In una fase di profonda crisi come quella che sta vivendo il nostro Paese, mettersi a parlare dei rapporti tra etica e politica può sembrare argomento fuori del tempo. Eppure così non è, per due ragioni almeno.
La prima è strettamente politica: se dopo le prossime, ormai imminenti, elezioni dovesse governare una coalizione capace di accomunare la sinistra e il centro, i temi etici rappresenteranno uno dei motivi (se non l’unico) di maggior discordia, foriero di gravi fragilità per la stessa legislatura.
Senza parlare dei contrasti profondi che verrebbero ad originarsi tra la componente “cattolica” e quella “laica” dentro lo stesso partito di prevedibile maggioranza relativa.
La seconda ragione di attualità sta nella frequenza con cui si propongono all’attenzione collettiva temi, spesso drammatici, che richiamano la dimensione etica e coinvolgono nel profondo la coscienza di ognuno.
L’esempio più recente è l’approvazione della legge che equipara i diritti dei figli naturali a quelli nati nel matrimonio, con lo strascico lacerante del riconoscimento di figli incestuosi.
Ma per meglio intendere la dimensione della materia, basti pensare a temi “antichi” quali l’aborto, il divorzio, la pena di morte ovvero a questioni di grande attualità come la libertà di decidere il proprio fine vita, il riconoscimento dei rapporti nelle coppie di fatto o tra omosessuali, la procreazione assistita (la cui normativa è stata fatta giustamente a pezzi dalla magistratura), il diritto di adozione riconosciuto a soggetti non uniti in matrimonio, single o dello stesso sesso e via discorrendo.
Nell’affrontare queste tematiche aleggia l’irrisolto interrogativo se esistano regole eterne valevoli per tutti gli uomini, in tutti i tempi alle quali nessun Legislatore può contravvenire.
E’ questione su cui ci si interroga almeno fin da quando Sofocle fa dire a Polinice che ci sono leggi superiori a quelle degli uomini, inducendola a disubbidire a Creonte, dare degna sepoltura al fratello e andare così incontro ad una morte orribile.
Per inciso non possiamo far a meno dal riflettere con tristezza sul tentativo di estromettere dal consesso europeo quella Grecia che dell’Europa è fondamento per filosofia, architettura, scultura, democrazia, politica e letteratura … tra l’altro.
Ma tornando a noi, come dar risposta, allora, alle questioni più sopra sommariamente elencate?
Intanto una riflessione. Se lo Stato non ritiene di dover reprimere fenomeni sociali rilevanti allora ha l’obbligo di regolamentarli.
Prendiamo i rapporti tra omosessuali: o lo Stato li vieta, come avviene ancora in alcune società reazionarie oppure deve sottoporli a discipline certe. Non può semplicemente disinteressarsene perché necessitano di delicate soluzioni etiche.
Poi una costatazione. Balza evidente agli occhi che decisioni tanto complesse e coinvolgenti vengono spesso affidate a persone che assumono la veste di legislatore pur contravvenendo palesemente, col proprio comportamento, a quegli stessi principi etici ai quali dicono di volersi attenere.
Ecco allora che divorziati tutelano l’indissolubilità della famiglia, soggetti contrari all’aborto perché la vita va sempre difesa, sono favorevoli alla pena di morte, tutori del comportamento morale trascorrono un’esistenza dissoluta e così via.
Si tratta dell’ennesima frattura tra Parlamento e cittadini, che nasce spesso (tranne rari casi di intima convinzione) dall’intento di accattivarsi le simpatie, e il conseguente voto, di questa o quella autorità civile o religiosa.
Si può osservare con stupito rammarico che gli italiani, nonostante tutto, sanno essere migliori dei rappresentanti che si scelgono.
Proponiamo allora sommessamente, sottovoce, una soluzione che per necessità deve prescindere da etica, morale, religione, filosofia per essere rimessa alla sola volontà che conta in uno Stato laico (o che vorrebbe esserlo), quella della maggioranza dei cittadini.
Cioè non è importante stabilire, ad esempio, se la libertà di decidere del proprio fine vita rispetti o meno principi etici, ma vale solo quello che gli italiani ne pensano.
Per capirci meglio le questioni etiche vanno sottratte al Parlamento o almeno rimesse, poi, alla volontà popolare. Un po’ come avviene con le modifiche delle norme costituzionali qualora non si raggiunga il quorum parlamentare dei due terzi.
Per dar voce ai cittadini diventa dunque fondamentale lo strumento del referendum. Ma certo non quello azzoppato e vilipeso che è ormai divenuto.
Per prima cosa sarebbe necessario abbassarne il quorum, dalla metà degli aventi diritto ad un terzo, sia per adeguarlo alla diminuita partecipazione popolare alle votazioni, sia per impedire che, con l’ignobile invito “andate al mare”, una minoranza di contrari all’abrogazione la spunti semplicemente sommando la propria astensione a quella degli ignavi e degli impossibilitati.
Comunque il tema delicato del referendum per ridare la parola agli italiani nel corso della legislatura (quanta invidia per la Svizzera!), meriterebbe un articolo a sé.
Quel che qui interessa ribadire è solo che, qualora il popolo sovrano stabilisca, come si diceva prima, che decidere della propria fine vita è facoltà che non può essere sottratta al singolo cittadino, in tal senso impegna il Legislatore, pur se componenti importanti e anche maggioritarie del Parlamento sarebbero di idea contraria.
Non si tratta né di populismo né di relativismo etico ma dell’unico modo per dare soluzione a questioni che spesso rimarrebbero irrisolte nei meandri di un Parlamento dilaniato da posizioni inconciliabili ove, frequentemente, dietro auliche motivazioni morali si celano beceri interessi di parte.
Stabilire poi se la scelta popolare rispetti o meno i principi etici può essere affidato ad approfonditi e avvincenti dibattiti filosofico esistenziali le cui conclusioni, mai condivise, lasciano il tempo che trovano.