Amato dal grande pubblico e dalla critica, Steven Soderbergh ha idealizzato e realizzato tanto film da star-system, come la fortunata trilogia di Ocean’s, quanto opere impegnate e sperimentali come il pluripremiato Traffic. Questa apparente schizofrenia di toni e tematiche viene però smentita, o meglio, messa in discussione da Giancarlo Monini, autore della prima monografia italiana sul regista edita dalla casa editrice Le Mani.

Nel 1989 Steven Soderbergh vince – a soli 26 anni – la Palma d’oro al festival di Cannes con il film d’esordio Sesso, bugie e videotape, sbaragliando l’altrettanto promettente Spike Lee, in concorso con Fa’ la cosa giusta. Lo spettro della sopravvalutazione si manifesta già dal successivo Delitti e segreti; gli insuccessi di Piccolo grande Aaron e Torbide ossessioni non migliorano la situazione. La carriera di Soderbergh sembra ormai segnata a pochi anni di distanza dal suo primissimo successo, come accade a tanti altri che, anche se giunti a Hollywood con un biglietto vincente, alla fine non ce la fanno ad affermarsi. E invece ancora oggi nel 2015 Steven Soderbergh, “l’indipendente di successo”, fa parlare di sé e dei suoi film. E ciò che si dice è sempre molto positivo, essendo riuscito Soderbergh a diventare contemporaneamente un regista “di cassetta” e un ospite di riguardo nei maggiori festival internazionali di cinema.
Sulla vita e il lavoro di questo incredibile regista statunitense è stato pubblicato da Le Mani il primo studio italiano – intitolato Steven Soderbergh – scritto da Giancarlo Mancini, autore televisivo e critico cinematografico. Si tratta di un libro molto esaustivo, che si sofferma sul linguaggio e sulle tematiche di Soderbergh mentre ne ripercorre quasi interamente il percorso artistico, dagli albori dei cortometraggi documentari per la televisione a Behind The Candelabra, l’ultimo film presentato a Venezia nel 2013. Per mere ragioni cronologiche di edizione resta fuori dall’indagine di Mancini la serie televisiva The Knick,alla cui interpretazione però il lettore potrà tranquillamente sopperire una volta letto il libro da cima a fondo.
Steven Soderbergh però non è soltanto un’attenta e appassionata monografia. Mancini si fa anche aedo delle vicende e delle vicissitudini del cinema indipendente americano, passato nell’arco di sessant’anni dall’essere considerato “poco più che spazzatura” a diventare fucina di nuovi talenti come Soderbergh, per l’appunto, ma anche Quentin Tarantino, Wes Anderson, David Fincher, Paul Thomas Anderson e David O. Russell. Tutti passati per la strada trionfale che dal Sundance Festival di Robert Redfort porta agli Academy Awards, un’intera generazione di cineasti, “l’ultima”, secondo Mancini, “che abbia dato un’impronta originale al cinema americano, sia dal punto di vista stilistico sia da quello contenutistico”.
Robert Redfort, dunque, che si fa avanti dopo il successo di Sesso, bugie e videotape per finanziargli il secondo film; ma anche i fratelli Wienstein, fondatori della Miramax e distributori di Sesso, bugie e videotape; Richard Leister, un uomo capace di dirigere tanto i film dei Beatles tanto due capitoli della saga Superman, che un Soderbergh in crisi intervisterà nel 1994; e infine Casey Silver, il dirigente dell’Universal che fa il suo nome per Out of sigh e Erin Brockovich, i due film che lo tireranno fuori dall’iniziale serie di insuccessi. Queste sono le figura chiave che hanno guidato Steven Soderbergh nella ricerca della sua maturità registica e della sua libertà all’interno del sistema industriale cinematografico. Come scrive Mancini, a differenza della generazione degli Scorsese e dei Coppola, per Soderbergh non esistono i film fatti per soldi e i film personali; anzi, sono proprio i grandi spettacoli realizzati per il pubblico di massa le sue occasioni per realizzare film liberi e senza regole. È così che la saga di Ocean’s, apparentemente “divertimento allo stato puro”, è in realtà il manifesto più completo della poetica di Soderbergh: dallo stile della macchina a mano e la fotografia saturata al concettualismo delle contaminazioni tra generi cinematografici e delle riflessioni sulla modernità e sul cinema stesso. Ed è questo il motivo per cui, come fa notare sapientemente Mancini, Soderbergh riesce a fondere “in maniera unica e originale la sperimentazione del linguaggio […] con un’interrogazione continua sul ruolo della settima arte nel mondo contemporaneo e lo “spettacolo per tutti”, il divertimento, i lustrini, le star e quanto appartiene alla mitologia della celluloide”. Un’interrogazione critica ma rispettosa, dato che Soderbergh è il regista più richiesto dalle majors di Hollywood e dalle stars stesse, che spesso gli devono il primo Oscar o la consacrazione di doti recitative prima mai veramente sfruttate (George Clooney, Julia Roberts, ma anche Jennifer Lopez). Soderbergh è un regista “capace di restare fedele a se stesso pur gestendo budget di milioni di dollari”; e forse è per questo che, pur dichiarando di anno in anno il suo ritiro, non riesce mai veramente a compierlo: perché in fondo nessuno ad Hollywood si sente a suo agio più di lui.

 
Steven Soderbergh
di Giancarlo Mancini
Le Mani editore
pagg. 192 (inserto a colori)
prezzo 16,00 euro

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