Il socio di una società di capitali non ha diritto al risarcimento dei danni che costituiscano mero riflesso del pregiudizio arrecato dagli amministratori alla società, in quanto siano una mera frazione del danno direttamente subito dalla stessa
L’interpretazione restrittiva recentemente accolta dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 11 dicembre 2013 n. 27733) ha determinato l’esclusione della legittimazione del socio ad esperire l’azione individuale ex art. 2395 c.c. per il risarcimento del danno derivante dalla perdita della redditività e del valore della partecipazione, in quanto ritenuto mera conseguenza indiretta ed eventuale della condotta dell’amministratore.
Nell’ipotesi di atti dolosi o colposi forieri di danni per la società, sulla scia della precedente pronuncia a Sezioni Unite n. 27346/2009, il Supremo Consesso, nel concepire la partecipazione sociale quale bene distinto dal patrimonio sociale, ha dunque ritenuto meramente indiretto il pregiudizio derivante al socio uti singulus per la perdita di valore della propria partecipazione. Dunque, ai fini dell’esperibilità dell’azione prevista dall’art. 2395 c.c., la lesione deve incidere in via immediata su diritti del socio (o del terzo) e non sui diritti facenti parte del patrimonio sociale.
Volendo analizzare la fattispecie, mentre la giurisprudenza è intervenuta ad individuare in maniera esplicita categorie di danno non risarcibili a norma dell’art. 2395 c.c., minor chiarezza è invece stata offerta nella definizione delle tipologie di danno che possono essere sofferte “direttamente” dal socio.
Come desumibile dalla casistica sul tema, ipotesi tipica di responsabilità ex art. 2395 c.c. è quella degli amministratori che, sulla base di bilanci falsi, inducano soci o terzi ad acquistare o vendere azioni della società o sottoscrivere aumenti di capitale a condizioni manifestamente inadeguate. Su tale base, potrebbe ammettersi la legittimazione ad agire del socio che, avendo fatto affidamento su una falsa rappresentazione del bilancio, abbia dovuto vendere le proprie azioni o quote ad un prezzo significativamente inferiore rispetto a quello effettivo. A maggior ragione, ciò dovrebbe valere nel caso in cui, a causa dell’illecita condotta dell’amministratore, la trattativa di vendita non vada a buon fine.
Ad avvalorare tale interpretazione, la Suprema Corte ha prospettato, come casi tipici di danno diretto, quelli conseguenti a false comunicazioni sociali da parte degli amministratori che, provocando un errato convincimento sulla reale situazione patrimoniale della società, abbiano indotto il socio a svendere le proprie azioni (Cass. civ. n. 6364/1998; cfr. Cass. civ. n. 13766/2007).
In definitiva, la legittimazione dei soci ad agire ai sensi dell’art. 2395 c.c. può ritenersi ammessa esclusivamente in presenza di danni direttamente arrecati alla sfera personale del socio, sia di carattere patrimoniale – come in caso di perdita di opportunità economiche o lavorative o di riduzione del cd “merito creditizio” (si veda a tal fine la già citata Cassazione n. 27733/2013) – sia di tipo non patrimoniale, quale ad esempio il danno all’immagine o all’onorabilità.