Secondo il neo-presidente della Repubblica di Serbia, Tomislav Nikolić, l’uccisione di 10.701 cittadini bosniaci di orientamento musulmano a Srebrenica tra l’11 e il 15 luglio 1995 “non è stata un genocidio”.
Nikolić così si è espresso lo scorso 1° giugno a Podgorica, in Montenegro, ben sapendo che le sue parole avrebbero destato scarsa impressione all’estero ma avrebbero avuto una certa eco in patria. Laddove Nikolić deve fare leva sulle pance e sull’odio per tenere alto il suo consenso.
Il signor Nikolić è un nazionalista, da sempre, e non ha mai provato neppure per un istante nella sua vita a nasconderlo. O a diventare un uomo democratico. Se esistesse ancora la Jugoslavia di Tito, sarebbe un fervente socialista abile nel farsi i fatti suoi e a coltivare la sua cerchia di potere. Seguendo la “moda” est-europea post-1991, oggi Nikolić è invece un fervente e risoluto nazionalista, ovvero esattamente l’opposto di quel che sarebbe stato se ancora fosse vivo Tito. Sono i testa coda della storia. Il rosso che diventa nero. In un Est che da vent’anni vota a destra, Nikolić è l’espressione di una destra rancorosa, assai poco colta per non dire ignorante, vendicativa, nagazionista, di pancia, incapace di fare i conti con i propri errori e orrori. E con i propri abomini.
Srebrenica è stato un abominio quasi quanto lo è l’elezione di una persone come Nikolić in un Paese, la Serbia, che s’ostina a non voler fare i conti con i propri fantasmi, che sono tanti. In questo la Serbia pare somigliare molto all’Italia. Sarà per questo che al capitalismo italiano piace tanto Belgrado… (luca leone)