Calato il sipario sulla telenovela #staisereno, con la fiducia al Governo, si aprirà una consueta battaglia dietro le quinte del palcoscenico: la corsa agli incarichi fiduciari di sottogoverno e di alta amministrazione, nei quali si consuma la vera, eterna prevalenza della burocrazia “romana” sulle scelte politiche di cui sono latori i premier più o meno passeggeri.

Non si vuole qui reiterare l’antica, e per certi versi stantìa, geremiade contro i consiglieri di Stato ed i magistrati in distacco permanente effettivo, che rimonta ad alcune acidule pagine della “Razza padrona”, in cui si produsse nel 1974 l’allora anticonformista Eugenio Scalfari. Sappiamo bene che l’ordinamento giuridico italiano è un continuum normativo di complessa gestione, anche se il mandarinato che se ne occupa supera, in cavillosità, perfino certi eccessi legulei della tradizione giustinianea da cui discendiamo.

Piuttosto, è sospetto il fatto che in questi ambiti la bipartisanship – da virtù politica – abbia raggiunto vette di virtuosismo personale: certe intercettazioni hanno offerto squarci inediti su come un alto burocrate di palazzo Chigi con Prodi chiedesse intercessioni a imprenditori per restare nell’incarico con Berlusconi nel 2008; magistrati amministrativi sono stati chiamati a decidere sulla legittimità di decisioni assunte “con altro cappello” da consulenti ministeriali; logge e conventicole hanno prodotto scambi di posti con consorti o famigli, mentre l’abulìa deontologica veniva esaltata da contenziosi, su abitazioni vista Colosseo, che nessun grand commis d’Etat si sarebbe mai sognato di intraprendere sulle rive della Senna o del Tamigi.

La soluzione, ovviamente, non sta nei colpi di ramazza promessi dal leader maximo di turno, che ad inizio mandato si presenta come l’Unto dal Signore (inteso come volontà popolare) ed a fine mandato si dichiara regolarmente vittima del reticolo di interessi burocratici delle amministrazioni dello Stato. Occorre ammettere che la macchina dello Stato è complessa e richiede grande professionalità, per cui è legittimo – e per certi versi doveroso – rivolgersi a coloro che di pandette ed ermeneutica si occupano come ceto professionale. La scrematura, piuttosto, va fatta sull’elemento del disinteresse, che dovrebbe motivare coloro che abbandonano (temporaneamente, si spera) la pubblica funzione, per sposare una linea politica all’interno di un gabinetto ministeriale.

Lumeggiando questo angoletto del sottobosco romano, si scopre infatti che – all’opposto del disinteresse – il desiderio del cumulo di emolumenti è ciò che anima alcuni di questi eroi della perpetuità gabinettistica. Cumulo di stipendi, se si versa nel caso ordinario del comando o del distacco (o, ancora più anomalo, quello dell’autorizzazione a svolgere ambedue gli incarichi, come può essere concesso a certi fortunati magistrati amministrativi in udienza a giorni alterni); cumulo di stipendio e di pensione, per alcuni fortunati sottratti al divieto generale, in virtù della vieta concezione dell’autocrinia degli organi costituzionali. La metafora dell’intellettuale guicciardiniano, tutto proteso a difendere il suo “particulare”, trova così una declinazione diversa rispetto al modello cinquecentesco: non nella tenuta di campagna, ma nei piani alti dei ministeri della Capitale si serve meglio il proprio interesse, sorvegliando ogni decreto-legge di passaggio per tutelare rendite di posizione, microprivilegi economici o trattamenti previdenziali d’annata.

Contro questo coacervo di interessi, che dà luogo periodicamente a scandali prontamente sopìti, si è recentemente avanzata una proposta di regolamentazione della materia, che delimita gli emolumenti percepibili dai “gabinettisti”: per il disegno di legge Atto Senato n. 1102 (“Nuova disciplina degli emolumenti corrisposti ai dipendenti pubblici fuori ruolo e delle designazioni di competenze dello Stato italiano nelle procedure selettive delle organizzazioni internazionali“, leggibile nei documenti allegati o a questo link) la spesa per il relativo rapporto di lavoro “è posta a carico dell’amministrazione o l’ente presso cui il soggetto va a prestare servizio; essa ammonta all’ultimo trattamento economico in godimento, inclusa, per i dirigenti, la parte fissa e variabile della retribuzione di posizione, ed esclusa la retribuzione di risultato. L’incremento della retribuzione così determinata segue le sole progressioni del pari grado in servizio nell’amministrazione di appartenenza; l’esecuzione di incarichi, la partecipazione a commissioni od organismi di qualsiasi genere, presso l’amministrazione in cui il soggetto va a prestare servizio, non può comportare un incremento superiore al 20 per cento della retribuzione lorda onnicomprensiva percepita nell’anno precedente il conferimento dell’incarico”.

Avremmo allora una proposta al Presidente del consiglio entrante, per evitargli di finire – dopo qualche tempo – con il replicare i rimpianti dei suoi predecessori. Piuttosto che rinunciare alla cravatta o disporsi allo streaming televisivo con i rivali, faccia circolare – con lo spumante per la vittoria conseguita con la fiducia parlamentare – un modello prestampato, da far sottoscrivere a chiunque voglia accedere ad un incarico di gabinetto ministeriale o alla Presidenza del consiglio. Il candidato si impegni volontariamente a non percepire – globalmente, dalle finanze pubbliche, per la durata dell’incarico – un ammontare superiore a quello che sarebbe dovuto se il disegno di legge n. 1102 fosse già stato approvato.

Ne guadagnerebbe il nuovo governo, per la conseguente selezione del personale alle sue dipendenze in termini di disinteresse (o meglio, in interesse verso l’esercizio esclusivo della pubblica funzione): ne uscirebbe una congrega di mandarini ansiosi di monetizzare la loro scienza iniziatica, mentre si arruolerebbe un ceto di professionisti – “di area”, ma in buona fede – traduttori in “giuridichese” delle proposte avanzate pubblicamente dal loro Governo per avere la fiducia del Parlamento e del Paese.

E ne guadagneremmo tutti noi, in termini di maggiore trasparenza dei decisori pubblici e dei loro moventi: forse perderemmo qualche inquilino di appartamenti vista Colosseo; ma selezionando economicamente il movente – con cui ai politici si affiancano i soggetti che, come gabinettisti, partecipano alla redazione degli atti di governo e di alta amministrazione – saremmo certi che chi lascia il proprio lavoro pubblico per “andare a Roma”, lo fa per servire una certa idea del Paese.
Senato della Repubblica, Ddl 1102 – 2013, Nuova disciplina degli emolumenti corrisposti ai dipendenti pubblici fuori ruolo

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