Essere socio SIAE ha significato fino a qualche giorno fa possedere un fondamentale requisito: essere stato rappresentato o pubblicato un numero tale di volte che non solo si contribuisce alla sopravvivenza dell’ente ma si testimonia la propria professionalità. Giacché appunto in Italia non esiste la professione “ artista”, “ scrittore” e così via.
Diverso dal socio è l’iscritto a qualsiasi titolo, e che comunque la Siae si impegna a tutelare attraverso la corresponsione dei diritti d’autore. Se ad esempio con un estro improvviso si pubblica una pièce teatrale o una canzone, ci si iscrive alla Siae e si deposita la propria opera affinché venga tutelata. Se si è rappresentati sarà l’ente a fornire il corrispettivo previsto e a farsi carico di difendere l’autore.
Il fatto di essere iscritti però, fino a che il lavoro non si dimostra continuativo, non dimostra la professionalità. E questo anche per dare agli autori dei criteri di riconoscibilità.
E il riconoscimento viene attestato dai diritti incassati, cioè dalle volte che pubblicamente sei stato rappresentato.
Inoltre i Soci, anni fa, hanno deciso di versare il 4 % dei loro proventi di diritti in un Fondo. Si può dire una sorta di “ cassa comune” o di “mutua assistenza” proprio perché può accadere che benché si sia data prova di professionalità, per la natura stessa dell’arte e per l’andamento fluttuante dell’industria culturale nella mani di caste spesso colluse con la politica, si resti improvvisamente senza nessun tipo di lavoro, né casse malattie, né assistenza, né sindacato. Per questo passati i 60 anni ogni socio, grazie a quell’accantonamento avrebbe così diritto a un assegno, che arbitrariamente viene chiamato “pensione”. Questo assegno è valido anche per i congiunti dei soci scomparsi. Una somma modesta che consente in assenza totale di lavoro di mettere insieme pranzo e cena nella peggiore delle ipotesi, nella migliore di aggiungersi a altri proventi. In ogni caso rappresenta il riconoscimento del lavoro svolto, cioè della propria professione.
E’ evidente che se un autore socio è molto famoso, poniamo come può essere un cantautore come De André, il suo 4 % è maggiore rispetto a un altro socio anche bravo professionista, ma che non incasserà mai quanto i diritti di De André. Tuttavia, per il principio stesso della reciproca riconoscibilità tutti gli artisti, degni di questo nome, sanno perfettamente che loro esistono grazie anche a altri professionisti, anche se magari meno noti.
E’ un dato così recepito che è globalmente condiviso: grandi autori stranieri (e eredi) come Harold Pinter, Bernard Shaw, Niel Simon, versano il loro 2% di diritti in Italia se vengono rappresentati.
Cioè: la libertà dell’arte e del pensiero passano attraverso la sopravvivenza in vita degli autori essendo questi esseri umani che come tutti invecchiano, mangiano e hanno bisogno di cure.
Se in vita si devono occupare di come pagarsi la pensione, non saranno mai professionisti, ma dilettanti da dopolavoro. Che non significa che non possano a loro volta diventare ottimi professionisti (come per esempio il magistrato Giancarlo De Cataldo).
Tuttavia non tutti la pensano così. Molti autori in Italia che incassano milioni di euro, hanno iniziato a protestare sul loro 4 % su cifre milionarie, da far confluire in una cassa comune, per finire col percepire un assegno modesto.
Questo Fondo così costituito, o Assegno di Professionalità, che viene corrisposto con le percentuali versate in una sorta di cassa comune dagli autori, e quindi di loro esclusiva proprietà, presentava una serie di anomalie che nessuno, nel tempo, si è occupato di sanare. E cosicché la legge ha fatto il suo corso dichiarandolo, la bellezza di venti anni fa, illegittimo. Una decisione del Consiglio di Stato sostiene infatti che un ente non può sostituirsi a un istituto pensionistico. Le probabili operazioni compiute per porre rimedio con ricorsi di vario tipo sono state però tardive e negligenti da parte delle precedenti amministrazioni della Siae, le cui dirigenze sono state sempre di nomina governativa. Gli autori e le associazioni di categoria non sono state meno negligenti.
Col tempo, l’ambigua posizione e il sospetto che il “potere” nutre nei confronti dell’arte , in Italia soprattutto, hanno reso praticamente impossibile immaginare il contributo pubblico alla sopravvivenza dell’Ente (sempre dissestato) proprio perché non si riconosce più l’arte e l’artista come liberi, ma come “redattori” di contenuti che fanno cassa e che si riferiscano a nuclei di potere. Mafie (in senso sociale) a tutti gli effetti.
Pertanto le dirigenze, più che rappresentare gli autori somigliano a dei mastini per interessi di privati.
E arriviamo all’ultimo direttore generale Gaetano Baldini che come ci informa la stampa è stato implicato in affari con Diego Anemone per aver liquidato alla metà del valore gli immobili della Siae.
Per quanto riguarda il Fondo e la sua gestione, si scopre il miglior paladino della legge. Infatti tre commissari, nominati dal governo, si attivano prontamente (dopo vent’anni dalla decisione della magistratura amministrativa) per eliminare il Fondo e gestire diversamente gli 87 milioni di euro degli autori. In pratica: chiudono all’improvviso i rubinetti per quei quasi mille soci che ricevono l’assegno a carico del Fondo che loro stessi hanno provveduto a costituire e incrementare.
La situazione che si crea è perciò che chi è socio e ha versato per anni il suo 4% , non avrà più i suoi soldi indietro, chi lo ha fatto e non lavora più non avrà più alcun sostegno, e come lui gli eredi dei soci scomparsi.
Se alcuni sono benestanti, altri sono però indigenti, e contavano su quell’assegno che gli è stato sottratto improvvisamente.
Bisogna leggere l’intervista del direttore Gaetano Blandini sul sito Rockol per individuare, in filigrana, l’accanimento contro gli autori come se fossero dei nemici da abbattere e non la categoria che rappresenta. Il tutto ammantato da improvvise accensioni comuniste che ovviamente non riguardano il suo salario: che ingiustizia che solo alcuni prendano questo assegno! Solo che se questo assegno non c’è più, significa che nemmeno l’autore esiste più. E quindi nemmeno l’ente che lui rappresenta avrebbe ragione di esistere. Cosa che lo farebbe decadere all’istante.
In questi propositi di equità non spiega neppure che molte persone che percepiscono l’assegno di professionalità sono ottuagenari e anche più, totalmente fuori dal mercato del lavoro, e dalla vita di associazione.
Questi, come tutti i soci, sono stati da lui avvertiti il 16 gennaio con una lettera di quattro pagine illeggibile se non si è avvocati esperti di diritto d’autore. Una lettera che sembra più un paracadute per se stesso che una comunicazione utile agli interessati (copia della lettera è allegata in calce a questo articolo).
Benché espressione di un governo che ha fatto della comunicazione la paranoia, Baldini non scrive perciò né in italiano né per tempo ai diretti interessati, ma affida la comunicazione della sospensione di un diritto così vitale a un cialtronesco passaparola tra ottuagenari, con eventuali problemi di udito, reperibilità, deambulazione o salute, per dare notizia del venire meno di un diritto così importante.
E’ talmente abnorme l’ingiustizia e i vuoti e i vizi, che ogni futuro ricorso sarebbe vinto, sperando che il direttore della Siae si dimetta presto.
Ma è anche evidente che questo causerebbe una battaglia lunga costosa e “sanguinosa”. Ed è quindi chiaro che si è puntato – con somma infamia – precisamente sulla fragilità, sull’indigenza, sullo sfinimento, la vecchiaia e la demoralizzazione delle persone coinvolte, probabilmente a favore di altre, con ben altri proventi e altro potere.
Va detto infatti, per onor di cronaca, che un gruppo di… grandi autori – sparuto nel numero ma esteso nel potere di controllo, anche in passato, dell’Ente – non gradisce versare il 4 per cento al Fondo ed è dunque lieto che finalmente sia stata fatta… giustizia.
Non resterebbe altro che fare l’elenco di questi otto/dieci “grandi firme”. Ma dal momento che in Italia la querela per diffamazione resta uno dei più potenti strumenti di intimidazione per i giornalisti, riteniamo che i nomi, in fondo, siano superflui rispetto alla gravità complessiva della questione.
Siae, comunicazione del direttore generale ai soci, 16 gennaio 2012