Il balletto è un genere che aveva intercettato le pulsioni della modernità all’inizio del XX secolo, ed è stato a lungo strettamente legato alle vicende delle avanguardie musicali, basti pensare al sodalizio di Stravinskij con Sergej Djagliev e i Ballets russes, o quello di John Cage con Merce Cunningham. Poi questo legame si è via via allentato, la danza contemporanea ha seguito la propria strada senza più rivolgersi al mondo della musica contemporanea, e la diffidenza è diventata reciproca.
Eppure il mondo della danza resta un ambito ideale per la nuova musica, capace da un lato di coniugarsi molto bene con ogni tipo di nuova sperimentazione musicale, anche nelle sue declinazioni tecnologiche e multimediali, dall’altro di veicolare storie, narrazioni, di dare “corpo” e concretezza teatrale alle più diverse forme di drammaturgia. E quindi di coinvolgere il pubblico. Un esempio è stata la ripresa del balletto Čiurlionis di Giedrius Kuprevičius, messo in scena al Teatro dell’Opera di Vilnius. È un balletto strettamente legato alla musica, sia perché la partitura non è un collage di pezzi preesistenti, ma è stata scritta appositamente per la coreografia di Robert Bondar, sia perché la trama racconta la vicenda umana di un compositore, Mikalojus Konstantinas Čiurlionis (1875-1911), uno dei miti della musica in Lituania. Čiurlionis è stato una figura poliedrica di compositore e di pittore, vissuto sempre in sempre in miseria, afflitto da malattia mentale che lo portò all’internamento in manicomio (nel 1909) e alla morte. La vita breve e drammatica di questo artista cult, ammirato anche per l’originale sinestesia tra suono e colore, e per le tematiche bibliche trattate in maniera molto personale, si prestava assai bene come trama di uno spettacolo teatrale. E Giedrius Kuprevičius (compositore nato a Kaunas nel 1944, allievo di Eduardas Balsys, attivo come organizzatore musicale, curatore di programmi televisivi, e anche vice-ministro della Cultura) ha dedicato a Čiurlionis il suo diciannovesimo lavoro per il teatro: «Nessuno sa esattamente quali drammi si siano scatenati nell’animo di Mikalojus Konstantinas Čiurlionis, quali immagini e quali suoni abbiano agitato la sua immaginazione. Sappiamo una cosa sola: che le sue visioni, conservate per sempre nei suoi dipinti, nelle sue partiture, nelle lettere, nelle fotografie, contengono una grande quantità di luce. I lavori di Čiurlionis non mi sono mai sembrati cupi o disperati. È vero, hanno in sé molti elementi di tragedia, di cupe premonizioni, eppure la maggior parte delle sue creazioni venerano gli dei della luce, della bontà e dell’amore». Così ha raccontato in questa partitura la vicenda umana dell’artista, vissuta tra Vilnius, San Pietroburgo e Varsavia, senza farne un racconto biografico, né un’agiografia: ne ha svelato piuttosto la fragilità, gli amori (per Marija, Bronislava, Sofija), l’istinto creativo, ha descritto un uomo in carne e ossa, ma con una sensibilità fuori dal comune. Ha intessuto una trama orchestrale intrisa di lirismo, ma anche piena di distorsioni, disturbanti e drammatiche, punteggiata da momenti onirici, surreali, e danze dal carattere panico (che riecheggiavano Daphnis et Chloé di Ravel), in un insieme ricco di contrasti e di colori tenuto bene insieme dalla direzione di Robert Šervenikas. Ha anche citato alcuni temi, molto dissonanti, dello stesso Čiurlionis (temi che venivano proiettati sul fondale), ha interpolato alcuni interventi elettronici, elementari ma teatralmente efficaci (come gli effetti di gocciolamento), ha usato sistematicamente voci fuori scena: quelle delle tre donne amate, e un coro che faceva spesso da inquietante fondale sonoro. Questa musica calzava molto bene con lo spettacolo cerato dal polacco Robert Bondar, una coreografia “psicologica”, fatta di gesti plastici, molto sensuali e drammatici, strettamente legati alle luci, ai costumi, alle scenografie (il team artistico comprendeva Diana Marszalek, Julka Skrzynecka, Maciek Igielski, Ewa Krasucka): tutti elementi visivi che trovavano ispirazione proprio nelle opere pittoriche di Čiurlionis, che giocavano su apparizioni improvvise e su rispecchiamenti, che sfruttavano pareti fatte di nastri e attraversabili, pavimenti di specchio, drappi strappati, luci radenti, sul forte contrasto tra i filmati di una società Belle Époque, indaffarata e gioiosa, e il dolore evocato dalle scene d’ospedale, dalla costante presenza di un letto, dalla proiezione di volti deformati come usciti da un incubo.
Di natura più spettacolare, e molto cinematografica, era invece il balletto Lumikuningatar (La regina delle nevi) di Tuomas Kantelinen, presentato all’Opera di Helsinki nella tipica programmazione natalizia e famigliare che segue la scia dello Schiaccianoci čajkovskiano. Kantelinen, nato nel 1969, allievo di Eero Hämeenniemi alla Sibelius Academy, celebre non solo come autore di musica sinfonica e cameristica e di un’opera, ma soprattutto per le colonne sonore di numerosi film (Rukajärven tie, Äideistä parhain, Mindhunters, Mongol) e di musica per la televisione, ha composto questo balletto nel 2012 per l’amico coreografo Kenneth Greve. Spettacolo che ha avuto subito grande successo, e che è stato ripreso ancora venti volte in questa stagione, sempre con il tutto esaurito. La lunga articolata fiaba di Andersen (che ruota intorno ai due amici Kerttu e Kai, alla regina malvagia, a uno specchio incantato) piena di personaggi e animali simbolici, è stata rivisitata e adattata a una partitura per balletto, che coglieva tutta la magia di quell’universo ghiacciato, dimostrava la grande maestria compositiva di Kantelinen. Una musica tutt’altro che sperimentale, ma che evitava i cliché più frusti del genere, una musica sensibile, festosa, descrittiva, molto comunicativa, piena di colori, magnificamente orchestrata, con diversi inserti elettronici che contribuiscono a creare un clima magico e misterioso (come le risate dei bambini e le voci delle streghe, spazializzate). Molto descrittiva anche la coreografia di Kenneth Greve, ballerino e coreografo danese, formatosi all’American Ballet di New York, e che è poi passato tra il New York City Ballet, l’American Ballet Theatre, il Balletto dell’Opéra di Parigi (dove Nureyev gli ha conferito lo status di Étoile), i teatri di Stoccarda, Vienna, Copenhagen, ora direttore artistico del Balletto Nazionale Finlandese. Nella seconda parte si arricchiva di danze caratteristiche (estone, spagnola, araba, cinese, russa) e di animate battaglie (tra guerrieri e danzatrici vestite da ghiaccioli). Bravissimi i due protagonisti, di scuola russa, Maria Baranova e Sergei Popov. Alla spettacolarità dell’insieme contribuivano anche i costumi di Erika Turunen e le sofisticate luci di Mikki Kunttu, gli inserti video, che parevano confondersi con la scena, l’uso delle più moderne tencologie: le fate, per esempio, volteggiavano non solo sulle punte ma anche in segway.