Operadagen a Rotterdam è un festival dedicato al teatro musicale contemporaneo, un’occasione unica per vedere a confronto forme, stili, linguaggi, in una prospettiva non paludata, spesso anzi dissacratoria, volta a intercettare l’interesse di varie fasce di pubblico. L’edizione di quest’anno, con il titolo Droom & Daad (sogno e azione), appariva un po’ sottotono rispetto allo scorso anno, anche per la crisi economica che morde nei Paesi Bassi, e molte performances erano chiaramente mirate al grande pubblico: come il multimediale Distant Voices, il progetto corale Zo Zingt Rotterdam! che coinvolgeva 35 gruppi corali amatoriali, la baby-opera Korall Koral, il bizzarro progetto di Sága del gruppo Dez Mona, che faceva musica pop con tiorba, viola da gamba e clavicembalo.
Per non parlare del deludente Lilith di Dimitar Bodurov, che riprendeva dalla mitologia ebraica la storia di Adamo e della sua prima moglie, Lilith, e che aveva come unici punti di forza il soprano Claron McFadden e l’idea di farla interagire (anche in una scena di sesso) con l’attore Jeroen Willems proiettato su uno schermo. Più interessanti erano le rielaborazioni di alcune opere del passato, in chiave ironica o di attualità: un esempio era The jaffa oranges of Richard W. «un Rheingold israeliano», concepito come una trascrizione dell’opera di Wagner (fatta dal compositore Georg Nussbaumer) per un piccolo ensemble d’archi e harmonium, e un cast misto di attori e cantanti. Il regista e ideatore del progetto, Alexander Charim, ha voluto raccontare, attraverso questo Rheinhgold, il conflitto israelo-palestinese: Wotan e gli altri dei diventavano una famiglia ebrea, Il Walhalla era Israele, Alberich un ragazzo palestinese. Interpolando al libretto di Wagner frammenti di scrittori israeliani, come Amos Oz e David Grossmann, Charim ha creato una forma esplicitamente politica di teatro musicale, rappresentando Israele come un paese sconvolto tra la lotta per la sopravvivenza, un’esuberante brama di vita, la paranoia della sicurezza, e spiegando l’origine dell’odio con la brama del possesso, la voracità del territorio. Buona l’idea, un po’ approssimativa la realizzazione sia per la qualità della rielaborazione musicale, sia per la prova malcerta e enfatica dei giovani interpreti, sia per l’ingenuità della messa in scena (l’oro del Reno trasformato in una valigetta piena di soldi nascosta dentro un frigorifero, la disputa sulla nazionalità delle arance di Jaffa: israeliane o palestinesi?).
Figaro ovvero il potere dell’eros
Grandi risate, ma poca sostanza artistica, nelle rivisitazioni in chiave ironica e grottesca di due opere mozartiane: Le Nozze di Figaro trasformate in Figaro Desire Machine, rilettura scanzonata del potere dell’eros, affidata a giovani attori che mimavano vari atti sessuali, una ballerina che si aggirava tra il pubblico offrendo patatine e ditate di Nutella, un video con immagini pop, una scenografia caotica che sembrava la stanza dei bimbi, e gli immancabili riferimenti ai bunga-bunga berlusconiani (che tristezza!). Unico sprazzo di luce il giovane tenore turco Bora Balci, che cantava arie mozartiane, vestito di piume di struzzo: farà carriera, e ricorderà con qualche imbarazzo questa performance giovanile. Opera Buffa era invece una rilettura in chiave “culinaria” del Don Giovanni: gli spettatori sedevano a lunghi tavoli, dove, durante lo spettacolo, veniva servita loro una cena, come fossero ospiti alla festa di Don Giovanni. La parte musicale era ampiamente rimaneggiata (affidata a violino, tastiera e basso elettrico), la trama un po’ stravolta, con Don Giovanni che diventava lo chef in cucina, e in assenza del Commendatore erano le tre donne coalizzate a compiere la vendetta finale, facendo sciogliere al centro della sala un grande busto, in cioccolato, di Don Giovanni, che poi veniva servito al pubblico. Tra gli spettacoli più riusciti sul piano teatrale e musicale c’erano invece due opere legate al mondo dell’infanzia, opere già note e collaudate, ma con qualche novità nell’allestimento: L’Enfant et les sortilèges di Ravel e Les Enfants terribles di Glass. Il primo è stato messo in scena da Gerrit Timmers e Mirjam Koen dell’ O.T. Theater con dei pupazzi animati che venivano mossi (in tempo reale con la musica) in un piccolo teatrino al lato dell’orchestra e poi proiettati su un grande schermo, con un efficace gioco di telecamere: delizioso. Straordinaria anche l’interpretazione musicale, affidata all’Orchestra filarmonica di Rotterdam, diretta da un trascinante Yannick Nézet-Séguin, e a solisti di prima scelta: Magdalena Kožená, espressiva e commovente nei panni del protagonista, era affaincata da Nathalie Stutzmann, nei panni della madre, dal tenore Jean-Paul Fouchécourt, esilarante nell’interpretare il sofà e il vecchio matematico, dal basso Paul Gay perfetto e terrificante nel dare voce all’albero, dalla soave principessa di Karina Gauvin, dalla sensuale gatta di Silvia de la Muela.
La stanza dei giochi di Cocteau
Grandissimo successo anche per Les Enfants Terribles, in un allestimento coprodotto con i teatri di Bordeaux e di Bilbao. I due protagonisti del romanzo di Cocteau, Paul e Elisabeth (i due fratelli orfani, che trasformano la loro camera in un regno di giochi e di illusioni, ma innescando anche una catena di incomprensioni e di gelosie che si trasforma in tragedia, un gioco di sentimenti incrociati che porta entrambi al suicidio) erano ottimamente interpretati da Guillaume Andrieux, assai credibile nei panni del ragazzo sofferente e spaesato, e dalla minuta, pimpante, dispettosa Chloé Briot, soprano dalla voce timbrata e espressiva (da tenere d’occhio: ha solo 23 anni). Nello spettacolo di Stéphane Vérité (che firmava regia, scene e luci) c’era solo un’enorme stanza con due letti. Tutto il resto lo faceva un video proiettato sul fondale, con immagini poetiche e visionarie, perché non solo davano forma ai diversi ambienti della vicenda, ma creavano anche situazioni surreali, un universo di chimere e di fantasmi, con bagliori rosso sangue, fumi che avvolgevano i personaggi (e nei quali sembrava muoversi a mezz’aria Paul, durante una crisi di sonnambulismo), improvvise inondazioni che sembravano allagare la stanza.
La prigione dei tiranni
A Rotterdam si è visto anche The Tyrant, opera da camera dell’americano Paul Dresher, già messa in scena al Teatro di Bolzano, basata sul Re in ascolto di Calvino. Concepita come un monologo, raccontava la claustrofobica esistenza di un tiranno (vanno di moda i tiranni nel teatro d’opera, dopo Richard III di Battistelli, Il re nudo di luca Lombardi, Re Orso di Marco Stroppa), che decide di autosegregarsi nel suo palazzo, per paura di essere spodestato, limitandosi ad ascoltare i suoni dall’esterno per capire cosa accade nel suo regno. Nonostante l’impegno del tenore Michael Bennett, e la bella idea scenica del mondo sottosopra, del palazzo regale trasfromato in una scatola chiusa sospesa a mezz’aria, su una pila di scartoffie (scenografia di Jason Southgate), il risultato era teatralmente fiacco, musicalmente scadente e monotono.
Echi tibetani e wagneriani
Tutt’altra cosa era la musica di The Summer Cloud’s Awakening di Jonathan Harvey, capolavoro corale (per coro, flauto, violoncello, percussione e tastiera elettronica) presentato in un’originale versione semiscenica. Lavoro paradigmatico della poetica musicale di Harvey, fondeva insieme elementi wagneriani (Come il celebre Tristan-Akkord, usato come un vero e proprio Leitmotiv, o la frase «Doch der Tag muss Tristan wecken?», sottoposta a un processo di espansione) e elementi legati alla dottrina buddista cara al compositore inglese (echi di tamburi e campane orientali, una linea dei bassi che evocava il canto subarmonico dei monaci tibetani). Il risultato era leggibile come una versione in musica di un antico rituale, una narrazione del ciclo dell’eterna rinascita, nella quale si mescolavano effetti rumoristici, elementi danzanti, suoni che sembravano sospiri e guaiti, in una grande marea polifonica, a ondate, sempre in crescendo, restituita in tutta la sua finezza dal Coro della Radio lettone diretto da Kaspar Putnins. Il pezzo di Harvey era inquadrato da due composizioni della lettone Santa Ratniece: horo horo hata hata, che faceva riferimento ad antichissime ninna-nanne giapponesi, pieno di suoni onomatopeici e imitazioni di suoni della natura; e Chu Dal, una sorta di ode corale ispirata a un lago mistico, Ubsu-Nure, un lago salato nel cuore dell’Himalaya, meta invernale dei monaci tibetani. Si trattava dunque di un trittico, lavori non pensati per una destinazione scenica, ma tutti dotati di una forza visionaria che si prestava bene alla teatralizzazione: bello il video di Tessa Joosse, che alternava immagini di montagne, nuvole, cime innevate, improvvise esplosioni, ruscelli en ralenti, e dai riflessi dorati; più che la parte corografica, affidata a un danzatore che si muoveva davanti a quelle immagini, come un monotono pellegrino. Riuscito, da tutti i punti di vista, lo spettacolo di Pierre Audi, Je sens un deuxième coeur, basato su due composizioni di Kaija Saariaho: Quatre instants (2002), ciclo per voce e pianoforte su un testo di Amin Maalouf, e Je sens un deuxième coeur (2003), per viola, violoncello e pianoforte, concepito come una serie di studi per l’opera Adriana Mater. L’intreccio tra i brani cantati, carichi di nostalgia, e i pezzi strumentali, pieni di energia e di invenzioni timbriche, creava un bel contrasto drammatico, e raccontava bene i tormenti di una donna divisa tra due uomini, il suo dibattersi tra l’estasi, la disperazione, il rimorso, la tristezza. Mattatrice della serata era il soprano Roswitha Bergmann, che ha strettamente collaborato con Audi nell’ideazione dello spettacolo. Nello spazio scenico, avvolto da grandi pareti nere, solo un’esile betulla, alcune luci, il coperchio di un pianoforte rivestito da un lenzuolo bianco, un emozionante gioco di ombre.