L’atteso rapporto Onu sull’uso di armi chimiche in Siria è stato presentato lunedì 16 settembre nel corso di una riunione a porte chiuse del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. I risultati parlano chiaro: i 14 casi presi in esame dagli inviati Onu presentano evidenze inconfutabili circa l’uso di gas nervino sarin durante i recenti scontri sul territorio siriano.
Il segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon, illustrando le conclusioni del rapporto degli ispettori Onu ha affermato: « l’85% dei visitati sono risultati positivi ai test sulla presenza di gas sarin. Questo è un crimine di guerra ed è violazione delle leggi internazionali. È il più ampio uso di gas sarin dal 1998, quando fu usato da Saddam Hussein. La comunità internazionale ha la responsabilità di garantire che le armi chimiche non verranno più usate come arma di massa».
Nonostante ancora non sia chiaro se il gas sia stato usato, esclusivamente, dal regime di Bashar al-Asad, le divergenze, in seno al Consiglio di Sicurezza, circa l’interpretazione da dare al report degli ispettori, sembrano essere destinate a moltiplicarsi. Se la Russia, per bocca del suo ministro degli esteri Sergei Lavrov, sembra addossare la responsabilità dell’uso delle armi chimiche ai ribelli, la Cina afferma di voler valutare bene il rapporto degli ispettori Onu prima di trarre qualsiasi conclusione circa un’eventuale responsabilità del governo siriano. Ma le cancellerie occidentali sembrano essere di tutt’altro avviso come dimostrano le parole di Susan Rice, consigliere per la sicurezza nazionale degli Usa, che in un nota diffusa dalla Casa Bianca afferma: «Le prove tecniche incluse nella relazione delle Nazioni Unite, tra cui la dichiarazione che il sarin era di alta qualità e che è stato usato un particolare tipo di razzo, rafforza la nostra valutazione secondo cui si tratta di un’azione del regime siriano, poiché solo esso era in grado di montare un attacco del genere».
Tutte le incognite dell’ accordo tra Usa e Russia
Nonostante l’accusa diretta al regime di Damasco, il temuto attacco militare degli Stati Uniti in Siria sembra, per ora, scongiurato grazie all’intesa raggiunta da Usa e Russia circa la consegna di tutte le armi chimiche di Assad. Ma le difficoltà del piano presentato all’Onu dalle due ex superpotenze sono più evidenti che mai.
I tempi per localizzare, trasferire e infine neutralizzare l’intero arsenale chimico del regime di Damasco si preannunciano lunghissimi, per non parlare dei costi elevati che un’operazione del genere comporta. Per ora questi interrogativi rimangono senza risposta e il piano russo sembra più un espediente per prendere tempo che una soluzione realmente praticabile. A conferma di questo sospetto c’è il rifiuto di Russia e Cina di avallare un intervento militare Onu in caso di fallimento del piano. Usa, Francia e Gran Bretagna si dicono, invece, pronte a intervenire se Assad non dovesse rispettare l’accordo stipulato. Il rischio è quello di ritrovarsi di nuovo in una situazione di stallo. «Non ci sono soluzioni buone per la crisi siriana», ha affermato di recente il Segretario di Stato americano John Kerry. Una frase che sintetizza perfettamente la situazione.
La guerra civile in Siria si protrae, ormai, da quasi 2 anni. Dal giugno 2011, quando, dopo mesi di protese e manifestazioni, i ribelli compiono il primo attacco organizzato contro le forze dell’ordine. Da quel momento l’esercito di Assad dà il via ad una sanguinosa repressione. Ma il movimento anti regime non viene stroncato e le varie fazioni ribelli, unendosi, danno vita all’Esercito libero siriano che da due anni combatte nel tentativo di abbattere Assad. L’atteggiamento dell’amministrazione Usa è stato inizialmente favorevole a ribelli. Lo stesso presidente Obama ha intimato più volte ad Assad di lasciare il potere. Ma ben presto l’amministrazione Usa si è resa conto che la Siria non è isolata come la Libia di Gheddafi o come l’Iraq di Saddam Hussein. Così il presidente americano, ha cercato in tutti i modi di evitare un coinvolgimento diretto degli Usa nel pantano siriano, finendo però per apparire titubante nella salvaguardia di quei principi di libertà e democrazia che l’America ha sempre difeso anche a costo di molte vite umane e di un forte calo di popolarità al di fuori dei suoi confini. Obama è finito, infine, trincerato dietro quella stessa linea rossa da lui stesso tracciata legando un eventuale intervento militare americano in Siria, all’uso di armi chimiche. Lo scorso 21 agosto il tanto temuto attacco chimico si è materializzato davanti agli occhi del mondo.
Dopo il fallimento delle varie “primavere arabe”, e il caos postrivoluzionario venutosi a creare in Libia e in Egitto, gli Usa non hanno nessuna voglia di far cadere Assad per consegnare la Siria agli estremisti islamici. Un intervento armato circoscritto soltanto ai siti di stoccaggio delle armi chimiche del regime rischierebbe, viceversa, di essere del tutto inutile o addirittura dannoso, finendo per destabilizzare tutta l’area. Finita l’epoca della guerra fredda e delle superpotenze, l’accordo raggiunto da Usa – Russia per disinnescare le armi chimiche di Assad sembra essere più che altro l’incontro fra due debolezze. Tuttavia le speranze di evitare un conflitto sono legate al successo dell’iniziativa diplomatica in corso al netto di tutte le sue incognite.
Una guerra “giusta”?
Per gli Usa e i suoi alleati l’intervento militare resta ancora una possibilità sul tappeto. C’è da chiedersi se sia moralmente giusto un intervento armato in Siria. L’uso di gas tossico contro la popolazione civile è un crimine turpe che è necessario fermare al più presto. Ma una guerra rischia di moltiplicare il numero di civili uccisi. Un dilemma di non facile soluzione. Il ricorso all’uso della forza può essere ritenuto “giusto” solo quando tutte le alternative ragionevoli si siano rivelati inefficaci. La dottrina della “guerra giusta” ha ripreso piede in America in occasione della guerra del Vietnam ma in realtà, la riflessione sulla presunta “moralità” di una guerra attraversa tutta la storia occidentale e risale al medioevo, alla cosiddetta “teologia morale”. Da sempre leader politici e comandanti militari hanno fatto ricercato giustificazioni morali per le imprese militari in cui si imbarcavano. Al netto di una buona dose di ipocrisia, atta spesso a coprire interessi poco “morali”, le argomentazioni dei leader di ogni epoca si fondano su una dottrina ben precisa, riferibile a due aspetti di ogni guerra che richiedono una giustificazione: l’inizio di una guerra in sé e il comportamento da tenersi durante un conflitto. Per il primo aspetto si parla di ius ad bellum ovvero la giustificazione delle cause e delle motivazioni che spingono ad una guerra e di ius in bello, ovvero un insieme di norme a cui ogni soldato dovrebbe rispondere sul campo di battaglia, come ad esempio il precetto che vieterebbe il coinvolgimento di civili negli scontri armati.
Nelle guerre di oggi però questi parametri sembrano completamente saltati a causa delle trasformazioni che hanno subito, dal secondo conflitto mondiale in poi, gli scontri bellici. Difficilmente si assiste oramai a un conflitto fra due Stati sovrani, con due eserciti regolari, su un campo di battaglia. La guerra di oggi è una sorta di guerriglia globale diffusa che non esita a coinvolgere civili e a seminare terrore nelle città.
Guerre di liberazione e guerriglia globale
Probabilmente il limite della politica estera Usa in medio oriente è stato proprio quello di non riconoscere, fino in fondo, questi cambiamenti. Al di là delle accuse di interventismo più o meno fondate, è evidente che gli Usa sono portati più di altri Stati alla difesa dei diritti umani universali. Non si tratta solo di politica di potenza, ma di una sorta di Dna della nazione, nata dalla ribellione di un popolo contro uno Stato ritenuto dispotico. Nella Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America del 1776 si legge che “..quando da una lunga serie di abusi e di usurpazioni, che perseguono invariabilmente lo stesso obiettivo, si evince il disegno di ridurre il popolo a sottomettersi a un dispotismo assoluto, è il suo diritto (del popolo), è il suo dovere, rovesciare tale governo e affidare la sua sicurezza futura a dei nuovi Guardiani.”
Questa formulazione del diritto di un popolo a ribellarsi contro i governi dispotici è stata ispirata dagli ideali illuministici che fondano gli Stati moderni ma non è applicabile alla situazione, per molti versi pre-moderna, in cui si trovano molti Paesi mediorientali (anche per colpa delle stesse politiche occidentali). In Iraq, in Libia e in Egitto non c’era una lotta fra un popolo contro un despota, così come oggi in Siria l’esercito di liberazione non è composto solo da patrioti bensì da una folta schiera di estremisti, jihadisti e affiliati ad Al Qaeda. Un mondo complesso, in cui la componente religiosa è ancora fonte delle principali divisioni fra laici e religiosi, e poi fra Sciiti e Sunniti e altre fazioni religiose all’interno di questi blocchi. Le lotte che insanguinano il medio oriente ricordano più le guerre di religione che afflissero l’Europa fra XVI e XVII sec., piuttosto che i conflitti a cui ci ha abituati l’era contemporanea. Il Vecchio Continente uscì da quell’epoca di sangue e di guerre solo con la creazione di spazi di tolleranza politica e religiosa per i popoli, le etnie, i gruppi religiosi e gli Stati fino ad allora in conflitto. Cercare di creare questi spazi anche in medio oriente è la sfida che ci troviamo di fronte oggi.
Segretariato Generale delle Nazioni Unite – Rapporto sulle armi chimiche, agosto 2013