Gli ultimi avvenimenti della scena politica americana potrebbero risultare incomprensibili agli occhi di noi europei. Il cosiddetto “shut-down”, ovvero lo “spegnimento” della spesa pubblica ha portato da un giorno all’altro al congelamento di 800.000 stipendi, pari a circa un terzo dei dipendenti federali.
Gli effetti di tale misura vengono riportati dai media nostrani quasi fossero notizie di colore, tra il blocco delle operazioni della celebre NASA e la chiusura di monumenti o parchi naturali.
Un evento simile nel vecchio continente avrebbe causato un terremoto sociale: basti pensare all’austerity imposta alla Grecia o alla blanda spending review all’italiana, fatti che impallidiscono di fronte alla scure imposta dal Congresso di Washington.
Si tratta, ad ogni modo, di vicende radicalmente differenti, in ragione di obiettivi e cause scatenanti che ne impediscono un confronto diretto. Ciò che invece preoccupa è l’avvicinamento tendenziale delle politiche economiche europee verso quelle americane, soprattutto in termini di meccanismi decisionali, per cui gli USA di oggi ci offrono una prospettiva di quanto potrebbe accadere nel vecchio continente qualora determinate riforme centrali fossero approvate.
Il blocco totale dei servizi non essenziali, entrato automaticamente in vigore dal primo di ottobre, è il frutto del sistema americano di approvazione del bilancio federale.
In tale contesto, infatti, l’applicazione del bilancio provvisorio, che subentra quando non viene approvato il budget definitivo, si limita a coprire solamente le spese primarie, ad esempio scuole ed ospedali. La situazione scaturisce dalla coesistenza di maggioranze differenti che guidano le due camere del parlamento degli Stati Uniti, una repubblicana (Camera) ed una democratica (Senato).
Esiste di fatto un potere di veto da entrambe le parti, il cui effetto è quello di intavolare difficili trattative ogni volta che occorre un’approvazione congiunta. In buona sostanza i repubblicani, in particolare la frangia più radicale, hanno usato l’approvazione del budget per impedire l’attuazione della controversa Obamacare, la riforma sanitaria universale per tutti i cittadini già approvata dal Congresso diversi anni prima, quando la maggioranza democratica era incontrastata.
I repubblicani hanno posto come condizione lo slittamento di un anno per quanto riguarda l’assistenza sanitaria gratuita, la cui entrata in vigore scattava proprio in questa settimana.
Il Presidente, dal canto suo, ha sempre tenuto il pugno fermo affermando che non si può trattare su una riforma già approvata dal parlamento, anche se di conformazione diversa da quello attuale.
Quali che siano le ragioni politiche, è evidente che la fase di stallo, per cui vengono buttati ogni giorno 300 milioni di dollari, trae origine da un sistema legislativo che imbriglia senza appello le decisioni di spesa, attribuendo al parlamento un ruolo di enorme responsabilità che spesso viene utilizzato per fini diversi rispetto all’oggetto della discussione.
Il caso attuale è quasi scolastico: i repubblicani impongono la loro linea non per ottenere modifiche sul budget, di cui in effetti nessuno si occupa, ma per destabilizzare il governo Obama e costringerlo a ritirare il suo cavallo di battaglia, la riforma sanitaria, inferendogli un colpo decisivo per la prossima campagna.
Tale potere deriva soprattutto dal sistema delle elezioni di medio termine, che giungono a metà di un mandato presidenziale e che spesso, nella storia USA, hanno rovesciato i rapporti di forza impedendo al presidente di turno di portare avanti la propria linea politica.
Se non viene affrontata per tempo, la questione potrebbe trascinarsi ed avere conseguenze ancora più gravi sul fronte debito pubblico, altro punto debole del meccanismo decisionale americano. Il tetto del deficit, che in poche parole rappresenta l’aumento annuale del debito, è anch’esso soggetto all’approvazione del Congresso. In pratica, una maggioranza nelle due camere può impedire al governo federale di indebitarsi e quindi di far fronte alle spese accumulate, specie per gli interessi sui titoli: in tale contesto, dunque, uno stallo politico pone in essere un concreto rischio di default, che per l’America non è nemmeno pensabile.
Guardando al passato, si osserva che i governi USA hanno già vissuto situazioni simili, anche se l’ultimo shut-down risale a 17 anni fa, quando il Presidente era Bill Clinton. Sul fronte debito, sono già due anni che Obama è costretto a trattare con i repubblicani, a maggior ragione visto l’enorme deficit accumulato in questi anni per finanziare l’uscita dalla crisi.
Come accennato all’inizio, le riforme di bilancio europee muovono di fatto verso un modello simile.
L’intento è quello di responsabilizzare il più possibile i governi nel gestire la spesa pubblica, impedendo il ricorso sfrenato al debito come accadeva negli anni d’oro dell’Euro, quando tutti hanno beneficiato di tassi d’interesse particolarmente bassi.
Gli USA ci mostrano che tali misure richiedono una struttura decisionale complessa ed il più possibile equa: è una questione di “pesi”, in quanto è fondamentale che nessuna parte sia nella posizione di poter ricattare l’altra.
L’attribuzione alla Commissione Europea di un potere di veto sui bilanci nazionali, ipotesi fortemente voluta dalla Germania e sul tavolo delle trattative da diverso tempo, comporta rischi molto simili a quanto sta accadendo oggi negli USA, per di più in assenza di un meccanismo di elezione diretta da parte dei cittadini comunitari.
Nel nostro piccolo, la nuova normativa costituzionale sul pareggio di bilancio potrebbe imporre i medesimi blocchi parlamentari, vista che una eventuale deroga in caso di recessione sarebbe soggetta ad approvazione parlamentare.
La situazione americana pesa sulle nostre teste più di quanto pensiamo, poiché il legame tra l’economia europea e quella statunitense è ancora il più forte di tutti.
Le borse continentali ne stanno già subendo gli effetti, mentre un’altra frenata dei consumi americani comporterebbe notevoli perdite tra i nostri produttori, anche alla luce dell’Euro sempre più forte.
L’ipotesi di fallimento del debito non è nemmeno presa in considerazione: gli effetti apocalittici sembrano un incentivo sufficiente affinché il Congresso non tiri troppo la corda.
D’altra parte criticare quanto avviene nel parlamento americano, accusando i repubblicani di scarsa responsabilità, sarebbe francamente ridicolo, almeno da parte nostra.
L’esperienza italiana in materia di ricatti politici, infatti, supera di gran lunga le tensioni interne al parlamento americano, specie sui temi economici. L’abolizione dell’IMU e l’introduzione della service tax sono solo l’ultimo esempio di una serie di scelte senza alcun fondamento teorico al di fuori della mera propaganda elettorale.
I politici italiani sono maestri nell’utilizzare le votazioni in aula per abbattere il proprio avversario o per trarne benefici personali, in completo disinteresse verso l’oggetto della discussione: in questo, almeno, non abbiamo nulla da imparare dagli americani.