono sezioni rifatte e sezioni nuove di zecca chiuse. Queste ultime, non moltissime, fanno parte del piano straordinario di edilizia carceraria, che avrebbe dovuto consegnare nel 2010 47 nuovi padiglioni, elaborato da Franco Ionta, divenuto nel frattempo Commissario straordinario alle carceri, con relativa retribuzione aggiuntiva.
Ho visto personalmente, sia pure da lontano, come si intendevano realizzare i suddetti padiglioni ‘modello L’Aquila’. Qui la situazione diventa tragicomica: all’interno dei campi sportivi detenuti delle carceri nuove precedente realizzati ed in uso da anni! Ne consegue che i campi sportivi sono stati definitivamente sacrificati, mentre i padiglioni non sono ancora entrati in funzione.
Mi perdonino gli interessati, questo si chiama dilettantismo.
Ora il nuovo governo, formato da tecnici di prima grandezza, ha anche questo problema, il sovraffollamento.
Questi detenuti sono veramente dei disperati, provenienti da varie etnie, incapaci per fortuna di aggregazioni e reazioni che vadano oltre il manifestare il proprio disagio con gesti di autolesionismo spesso spinti fino al suicidio.
Memore delle rivolte degli anni ’70 sembrava incedibile che non si innalzasse una protesta collettiva nelle carceri di grande dimensione. Negli anni ’70 il “la” alla rivolta lo davano S. Vittore, Regina Coeli, a seguire un po’ dappertutto.
Oggi la sofferenza ha piagato gli animi fino a renderli incapaci di reazioni collettive.
Questo governo, nonostante le peculiarità della sua natura di governo politico fatto da non politici, si sta facendo carico di varare una misura non più tampone ma strutturale.
Il ministro della Giustizia Paola Severino ha sottoposto al consiglio dei ministri del 17 dicembre 2011 un programma, che contiene misure in materia di giustizia penale e civile, tra cui un decreto-legge che si occupa del sovraffollamento nelle carceri e delle misure necessarie per azzerarlo, definito decreto-legge sull’emergenza nelle carceri.
Le misure introdotte, recita la relazione, riducono il fenomeno delle “porte girevoli” e consentiranno di applicare la detenzione presso il domicilio introdotta dalla legge n. 199 del 2010 per un maggior numero di detenuti.
La legge 199/2011 prevede l’esecuzione presso il proprio domicilio delle pene detentive non superiori ad un anno (art. 1). Il comma 1 recita: “1. Fino alla completa attuazione del piano straordinario penitenziario nonché in attesa della riforma della disciplina delle misure alternative alla detenzione e, comunque, non oltre il 31 dicembre 2013, la pena detentiva non superiore a dodici mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena, è eseguita presso l’abitazione del condannato o altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza, di seguito denominato «domicilio».”
A me sembra un altro e classico effetto annuncio. Dopo il primo comma la norma diventa di difficile lettura, come al solito.
Più in dettaglio, continua la relazione, il provvedimento introduce due modifiche nell’art. 558 del codice di procedura penale (convalida dell’arresto e giudizio direttissimo). Con la prima si prevede che, nei casi di arresto in flagranza, il giudizio direttissimo debba essere necessariamente tenuto entro, e non oltre, le quarantotto ore dall’arresto, non essendo più consentito al giudice di fissare l’udienza nelle successive quarantotto ore.
Con la seconda modifica viene introdotto il divieto di condurre in carcere le persone arrestate per reati di non particolare gravità, prima della loro presentazione dinanzi al giudice per la convalida dell’arresto e il giudizio direttissimo. In questi casi l’arrestato dovrà essere, di norma, custodito dalle forze di polizia, salvo che ciò non sia possibile per mancanza di adeguate strutture o per altri motivi, quali lo stato di salute dell’arrestato o la sua pericolosità. In tali casi, il pubblico ministero dovrà adottare uno specifico provvedimento motivato.
Come si vede, due importanti novità, soprattutto la seconda, pur con i distinguo e le limitazioni introdotte.
In altri tempi vigorose sarebbero state le proteste, oggi dubito che ve ne saranno se non per onor di firma.
Queste misure consentiranno di ridurre significativamente e con effetti immediati lo stato di tensione detentiva determinato dal numero di persone che transitano nelle strutture carcerarie per periodi brevissimi (nel 2010 altre 21.000 persone sono state detenute per un periodo non superiore a tre giorni).
Si tratta del fenomeno, descritto con una non bella espressione “porte girevoli” (ma non si tratta del Grand Hotel), la cui causa prima andrebbe individuata nella legislazione di emergenza voluta dalla Lega Nord.
Il decreto-legge prevede altresì l’innalzamento da dodici a diciotto mesi della pena detentiva che può essere scontata presso il domicilio del condannato anziché in carcere. Secondo le stime dell’amministrazione penitenziaria, sarà così possibile estendere la platea dei detenuti ammessi alla detenzione domiciliare di ulteriori 3.300 unità, che si aggiungeranno agli oltre 4.000 che ad oggi hanno beneficiato della legge 199 del 2010.
È stato anche approvato un Disegno di legge per il recupero dell’efficienza del processo penale.
Interviene su quattro materie, attraverso lo strumento della delega al Governo: depenalizzazione; sospensione del procedimento nei confronti degli irreperibili; sospensione del procedimento con messa alla prova; pene detentive non carcerarie.
a) depenalizzazione: si prevede la trasformazione in illecito amministrativo dei reati puniti con la sola pena pecuniaria, con esclusione dei reati in materia di edilizia urbanistica, ambiente, territorio e paesaggio, immigrazione, alimenti e bevande, salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, sicurezza pubblica. Sono inoltre escluse dalla depenalizzazione le condotte di vilipendio comprese tra i delitti contro la personalità dello Stato. Il termine per l’attuazione della delega è di diciotto mesi.
b) sospensione del procedimento nei confronti degli irreperibili: coerentemente con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo si tende a garantire l’effettiva conoscenza del processo. La delega prevede che la sospensione del dibattimento comporta una sospensione della prescrizione per un periodo pari a quello previsto per la prescrizione del reato; quindi se il reato si prescrive in 6 anni, il corso della prescrizione sarà sospeso per 6 anni, dopo i quali ricomincerà a decorrere. Questo periodo dovrà servire a portare il processo a conoscenza dell’imputato. La sospensione del processo non opera nei casi in cui si può presumere che l’imputato abbia conoscenza del procedimento, ad esempio quando è stato eseguito un arresto, un fermo o una misura cautelare o nei casi di latitanti (che si sono volontariamente sottratti alla conoscenza del processo). La sospensione del procedimento non opera nei casi di reato di mafia, di terrorismo o degli altri reati di competenza delle Direzioni distrettuali.
c) sospensione del procedimento con messa alla prova: è prevista in caso di reati non particolarmente gravi (puniti con pene detentive non superiori a quattro anni). La sospensione con messa alla prova è rimessa a una richiesta dell’imputato, da formularsi non oltre la dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado. La messa alla prova consiste in una serie di prestazioni, tra le quali un’attività lavorativa di pubblica utilità (presso lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato), il cui esito positivo determina l’estinzione del reato. Potrà essere concessa soltanto una volta (o due, purché non si tratti di reati della medesima indole) a condizione che il giudice ritenga che l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati.
Si è ritenuto di chiedere il parere di un esperto del diritto, il dr. Roberto Ormanni, ecco qual è stata la risposta.
Il decreto della Severino non pare chiarisca se la sospensione del procedimento riguarderà in astratto tutti i reati che prevedono pene detentive massime non superiori a 4 anni (indipendentemente da quale pena sia stata in concreto inflitta con la condanna) o se invece, appunto, sarà sospesa l’esecuzione della pena non superiore a 4 anni in concreto.
Sul piano logico dovrebbe essere così: non avrebbe infatti gran senso riferirsi alla pena in astratto prevista: anche per una rapina si può essere condannati a meno di 4 anni, sebbene in astratto si potrebbe essere condannati a 10 anni o anche un terzo in più, cioè 13 anni e qualche mese, in presenza di aggravanti particolari.
Se l’obiettivo è svuotare le carceri bisognerebbe guardare alla pena che in concreto va scontata.
Ma se non fosse così, se invece si parlasse di delitti puniti in teoria con pene non superiori a 4 anni (indipendentemente dalla pena irrogata in concreto), per quanto riguarda i reati contro la pubblica amministrazione, l’elenco di quelli puniti nel massimo con meno di 4 anni è questo:
peculato mediante profitto dell’errore altrui (316)
malversazione a danno dello Stato (316bis)
indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato (316ter)
corruzione per atto d’ufficio (318)
istigazione alla corruzione (322)
abuso d’ufficio (323)
utilizzazione di invenzioni conosciute per ragioni d’ufficio (325)
rivelazione di segreti d’ufficio (326)
omissione di atti d’ufficio (328)
rifiuto o ritardo di obbedienza commesso da un agente della forza pubblica (329)
interruzione di pubblico servizio (331) –
a meno che non si tratti di capi o promotori per i quali il massimo è 7 anni
sottrazione di cose sequestrate (334)
violazione colposa di doveri connessi alla custodia di cose sequestrate (335)
interruzione di pubblico servizio commessa da privati (340) –
anche in questo caso però per i promotori la pena massima è 5 anni
oltraggio a corpo politico, amministrativo o giudiziario (342)
oltraggio a magistrato in udienza (343)
offesa all’autorità mediante affissioni (345)
usurpazione di funzioni pubbliche (347)
abusivo esercizio di una professione (348)
violazione di sigilli (349)
turbata libertà degli incanti (353)
astensione dagli incanti (354)
inadempimento di contratti di pubbliche forniture (355)
Si tratta di reati per i quali già attualmente è assai difficile, se non impossibile, ritrovarsi in carcere.
Dunque se il problema è escludere dal provvedimento espressamente i delitti contro la pubblica amministrazione per i quali è prevista una pena edittale massima inferiore a 4 anni, non ha senso nemmeno discuterne.
Perché tanto comunque non si finisce in galera.
Se invece il punto è escludere i delitti contro la pubblica amministrazione per i quali si sia stati CONDANNATI a pene inferiori ai 4 anni, il punto è: sono davvero pochi i pubblici amministratori o i privati cittadini che vengono condannati per delitti contro la pubblica amministrazione a pene inferiori a 4 anni che vanno a finire in carcere.
Tutti i casi di cui si parla, quelli che riguardano persone finite in carcere, sono relativi a condanne superiori ai 4 anni. Indipendentemente da quali siano i minimi e i massimi edittali previsti per il delitto. E allora sono comunque esclusi dal provvedimento.
Aggiungo io che appare concettualmente difficile da accettare che si sospenda il procedimento, su richiesta dell’interessato e non oltre la prima udienza dibattimentale, si provveda alla ‘messa alla prova’ un soggetto ancora imputato e successivamente, ad esito favorevole della messa alla prova, si estingua il reato di un soggetto ancora virtualmente imputato, salvo che alla richiesta di applicazione della misura (messa in prova) non venga data la valenza di una confessione. Ma se la messa alla prova non funziona? Decade tutto e il soggetto verrà processato? Bisognerà leggere l’articolato e la relazione relativa.
d) pene detentive non carcerarie: è prevista l’introduzione di due nuove pene detentive non carcerarie: la reclusione e l’arresto presso l’abitazione o altro luogo di privata dimora. Queste pene sono destinate a sostituire la detenzione in carcere in caso di condanne per reati puniti con pene detentive non superiori a quattro anni. Le nuove pene saranno applicate direttamente dal giudice della cognizione, con notevoli vantaggi processuali. Si tratta di modifiche in linea con gli obiettivi generali del provvedimento legislativo, che intende realizzare una equilibrata “decarcerizzazione” e dare effettività al principio del minor sacrificio possibile della libertà personale.
Premettendo che le iniziative del ministro Severino sono totalmente condivisibili, su questo DDL si sono appuntate aspre critiche dell’opposizione parlamentare, a destra e a sinistra, per quanto queste distinzioni possano valere.
Ciò che è stato aspramente criticato è il limite di quattro anni, con riferimento ai punti c) e d).
Le argomentazioni addotte sono sia di tipo sostanziale sia di tipo formale.
Si sostiene che manchi una precisa preclusione all’accesso a queste misure per i responsabili di delitti contro la P.A. Ebbene, si sostiene che l’argomentazione è priva di pregio in quanto a causa di condanne miti gli autori di questi delitti contro la P.A. in carcere ci restano ben poco. Appare quindi inutile protestare perché il limite dei quattro anni non sia stato escluso per loro.
Si sostiene ancora che in questo modo i responsabili di reati in carcere non ci vanno per niente. È solo parzialmente vero, dipende dalla interpretazione che sarà data al limite dei quattro, ovvia durante il processo [v. punto C)], tutt’altro che ovvia quando si tratti delle due nuove ‘pene detentive non carcerarie’. In questo caso si potrebbe concedere che si tratti di pene detentive ‘residue’ come per le ‘misure alternative alla detenzione’.