Nei casi in cui la separazione tra i genitori viene pronunciata poco dopo la nascita del figlio, con il contestuale rilascio dell’abitazione da parte del padre, si verifica spesso che il bambino, crescendo, rifiuti la figura paterna.
Ciò deriva dal fatto che i due pomeriggi a settimana concessi dal Tribunale o i fine settimana alternati, non sono certamente sufficienti per costituire un legame tra il bambino ed un soggetto che egli vede, di fatto, come estraneo.
Da questa situazione estremamente frequente nella pratica giudiziaria, scaturiscono cause a ripetizione, laddove il padre, lamentando che è proprio l’ex coniuge ad inculcare nel bambino o nella bambina il rifiuto alla figura paterna, si rivolge nuovamente al Tribunale richiedendo un provvedimento coattivo.
Contestualmente iniziano procedimenti con richieste di consulenze di psicologi o neuropsichiatri infantili ovvero si attiva il Giudice Tutelare per l’adempimento dei provvedimenti ineseguiti del Tribunale a causa del rifiuto del bambino, o ancora si avviano cause avanti al Tribunale per i Minorenni per la pronuncia della decadenza della potestà del genitore, quando poi non si finisce addirittura nel penale con le querele sporte dal padre nei confronti della madre ex art. 388 c.p., rea di non rispettare l’ordine del Giudice e della madre nei confronti del padre per averla calunniata ex art. 368 c.p.
L’intervento dei servizi sociali
Di fronte alle accuse vicendevoli in effetti non è facile rilevare se la mancata disponibilità del bambino sia realmente imputabile alla madre (che in genere ritiene il proprio compagno inaffidabile), soprattutto quando si tratta di curare e avere con sé un bambino in tenera età, ovvero se, come molto spesso avviene, è lo stesso bambino autonomamente che considera il padre un estraneo.
La Corte di Appello di Roma con un decreto di pochi giorni orsono (17/06/2013, proc. n. 50791/12) è intervenuta in uno degli innumerevoli casi di questo genere in cui ciascuna parte, alla cessazione di un rapporto di convivenza, accusava l’altra di essere responsabile del mancato gradimento da parte del bambino della figura paterna e del rifiuto degli incontri stabiliti dal giudice.
La questione nasceva da un errore commesso a suo tempo dal Tribunale per i minorenni, laddove il giudice aveva stabilito che il padre, oltre i giorni di visita, potesse avere con sé il bambino, peraltro ancora nei primissimi mesi di età, anche per il pernottamento, ipotesi che normalmente i giudici non autorizzano se non raggiunto il terzo o il quarto anno di età.
Avverso tale provvedimento, la madre proponeva reclamo alla Corte di Appello, rilevando l’evidente errore in cui era incorso il Tribunale ed eccependo il fatto che il bambino non voleva vedere il padre, fatto derivante proprio dal mancato svolgimento degli incontri stabiliti dal Tribunale con il papà che, lavorando come skipper, ero spesso fuori anche per lunghi periodi.
La Corte di Appello con un procedimento piuttosto prolungato nel tempo, incaricava più volte i Servizi Sociali di riferire sulla situazione.
In effetti, emergeva che la madre pur adoperandosi per favorire i rapporti fra padre e figlio, non era per nulla disponibile a organizzare passeggiate o incontri con l’ex compagno solo per creare un clima di fiducia nel bambino, e d’altra parte il padre proprio a causa dei periodi di lavoro, diveniva una figura assente.
Superata la questione del pernottamento, atteso che il bambino nel frattempo aveva raggiunto quasi i quattro anni di età, la Corte di Appello mandava a sentenza il processo e con decreto definiva la questione in modo piuttosto sommario, incaricando semplicemente i Servizi Sociali di vigilare sugli incontri e ordinando ai genitori di attenersi alla disposizione dei Servizi Sociali.
Tale provvedimento per inciso non può non essere criticato: è assurdo che un organo senza alcun potere giurisdizionale come i Servizi Sociali (i cui addetti, oberati di lavoro, come ben sanno gli avvocati, agiscono in modo talvolta sommario e senza alcuna continuità) possa emettere dei provvedimenti, ai quali i genitori dovrebbero attenersi, in luogo del magistrato, unico organo deputato per legge ad emettere provvedimenti coattivi.
Se non mi fai vedere il bambino ti denuncio…e io pure per calunnia
Quando gli animi si esacerbano, spesso la contesa si sposta sul piano del diritto penale.
Sotto tale profilo va ricordata la sentenza della Cassazione n. 27729/13 depositata il 24 giugno 2013, relativa a un caso in cui il marito aveva denunziato penalmente la moglie per avergli negato, in violazione dell’ordinanza del Tribunale Civile di Catania, gli incontri con la minore.
La moglie rilevava che tale accuse erano false, essendo emerso nel processo che in realtà era proprio la piccola ad aver autonomamente scelto di non voler incontrare il padre, situazione che questi non poteva ignorare.
Pertanto, dopo essere stata assolta denunciava il marito per calunnia, per averla incolpata ingiustamente di un fatto che egli sapeva falso.
Il Tribunale di Catania in primo grado, condannava il marito per calunnia, mentre successivamente la Corte di Appello di Catania il 12 marzo 2013 lo assolveva, rilevando che il fatto non potesse costituire reato, laddove, nella situazione tesa e difficile che si era creata tra i coniugi, il marito ben poteva aver maturato la convinzione che alla base del rifiuto della figlia vi fosse la condotta induttiva della madre.
Non contenta, la madre ricorreva alla Corte Suprema eccependo che non poteva esservi alcun fraintendimento e cioè che il marito sapeva benissimo che il rifiuto degli incontri non era certamente indotto dalla madre, ma era dipeso dalla volontà chiaramente espressa dalla bambina.
Il padre invece si era ben guardato nella querela di precisare tale circostanza di fatto.
La Corte di Cassazione tuttavia rilevava che l’erronea convinzione della colpevolezza della persona accusata, escludeva l’elemento soggettivo del reato, in quanto l’idoneo convincimento del marito non riguardava una situazione di fatto, facilmente verificabile, ma semplici profili valutativi descritti, sia pure in buona fede, in termine radicalmente difformi dalla realtà.
Dunque la falsità dell’accusa rivolta dal padre all’ex compagna atteneva all’interpretazione del comportamento passivo e non collaborativo, ritenuto dall’imputato, nell’ambito del clima di tensione e dei gravissimi contrasti che caratterizzavano il rapporto.
Quindi egli aveva rappresentato la realtà in modo falsato non relativamente a fatti oggettivi, ma relativamente all’interpretazione dei fatti, come riconducibili a responsabilità della madre.