Dal lago di Costanza emergeva la grande scultura realizzata per Andrea Chénier, ispirata al celebre dipinto di David, La Morte di Marat. Scenografia spettacolare, ma spettacolo deludente, per regia un po’ kitsch, con un eccesso di effetti speciali, di acrobati e tuffatori, per il mediocre livello del cast, per le assurde interpolazioni musicali di David Blake, per la inadeguatezza del sistema di amplificazione.
Per fortuna al Festival di Bregenz c’era anche la nuova opera di Detlev Glanert, Solaris, messa in scena nel Festspielhaus, e destinata nella prossima stagione al palcoscenico della Komische Oper di Berlino. Glanert si è basato sul romanzo di Stanislaw Lem, da cui fu tratto il celebre film di Tarkovskij (1972) e poi il remake di Steven Soderbergh (2003): romanzo insieme fantascientifico e filosofico, pieno di sfaccettature, di misteri, e con diverse chiavi di lettura, che il compositore ha trovato più efficace e drammatico rispetto al film di Tarkovskij («il romanzo ha cominciato a sovrapporsi alle impressioni del film, che ho progressivamente dimenticato, eccetto tre o quattro scene chiave»), e che insieme al librettista Reinhard Palm ha condensato in un chiaro percorso drammatico, sintetizzando la riflessione filosofica intorno ad alcune questioni centrali del nostro tempo: il conflitto tra morale e sviluppo scientifico, l’ignoto come superiore ordine metafisico, il tema dell’incomunicabilità, il tramonto dell’idea che l’essere umano sia al centro dell’universo.
Lo psicologo spaziale
Protagonista dell’opera è Kelvin, uno psicologo inviato in una stazione spaziale, sospesa sopra l’oceano del pianeta Solaris. Pianeta oggetto di studio da parte degli scienziati, perché il liquido plasmatico di quell’oceano sembra costituire una sostanza cerebrale, che fa di Solaris un pianeta pensante. Non solo, percepita la presenza degli scienziati a bordo della stazione, esso riesce a leggerne i pensieri e a materializzarli: così a bordo della stazione cominciano a comparire degli “ospiti”, fantasmi della memoria degli astronauti (e dei loro sensi di colpa), che nonostante la loro composizione neutrinica appaiono indissolubilmente legati alla persona che li ha “evocati”, dimostrando atteggiamenti, espressioni ed emozioni reali. Come conseguenza di questo straordinario fenomeno, Kelvin ritrova la moglie Harey, morta suicida qualche anno prima; lo scienziato Snaut è perseguitato dalla madre, anziana signora che lo insulta, lo provoca sessualmente, svelando il complesso edipico di lui; il fisico Sartorius è seguito come un’ombra da un nanonerottolo, forse il figlio focomelico che aveva fatto sopprimere; Gibarian, che si è suicidato prima dell’arrivo di Kelvin, ha materializzato un’obesa donna africana («Negerin»), che non riesce a separarsi da lui, ancorché cadavere. Allievo prediletto ed erede di Hans Werner Henze, Glanert, col suo infallibile istinto per il teatro, e il suo sapiente eclettismo, è riuscito a mescolare in questa partitura elementi assai eterogenei, dagli echi debussyani fino a un certo gusto per il motorismo musicale degli anni Ottanta. Ha creato un ordito orchestrale duttile, espressivo, ricco di colori, messi in bel risalto dalla direzione di Markus Stenz, sul podio dei Wiener Symphoniker. Un ordito a densità variabile, che gli permetteva di usare l’orchestra nella sua pienezza, ma alleggerendola sempre in coincidenza con gli interventi vocali, di inserire momenti cameristici, per archi, associati alle scene commoventi di Harey, e squarci grotteschi (un po’ jazz, un po’ Kurt Weill) nelle scene di Snaut ubriaco. Le qualità dell’orchestrazione si univano a un sapiente sviluppo dei temi – a partire da un motivo di quattro note reiterato all’inizio della prima scena (Der Kosmos) –, al recupero dell’aria come fulcro espressivo dell’opera («magnifica invenzione dell’aria, dove il tempo si ferma e noi possiamo vedere dentro i pensieri e le rigflessioni di un personaggio»), a una ricca intelaiatura polifonica nei concertati, e soprattutto a una serie di interventi del coro, invisibile ma sempre presente (l’ottimo coro filarmonico di Parga), che dava voce al pianeta (riprendendo una suggestione dello stesso Lem), come un essere che imparava lentamente a parlare, dai suoni inarticolati, fino allo strano, magico dialogo che intrecciava con Kelvin nella scena finale.
La nera, il nano e i neutrini
Il compositore tedesco ha anche delineato con grande finezza i caratteri dei vari personaggi, anche le figure più marginali nel romanzo di Lem, come l’anziana signora, la nera, il nano. L’ampio melodizzare affidato a Kelvin, era restituito molto bene dal baritono Dietrich Henschel, capace di tornire ogni singola parola, da vero liederista, e di esprimere i tormento interiore del suo personaggio; il canto lirico di Harey, talvolta frammentato, era affidato a una bravissima, coinvolgente Marie Arnet, che nel secondo atto (nel drammatico duetto con Kelvin, nel quale tentava di suicidarsi con l’ossigeno liquido) assumeva lo slancio vocale e la passione di una vera eroina operistica, altro che creatura di neutrini! Gli altri due scienziati erano interpretati da Martin Koch, tenore caratterista che rendeva molto bene il carattere un po’ folle di Snaut, e dal basso Martin Winkler, voce possente, nei panni del diabolico Sartorius. Completavano il cast, e il ventaglio di tipologie vocali, il soprano “soubrette” Mirka Wagner, nel ruolo del nano (che si aggirava in triciclo, sulla base spaziale, vestito da coniglietto), il mezzosoprano Christiane Oertel, nei panni della signora matura e provocante, dal contralto Bonita Hyman, nera straripante nelle forme non nella voce. I caratteri così contrastanti di questi personaggi erano accentuati anche dalla regia di Moshe Leiser e Patrice Caurier. Le scene (di Christian Fenouillat) facevano un po’ fantascienza anni Settanta, con l’interno – rigorosamente bianco – di un’astronave dagli oblò ovali, che si aprivano e si chiudevano come grandi occhi. Le luci (di Christophe Forey), dai colori sempre diversi, sembravano riflettere i trascoloramenti dell’oceano magmatico di Solaris, mentre le efficaci proiezioni video (di Tommi Brem) riempivano la scena come tempeste magnetiche, come reti di sinapsi (accompagnavano infatti i momenti corali, ovvero l’attività cerebrale di Solaris), e proiettavano sagome degli ospiti come ectoplasmi (bellissima la scena dove la sagoma bianca di Harey seguiva come un’ombra Kelvin, dopo il loro primo incontro). Tutta cambiava nella magica scena finale, dove si vedeva solo l’esterno scuro della stazione spaziale, e Kelvin si librava a mezz’aria nello spazio cosmico, punteggiato da stelle lucenti, nel suo volo finale verso l’oceano di Solaris.