Pur non essendo riconosciuta come sindrome vera e propria, né come stato clinico patologico, la sindrome di Stoccolma è pur sempre una reazione mentale molto interessante, che ha spesso rapito l’attenzione dei mass media nonché di molti artisti: i notiziari di tutto il mondo ne hanno parlato, si sono tenuti molti dibattiti sul tema e ha ispirato film e libri. Ma cos’è esattamente e come nasce?
Un po’ di storia
Il termine “sindrome di Stoccolma” fu pronunciato la prima volta in Svezia durante un telegiornale dallo psicologo e agente speciale dell’FBI, Nils Bejerot, riferendosi al sequestro di persona che si verificò nella banca “Kreditbanken” di Stoccolma dal 23 al 28 agosto 1973.
In questo sequestro, seguito da Bejerot in quanto esperto criminologo, il detenuto Janne Olsson durante una libera uscita, con l’aiuto di Clark Olofsson, tenne in ostaggio quattro funzionari della banca per sei giorni.
Durante questo periodo le vittime svilupparono un legame tale da arrivare ad ostacolare sia le operazioni di recupero che le indagini, fino al punto che Olofsson, noto malvivente dall’età di 16 anni, fu riconosciuto innocente dalla corte d’appello in quanto non vi erano sufficienti prove ad indicare un suo coinvolgimento reale in prima persona e le vittime si rifiutarono di testimoniare. Ad Olofsson era stato difatti riconosciuto l’aver semplicemente parteggiato per Olsson, ma anche questa accusa ben presto cadde, Olofsson infatti sostenne che il suo intento era quello di cercare di aiutare gli ostaggi a mantenere la calma così che non vi fossero conseguenze. Si noti che costui durante il sequestro era armato e durante un primo tentativo di recupero degli ostaggi ferì un poliziotto, ma aiutato dalle testimonianze a suo favore da parte degli ostaggi, Olofsson fu rilasciato: grottesco pensare che due anni dopo fu l’artefice di quello che allora fu considerato il furto più grande nella storia della Svezia: un milione di corone svedesi, di cui buona parte non è mai stata recuperata.
Ma cosa scatta nella mente delle vittime? Come mai sembrano legarsi affettivamente al loro carnefice?
I meccanismi della sindrome di Stoccolma
Il motivo per cui le vittime si legano al loro carnefice si spiega col fatto che sono letteralmente nelle sue mani, da lui dipende la vita e la morte, si diviene quindi come dei neonati tra le braccia di un genitore, o meglio ancora ci si vede come esseri mortali sottomessi a un dio da compiacere per evitarne l’ira e da amare per i suoi momenti di benevolenza.
In tale condizione qualsiasi atteggiamento di non ostilità, come ad esempio dare momentaneamente tregua al supplizio, concedere di andare in bagno, o dare nutrimento viene recepito dalla vittima come una grande prova di magnanimità.
Anche il rapitore, d’altro canto, sentendosi “rispettato” e compiaciuto mostra reale magnanimità verso i suoi ostaggi, creando un circolo vizioso tra concessioni, ubbidienza, maggiori concessioni e ancora più ubbidienza.
In questa situazione il “mortale” (la vittima) vede il “dio” (il carnefice) come oggetto di ammirazione e, nel caso si tratti di sottomissione a sfondo sessuale, può giungere all’innamoramento. La vittima vorrebbe quindi essere come il carnefice, si identifica con lui (o sente il desiderio di far parte della sua vita) sentendo in tal modo di poter condividere quella “potenza divina”.
Per sentirsi coerente con se stesso, non comprendendo il meccanismo mentale che produce in lui la strana ammirazione, la vittima prova una razionale comprensione per il carnefice: arriva a giustificarlo per quello che sta facendo e a comprenderlo, talvolta immaginando una vita difficile o un’infanzia infelice, o dando assieme a lui la colpa alla società, in tal modo l’identificazione o l’innamoramento (misto a tenerezza) diviene ancora più forte, rafforzando ancora di più il circolo vizioso.
A questo punto, “affezionandosi”, la vittima si è quasi assicurata, pur non consapevolmente, la sopravvivenza, in quanto l’oppressore ne percepirà la vulnerabilità e l’accettazione di inferiorità e, spesso, compiaciuto da tale atteggiamento la lascerà in vita.
Ma allora la sindrome di Stoccolma è una sorta di meccanismo di difesa? Ebbene sì, si potrebbe definire il meccanismo di difesa dei più deboli che in quanto tali riescono però ad avere la meglio rispetto alle vittime più forti. Infatti questa sindrome solitamente coglie le persone con poca forza fisica o di carattere e più impaurite.
Non è un caso che le donne ne siano più spesso “affette”: dopotutto esse vivono in un mondo dove la maggior parte degli uomini è potenzialmente – o apparentemente – più forte e la selezione naturale le ha dotate di un meccanismo che istiga alla protezione.
E quando la vittima viene liberata cosa accade? Nel momento in cui ritrova la libertà rimane legata alle convinzioni maturate durante il sequestro, in quanto questo è l’unico modo di sentirsi coerente con se stessa, addirittura può capitare che continuino rapporti d’amicizia con i sequestratori.
Vi sono casi in cui la vittima accecata dall’ammirazione per il suo carnefice è riuscita a convincere di tale valore anche la propria famiglia. Effettivamente questo accadde proprio nella rapina della banca di Stoccolma in cui Olofsson divenne addirittura amico di famiglia di Kristine Animarca, una degli ostaggi.
Vi sono casi particolari probabilmente annoverabili come sindrome di Stoccolma, ma molto più repentini di questa, in cui la vittima segue le istruzioni di un ipotetico aguzzino anche se potrebbe farne a meno in quanto non realmente sotto minaccia. In questi casi quello che scatta nella mente della vittima è l’essere stata “prescelta”: il sentire di essere stato scelto fra tanti induce ad obbedire al vessatore, il quale una volta defilatosi, verrà da un lato ammirato perché è riuscito senza uso di armi o di violenza ad ottenere quello che voleva, a dall’altro simbolicamente temuto in quanto la vittima non accettando il fatto di essere stata ella stessa a voler far parte del gioco, si chiederà come avrà fatto mai questo giocoliere delle menti a convincerla ad ubbidire.
Sindrome di Lima
Ma quando l’ostaggio sostiene che il suo rapitore si è comportato gentilmente siamo sempre di fronte alla sindrome di Stoccolma? La risposta è no. E’ possibile infatti che il sequestratore si sia realmente comportato gentilmente con i suoi ostaggi in quanto si sia egli stesso immedesimato nella loro situazione dispiacendosene. In questo caso siamo di fronte a quella che viene chiamata sindrome di Lima.
Questo nome deriva dal rapimento durato 128 giorni nell’ambasciata giapponese a Lima, ai cui 72 ostaggi rimanenti (da 400 che ne erano) fu permesso di giocare a scacchi, a carte, fu addirittura organizzata dai rapitori una festa di compleanno con tanto di torta.
In questa sindrome i rapitori empatizzando con le vittime decidono realmente di passare dalla coercizione violenta ad una linea più gentile di convivenza.
Da quanto abbiamo però detto sulla sindrome di Stoccolma, non è difficile che il sequestratore risponda a sua volta con una sorta di sindrome di Lima. Se però da un lato è vero che la sindrome di Stoccolma può provocare la sindrome di Lima, dall’altro lato è anche vero che la sindrome di Lima può presentarsi spontaneamente in un aguzzino, più spesso se questi è giovane e inesperto, o con caratteristiche di personalità meno marcate e decise, con quindi tendenza a vacillare nel suo comportamento coercitivo. In questo caso se messo di fronte ad un individuo che ispiri simpatia o fermezza di carattere, il sequestratore può addirittura arrivare a sentire sentimenti di amicizia e ammirazione verso la vittima, tali sentimenti lo indurranno a comportarsi amichevolmente, ad ascoltare i suoi consigli venendone talvolta addirittura persuaso, arrivando in alcuni casi a liberarla spontaneamente.
Come non sarà sfuggito a molti di voi lettori, la sindrome di Stoccolma ricorda molte situazioni comuni della vita quotidiana, nonché di alcuni tipi di rapporti sessuali. Nel prossimo articolo vedremo proprio queste analogie, oltre a parlare di alcuni dei casi più famosi di tale sindrome. (fine prima parte)