Lo start up sociale innovativo può essere un antidoto contro la crisi e contro la continua emigrazione dei giovani dal sud al nord (400% in più negli ultimi anni secondo una ricerca di Alma Laurea)?
Certo è che bisogna trovare al più presto delle soluzioni per far in modo che si ponga un freno a questa fuga di talenti meridionali dal proprio territorio verso un altrove – in Italia o all’estero – alla ricerca di occupazione.
Nel corso di un convegno organizzato a Roma da ASVI Social Change, Scuola di management e Innovazione Sociale, sono emersi degli spunti interessanti per provare a dare delle risposte concrete su come fare start up e innovazione sociale al sud, su quali sono le risorse disponibili e le opportunità per chi abbia in mente di mettersi in gioco e provare a rischiare, con alcune testimonianze di chi ce l’ha fatta.
Ma come si fa un progetto sociale innovativo e credibile?
Lo ha spiegato il Presidente dell’ASVI, Marco Crescenzi, impegnato con la fondazione nella sfida di unire l’aspetto social con quello manageriale (ndr l’ente si occupa di formare fund raiser, esperti di no profit e project manager della cooperazione internazionale): “Ogni progetto sociale deve partire dalla progettualità innovativa, dall’originalità delle soluzioni proposte (l’aspetto digitale è sempre più importante), dal radicamento territoriale da parte dei partner, dall’internazionalità e per decollare è indispensabile che ci sia una collaborazione forte con il mondo delle aziende e dell’imprenditoria sociale (ecosistema pulito e soldi puliti: impact finance e microcredito).
L’innovazione territoriale e sociale in Italia è fatta per lo più dalle cooperative in continua crescita (attualmente ne nascono 500 l’anno, hanno un forte impatto economico e resistono alla crisi, secondo i dati CENSIS). Per Gianfranco Marocchi, Presidente di Idee in Rete, un bacino di cooperative sociali, puntare all’innovazione significa “creare connessioni tra la tradizione e le nuove generazioni, far dialogare due mondi che parlano un linguaggio diverso in grado però di creare un cambiamento sociale anche grazie all’utilizzo delle nuove tecnologie”.
Alcuni esempi di contaminazioni di successo tra cooperative tradizionali e giovani startupper sono la Fondazione Ebbene (http://www.ebbene.it/) partita dalla Sicilia con vocazione nazionale che promuove i centri di Prossimità e i Luoghi di Prossimità; Welfarm (http://www.welfarm.it/) a Napoli, nata dalla collaborazione tra cooperazione e farmacie; l’Emporio della Solidarietà (http://www.camminiamoinsieme.org/) a Lecce; Cinema Aquila (http://www.cinemaaquila.com/) a Roma, un’esperienza singolare di cinema di comunità.
Per le start up e la social innovation una grossa spinta a fare impresa arriva poi dall’Europa.
Come ha spiegato Antonio Bonetti, Europrogettista Si Lab, “la social innovation si è affermata in Europa come approccio nuovo, multi-attore per la risoluzione di problemi sociali. All’inizio della programmazione dei fondi, in Italia sono stati stanziati circa 20 miliardi di euro per favorire una politica della coesione. I finanziamenti pubblici europei dedicati alla social innovation sono divisi in due blocchi: finanziamenti a gestione concorrente, con fondi strutturali e fondi per lo sviluppo rurale e programma a gestione centralizzata. In ogni settore si potrebbe fare innovazione sociale. Nello specifico, per il sud ci sono i programmi operativi regionali e nazionali e il piano di azione e coesione.
Il problema principale per il centro-sud Italia è che le regioni sono in ritardo sulla spesa lasciando sospeso un ammontare di risorse spendibili e rilevanti per i territori meridionali”.
Le risorse ci sono, quindi, ma non sempre vengono spese per mancanza di idee e di progetti adeguati. Un altro modo per reperirle, per gli startupper in erba, è attraverso il microcredito. Andrea Limone, A.D. PerMicro, ha raccontato come opera la sua società specializzata nel microcredito a soggetti non bancabili che opera anche nel sud Italia.
“PerMicro dà gli strumenti per tradurre in realtà i sogni, di imprese ma anche di famiglie, concedendo finanziamenti fino a 25 mila euro, in tempi brevi. Ad oggi sono stati erogati 20 milioni di euro, con 12 filiali su tutto il territorio italiano (la tredicesima sarà a Catania a settembre).
Cerchiamo di indirizzare il credito verso i migliori (viene erogato un credito ogni dieci richiedenti) stanziando i soldi sulla base delle competenze del soggetto richiedente, del progetto imprenditoriale, del capitale e della garanzia sociale che l’idea progettuale porta con sé”.
L’impact finance per lo start up sociale e a “vocazione sociale” presenta però luci e ombre
Roberto Randazzo, Docente di Diritto degli Enti Non Profit presso l’Università Bocconi di Milano ne ha mostrato le potenzialità e i limiti. “Esistono interventi normativi recenti che sostengono questo tipo di start up con la possibilità di ottenere agevolazioni di carattere fiscale a favore degli investitori. Elemento determinante se si pensa che in questo modo è possibile attrarre investimenti verso le start up innovative. Le start up innovative a vocazione sociale sono, quindi, delle società in forma srl che hanno l’obiettivo di creare impatto sociale e che per 24 mesi non distribuiscono utili, per farlo poi in seguito alla dimostrazione di una certa stabilità sul mercato decorsi i 2 anni previsti. Durante i primi 24 mesi hanno agevolazioni fiscali. La nascita di queste nuove realtà non comporta necessariamente la sostituzione a realtà già presenti e consolidate, come le cooperative sociali. Ma devono stimolare una riflessione all’interno del no profit: occorre imparare a fare impresa, sempre nell’ottica dell’impatto sociale e della rendicontazione. In un contesto di crisi della pubblica amministrazione, il non profit deve imparare ad attrarre i capitali privati rendendo il mercato attrattivo per i finanziamenti dei privati. Per rendere attrattivo questo settore bisogna remunerarlo. In Inghilterra lo hanno fatto, hanno creato le imprese sociali ed oggi sono oltre 6.000 le società registrate”.
E si sa, l’Italia in quanto a propensione a fare impresa arranca sempre rispetto agli altri paesi competitor. Stefano Supino, professore dell’Università di Cassino e membro del SI lab, ha riportato i dati del 2012 del Global Entrepreneurship Monitor nei quali emerge che l’Italia, dal 2001 ad oggi, è peggiorata anche da questo punto di vista. “Il tasso di nuova imprenditorialità – che considera l’incidenza delle start up (definite come imprese attive da non più di tre mesi) e delle nuove imprese (fino a tre anni e mezzo dall’inizio dell’attività) sulla popolazione in età compresa tra i 18 e i 64 anni – è infatti in Italia pari al 4,32 %. Siamo al penultimo posto della graduatoria relativa alle economie più avanzate. Preoccupa inoltre la bassa incidenza della quota relativa all’imprenditorialità nascente. Anche in questo caso i divari sono ampi: l’8,86% contro il 2,47%”.
Non rincuora sapere che l’unico primato italiano riguarda la paura di fallire. “Gli italiani che ritengono di aver individuato un’opportunità e che asseriscono di aver però rinunciato all’avvio di un’attività imprenditoriale principalmente a causa della paura di un fallimento – dice il prof. Supino – sono aumentati dal 2001 al 2012, anno in cui il dato si è attestato al 58%. Peggio di noi fa solo la Grecia (61%). Non sorprende, quindi, che il tasso di imprenditorialità complessivo sia calato dal 6 al 4,32% mentre il tasso di imprenditorialità nascente si sia quasi dimezzato (dal 4,4% al 2,47%)”.
Non resta quindi che puntare sugli impavidi giovani startupper per uscire da questo ennesimo primato negativo. E le esperienze positive presentate nel corso del convegno dell’ASVI fanno ben sperare. “Pedius”, l’App che permetterà ai sordi di utilizzare il telefono
di Lorenzo Di Ciaccio, vincitore della Global Social Venture Competition; “Fork in Progress”, cook & social business, la cucina al servizio della cittadinanza attiva e della solidarietà tra le generazioni, di Luana Stramaglia, Vincitrice del concorso ‘Principi Attivi’ della Regione Puglia; Coop. Punto.Dock, la social innovation nello sviluppo locale mediante il co-working di Carmelo Chianura ed Empleko, Open Innovation for Recruitment di Raimondo Bonu.