Un interessante decreto è quello recentissimo emesso dal Tribunale di Roma il 17 Aprile 2018 (R.G. 13383/16).
La questione sorgeva in quanto, in una separazione consensuale il marito estremamente facoltoso e con interessi in numerosi paesi esteri, dichiarando un reddito mensile di soli 4.000,00 ed approfittando probabilmente della scarsa conoscenza del diritto della moglie, otteneva da parte di quest’ultima l’adesione ad una separazione consensuale ben poco conveniente per la donna, laddove veniva stabilito un assegno modesto per lei ed i tre figli ed inoltre tratteneva per sé la casa coniugale che invece sarebbe spettata, come noto, alla donna collocataria della prole.
Dopo qualche anno l’interessata non riuscendo a far fronte alle esigenze alle quali era abituata la famiglia ed i figli, si rivolgeva ad un altro legale, il quale spiegava come non fosse possibile riesaminare le condizioni, pur vessatorie, tuttavia liberamente pattuite, ma si poteva al più chiedere la modifica delle condizioni a patto di dimostrare che si fosse verificato un mutamento dei presupposti sui quali erano state assunti detti provvedimenti.
LA DOMANDA DELL’INTERESSATA
Veniva dunque presentato un ricorso per la modifica delle condizioni e la moglie spiegava al Tribunale che i redditi del marito erano divenuti nel frattempo enormemente rilevanti; produceva numerosi articoli di stampa che riguardavano operazioni compiute dal coniuge a livello internazionale, produceva visure immobiliari e presso le Camere di Commercio relative alle varie società italiane ed estere ed indicava conti e rapporti bancari sparsi nel mondo.
Il marito costituendosi contestava le avverse deduzioni e rilevava che il proprio reddito effettivo, nel corso del periodo intercorrente tra la separazione liberamente accettata e la data del ricorso con la domanda di modifica, in realtà pur essendo rilevante, si era di fatto ridotto.
Il magistrato su istanza della ricorrente disponeva una consulenza tecnica d’ufficio incaricando un commercialista ed autorizzandolo ad avvalersi dell’ausilio della guardia di finanza per tutti gli accertamenti.
L’ESITO DELLA CONSULENZA TECNICA
Dalla consulenza tecnica emergevano redditi estremamente rilevanti, molti dei quali totalmente sottaciuti e comunque si accertava che, effettivamente nel corso degli anni il patrimonio del marito a livello internazionale, pur tenendosi conto di molte operazioni non comunicate e pur considerando che i redditi percepiti consistevano in cifre di tutto rispetto, doveva ritenersi minore di quello che esisteva al momento della stipula della separazione consensuale nella quale però il marito aveva dichiarato un reddito di € 4.000,00 mensili enormemente al di sotto del reddito effettivamente percepito all’epoca.
La difesa del marito rilevava che mancava il presupposto essenziale per la modifica delle condizioni della separazione, vale a dire una modificazione migliorativa della situazione patrimoniale computandosi il momento in cui era stata stipulata la separazione consensuale in poi.
Pertanto concludeva rilevando che miglioramenti economici non sussistevano in quanto all’esito della consulenza tecnica emergeva semmai una contrazione delle disponibilità reddituali e patrimoniali del convenuto.
LA DECISIONE DEL COLLEGIO
Il Tribunale rilevava che, al fine della modifica delle condizioni della separazione potevano essere valutate soltanto le sopravvenienze tali da mutare significativamente l’assetto economico e reddituale delle parti giustificando così la successiva modificazione delle condizioni liberamente assunte.
Tuttavia andava tenuto conto dell’ipotesi di conoscenza ovvero di conoscibilità degli elementi preesistenti e solo nell’ipotesi in cui tali elementi non fossero a conoscenza della parte che aveva firmato la consensuale, appariva ammissibile la richiesta di modifica perché non conoscibile alla stessa con l’ordinaria diligenza.
Se infatti la modifica delle condizioni della separazione non può essere richiesta quando le disponibilità reddituali e patrimoniali di uno dei coniugi sono conoscibili con l’ordinaria diligenza (per esempio consultando i Registri delle Imprese ovvero la Conservatoria dei Registri Immobiliari), lo stesso non può dirsi qualora tali disponibilità non siano conoscibili con l’ordinaria diligenza a seguito di occultamento da parte di uno dei coniugi.
Nel caso specifico, rilevava il Tribunale, il marito aveva dichiarato un reddito di gran lunga inferiore a quello reale, ma soprattutto era evidente sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, che la ricorrente non fosse affatto in grado di conoscere con l’ordinaria diligenza, l’esatta disponibilità reddituale e patrimoniale del marito efficacemente occultata all’estero e sconosciuta financo all’Autorità tributaria, disponibilità le quali erano state rese note solo mediante la partecipazione alle sanatorie legislative utili a far rientrare i capitali in Italia.
Dunque la separazione era stata firmata sula base delle dichiarazioni del reddito di circa € 4.00,00, somma sulla base della quale andava valutata la modificazione intervenuta nel frattempo.
Essendosi dimostrata la differenza di reddito fra quanto dichiarato e quanto effettivamente percepito negli anni successivi per cifre estremamente rilevanti, il Tribunale accoglieva la domanda, aumentava in maniera notevole il mantenimento per moglie e figli accollando tutte le spese straordinarei mediche e scolastiche, incluse le costose scuole private al marito, condannandolo altresì alle spese di lite.
QUANDO CAMBIANO I PRESUPPOSTI
Il decreto ci da’ l’opportunità di esaminare l’istituto della modifica della separazione e del divorzio nell’evolversi dell’attuale interpretazione della giurisprudenza.
In tema di separazione, l’art. 156 c.c. relativo agli effetti della separazione sugli effetti patrimoniali tra i coniugi recita all’ultimo comma: “Qualora sopravvengano giustificati motivi il giudice su istanza di parte, può disporre la revoca o la modifica dei provvedimenti di cui al comma precedente”.
Inoltre l’art. 337 quinquies in tema, tra l’altro di separazione, divorzio e tutela dei figli nati fuori dal matrimonio, statuisce che: “I genitori hanno diritto a richiedere in ogni tempo la revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli, l’attribuzione dell’esercizio della responsabilità genitoriale su di essi e delle eventuali disposizioni relative alla misura ed alla modalità del contributo”.
Sotto il profilo processuale l’art. 710 c.p.c. prevede viceversa “Le parti possono sempre richiedere con le forme del procedimento in camera di consiglio, la modificazione dei provvedimenti riguardanti i coniugi e la prole conseguenti la separazione…”.
Quanto viceversa al divorzio, provvede l’art. 9 della legge 898/70 e successive modifiche, che espressamente statuisce: “Qualora sopravvengono giustificati motivi, dopo la sentenza che pronuncia lo scioglimento, la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Tribunale, in Camera di Consiglio e per i provvedimenti relativi ai figli, con la partecipazione del Pubblico Ministero, può su istanza di parte, disporre la revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli e di quelle relative alla misura ed alle modalità dei contributi da corrispondere ai sensi degli art.li 5 e 6”.
Si tratta di procedimenti che nella pratica corrente vengono utilizzati con estrema frequenza, il che è facilmente spiegabile con il fatto che nella vita di un soggetto, le condizioni economiche, personali, familiari, e quelle relative ai figli, possono modificarsi in modo sensibile, creando quei presupposti necessari per ottenere la rivisitazione dei provvedimenti già assunti nella separazione, nel divorzio, e nelle statuizioni in tema di crisi della convivenza con prole.
Numerosissimi possono essere i casi che danno fondatamente luogo alla richiesta di revisione o modifica delle condizioni, basti pensare alla nascita di nuovi figli, alla modificazione dei rapporti economici, o dei redditi vicendevoli, all’esistenza di un nuovo rapporto di convivenza, alle maggiori spese, all’autonomia economica dei figli e del coniuge, etc.
La casistica mostra una serie di situazioni, abbastanza comuni ai fini della revisione delle pattuizioni o delle rideterminazioni di natura economica ed altre molto specifiche o particolari.
Un presupposto comune in diritto all’azionabilità delle norme che legittimano la richiesta di modifica delle condizioni, è quello che debbono sussistere “giustificati motivi” tali da autorizzare le modificazioni richieste, cioè devono sussistere fatti nuovi sopravvenuti, modificativi delle situazioni in relazione alle quali gli accordi erano stati stipulati ed ovviamente deve trattarsi di nuove circostanze di una certa rilevanza, riferibili alle pregresse statuizioni, non potendo essere prese in considerazione, per una giurisprudenza ormai costante, modeste o temporanee modificazioni.
D’altra parte, una diversa interpretazione non potrebbe che portare a processi di revisione all’infinito e spesso anzi bisogna dire che i magistrati tendono a respingere domande di revisione, se non con ampie e comprovate giustificazioni, proprio per disincentivare la tendenza dei legali a proporre con eccessiva facilità tali giudizi.
Comunque la richiesta di modifica delle condizioni della separazione o del divorzio, o delle statuizioni in tema di crisi della convivenza è sempre ammissibile e senza limitazioni temporali.
La giurisprudenza sotto tale profilo ritiene che il nostro ordinamento consente in ogni tempo all’avente diritto ed all’obbligato, di avvalersi della tutela prevista dalla procedura di modificazione o di revisione, per porre rimedio alle discordanze che si dovessero verificare tra la situazione attuale e quella esaminata al momento dei procedimenti del Tribunale.
Quindi in sostanza la decisione del giudice costituisce sempre un giudicato, come detto, rebus sic stantibus ed ammette modificazioni in senso comparativo, potendosi sempre valutare la situazione pregressa con quella attuale.
Unico caso in cui il coniuge nel divorzio, e limitatamente alla richiesta economica per sé, non può avvalersi di tale facoltà è quello in cui l’assegno divorzile sia stato liquidato con un versamento una tantum, ex comma 8^ art. 5 Legge divorzile n. 898/70.
Infatti in tal caso, previo il nulla osta del Tribunale, il versamento preclude ogni altra pretesa del coniuge avente diritto anche in caso di mutamento dei presupposti.
Ormai correntemente si ritiene che non vi siano limitazioni alla possibilità di chiedere la modificazione dei provvedimenti, sia per ciò che riguarda i diritti dei figli, sia per quello che riguarda i diritti dei genitori.
E’ pacifico che il diritto a richiedere la modifica dei provvedimenti pregressi sussiste comunque e anche se nell’accordo precedentemente sottoscritto tra i genitori o i coniugi si sia stabilito il divieto di richiedere la detta modificazione.
Si ritiene inoltre non proponibile la domanda di modificazione della separazione dei coniugi, allorché nel frattempo venga proposto il procedimento divorzile.
Si ritiene in tal caso sussistere un rapporto di continenza tra la causa promossa ex art. 710 c.p.c. e quella di divorzio introdotta successivamente, affermandosi che, nell’ambito di questo ultimo procedimento verranno necessariamente trattate anche le argomentazioni ed i temi oggetto del procedimento di modifica, (Trib. Genova 31/01/2012 e Cass. n. 28990/2008.)
LA PROCEDURA
Il procedimento di modifica delle condizioni di separazione, divorzio a tutela dei figli nati al di fuori del matrimonio è regolamentato da normative che hanno visto più volte l’intervento nella giurisprudenza soprattutto per ciò che riguarda la competenza territoriale.
Se è pacifico che la domanda vada proposta in Camera di Consiglio, sia per la separazione che per il divorzio e per i procedimenti relativi ai figli naturali, altri dubbi sono sorti con l’introduzione del nuovo rito della negoziazione assistita, limitatamente alla modifica delle condizioni della separazione o del divorzio, allorché la domanda venga presentata da entrambi i genitori
COMPETENZA DEL TRIBUNALE ORDINARIO
In tema di separazione e divorzio la competenza per materia spetta al Tribunale ordinario ex art. 706 c.p.c. così come spetta al Tribunale ordinario la domanda per la pronunzia divorzile ex art. 4 legge n°898/70 e successive modifiche e quella in tema di tutela dei figli nelle convivenze.
La stessa competenza del Tribunale ordinario è prevista per le azioni finalizzate alla modifica delle condizioni della separazione, nel divorzio e in tema di tutela alla prole nei rapporti di convivenza ex art. 38 disp. att. c.c..
Restano viceversa di competenza del Tribunale dei minorenni dopo l’entrata in vigore della legge del 10/12/2012 n° 219 e del D.Lgs. del 28/12/2013 n°154 (Nuova disciplina sulla filiazione), ai sensi dell’art. 38 disp. att. c.c. le azioni in tema di decadenza della responsabilità genitoriale sui figli ex art. 330 c.c. e quelle a tutela della prole in caso di condotta al genitore pregiudizievole ex art. 333 c.c.; salvo che non sia già pendente il processo avanti al Tribunale ordinario per l’affidamento ed i provvedimenti ex art. 337 ter c.c..
Queste ultime azioni, pur non rientrando specificatamente nei procedimenti di modifica delle condizioni, tuttavia vengono proposte allorché, dopo la pronuncia della separazione, o del divorzio o delle statuizioni in tema di tutela dei figli, si verifichino fatti di tale gravità da legittimare anche la domanda finalizzata alla decadenza o alla limitazione della responsabilità genitoriale.
Infine rientra nella competenza del Tribunale dei Minorenni l’azione promossa dai nonni per la tutela della frequentazione con i nipoti ex art. 317 bis c.c. e 337 ter c.c.
COMPETENZA TERRITORIALE
La questione della competenza territoriale per i procedimenti di modifica delle condizioni di separazione, del divorzio o relative all’affidamento dei minori nati fuori dal matrimonio, è stata oggetto più volte di interventi da parte della giurisprudenza.
Attualmente l’unica norma che disciplina la questione limitatamente ai minori, è l’art. 709 ter c.p.c. inserito dall’art. 2 della Legge 8 Febbraio 2006 n. 54 che espressamente statuisce: “Per la soluzione delle controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della responsabilità genitoriale o delle modalità dell’affidamento è competente il giudice del procedimento in corso. Per i procedimenti di cui all’art. 710 è competente il Tribunale del luogo di residenza del minore”.
Dunque è pacifico che, allorché si azioni il ricorso per la modifica dei provvedimenti relativi alla separazione dei coniugi ex art. 710 c.p.c. e la questione riguardi i minori, diviene competente il Tribunale del luogo di residenza del minore stesso.
Nulla dice la legge né sull’applicabilità della norma alle procedure divorzili, né quale sia la competenza territoriale, allorché il contrasto non verta su questioni relative ai minori (affidamento, collocamento, responsabilità genitoriali, mantenimento, diritto di visita e simili) ovvero riguardi gli ex coniugi.
Non si può neanche far riferimento alla disciplina generale in tema di separazione e divorzio, in quanto anche in tal senso la normativa è stata modificata dalla giurisprudenza.
Infatti in tema di separazione dei coniugi la competenza territoriale è stabilita dall’art. 706 cpc. il quale prevede come la domanda debba essere presentata al tribunale del luogo dell’ultima residenza comune dei coniugi.
Allorchè la residenza ed i domicili siano separati, nel luogo in cui il coniuge convenuto la residenza o il domicilio. Lo stesso principio si sarebbe dovuto applicare anche ai processi di divorzio ai sensi del d.l. n°35 del 2005.
Tuttavia, la norma appariva inapplicabile per il divorzio. Ciò perché dopo vari anni dalla separazione normalmente i coniugi avevano ricostruito i propri nuclei familiari in luoghi diversi.
Dunque la pretesa di incardinare il processo in un luogo in cui presumibilmente i coniugi non vivevano più, appariva poco pratica soprattutto in quei casi nei quali gli interessati si erano si erano trasferiti in altre città o addirittura in altri Stati.
Interveniva sul punto la Corte Costituzionale, la quale con la sentenza del 23/05/2008 n°169 statuiva l’inapplicabilità della norma per il divorzio.
In seguito la Corte di Cassazione con ordinanza n°15186 del 03/07/2014 esprimeva il principio per cui competente a conoscere della domanda di scioglimento del matrimonio civile o di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario, è il Tribunale nel luogo di residenza o domicilio del coniuge convenuto, salvi gli ulteriori subordinati criteri di determinazione della competenza previsti dall’art.4 della legge divorzile.
Sul punto è nuovamente intervenuta la Corte di Cassazione (n° 22394 del 05/09/2008 ) che ha precisato come in tema di modifica delle condizioni della separazione, (e in via analogica anche per il divorzio), debbano applicarsi gli ordinari criteri di competenza.
Quindi in via alternativa o il foro delle persone fisiche ex art. 18 e ss. c.p.c. quindi la residenza dell’altro coniuge o in via alternativa il foro concorrente ove è sorta l’obbligazione ex art. 20 c.p.c.
Sussisterebbe quindi contestualmente anche la possibilità di rivolgersi al Tribunale ove è stata pronunciata la separazione o il divorzio tra i coniugi sia giudiziale che consensuale.
Tale principio alternativo è stato tuttavia disatteso da varie sentenze, (Tribunale di Milano, Decreto del 30/01/2013 ) che hano ritenuto irragionevole considerare la competenza territoriale del giudice che pronunciò a suo tempo la separazione, atteso che nel frattempo le parti possono essersi spostata nel territorio, così come normalmente avviene.
Pertanto si ritiene correttamente che il giudice territorialmente competente, allorché la domanda non riguarda i minori, sia sempre quello della residenza del convenuto.
Del tutto diversa, come detto, è viceversa la soluzione allorché la modifica delle condizioni riguardi l’affidamento dei figli o l’esercizio della responsabilità genitoriale o le altre statuizioni che riguardino la prole.
In tal caso, come detto, espressamente l’art. 709 ter c.p.c. ha confermato la competenza del Tribunale nel luogo di residenza del minore, allorché il procedimento di modifica coinvolga appunto le problematiche sui figli.
La giurisprudenza corrente (Tribunale di Pavia, sentenza del 07/03/2016 ), applicando tale disciplina anche al divorzio ha statuito, che, pur mancando nella legge divorzile una disciplina specifica sulla competenza territoriale dei procedimenti di revisione delle condizioni di divorzio che riguardino l’affidamento dei minori, di tali procedimenti deve necessariamente conoscere il Tribunale del luogo della residenza dei figli in applicazione analogica di quanto previsto per i procedimenti ex art. 710 cpc. di modifica delle condizioni di separazione, secondo il dettato dell’art.709 ter 1° comma c.p.c.
Le questioni che riguardano la responsabilità genitoriale e le altre questioni che coinvolgono la prole, devono essere quindi decise dal Tribunale più prossimo alla sede degli interessi del minore.
Conclusivamente deve ritenersi invece che, ove il ricorso per la modifica delle condizioni della separazione o del divorzio, venga proposta limitatamente agli interessi degli ex coniugi, si debbano applicare i criteri di competenza territoriale ordinari e quindi ex art.18 c.p.c. debba considerarsi il foro della controparte e cioè il giudice del luogo in cui il convenuto ha la residenza, o il domicilio. Se questi sono sconosciuti quello del luogo in cui il convenuto ha la dimora.
Solo nell’ipotesi in cui la controparte non abbia residenza, né domicilio, né dimora nello Stato o se la dimora sia sconosciuta, diverrà competente il giudice del luogo in cui risiede l’attore.
PROCEDIMENTO IN CAMERA DI CONSIGLIO
Anche prima dell’avvento della legge n°162 del 2014 in tema di negoziazione assistita, l’unica procedura per attivare l’azione mirata alla modifica delle condizioni della separazione o del divorzio era quella della domanda al Tribunale con il procedimento in Camera di consiglio.
Attualmente in tal senso espressamente l’art. 710 c.p.c. statuisce “Le parti possono sempre chiedere con le forme del procedimento in Camera di consiglio, la modificazione dei provvedimenti riguardanti i coniugi e la prole conseguenti alla separazione”.
Il procedimento in Camera di consiglio per la modifica delle condizioni trova la sua ragion d’essere nella maggiore speditezza del procedimento che non è vincolato a forme predeterminate e si evita la procedura ordinaria che viceversa presuppone numerosi passaggi istruttori con un allungamento dei tempi.
Dunque l’azione in Camera di Consiglio è caratterizzata non solo dalla maggiore rapidità, ma anche dalla semplificazione della procedura con una fase istruttoria sommaria ed un decreto emesso a conclusione del procedimento.
Tra l’altro l’art.710 c.p.c. accentuando ulteriormente tale rapidità prevede all’ultimo comma che, ove il procedimento non possa essere immediatamente definito, il Tribunale ha la possibilità di adottare provvedimenti provvisori e procedere alle modifiche necessaria anche in corso di causa.
Gli art.737 e seguenti c.p.c. prevedono una serie di norme comuni ai procedimenti in Camera di Consiglio, statuendo espressamente che l’azione vada proposta con ricorso al giudice e il provvedimento finale abbia la forma di decreto motivato.
Il Presidente deve nominare fra i componenti del collegio un relatore che riferisce in Camera di consiglio.
Il giudice può disporre anche autonomamente l’assunzione di informazioni.
Gli atti sono comunicati al Pubblico ministero che stende le conclusioni in calce al provvedimento.
Sotto tale profilo ricordiamo che la Corte costituzionale (con sentenza 09/11/1992 n°416) dichiarava l’illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui non prevedeva la partecipazione del Pubblico ministero per la modifica dei provvedimenti riguardanti la prole.
Da notare che, la causa non si svolge nelle forme ordinarie.
Dunque non vi è una pubblica udienza e la deliberazione viene assunta sempre senza la presenza del pubblico.
Il magistrato è tenuto di norma a sentire entrambi gli ex coniugi e non necessariamente deve assumere i mezzi di prova indicati dalle parti se ritenuti non necessari.
Il decreto emesso al termine del procedimento è comunque immediatamente esecutivo come ha precisato la Corte di Cassazione con sentenza a sezioni unite n°10064/2013, non applicandosi, la statuizione dell’articolo 741 c.p.c. in tema di disposizioni generali sui procedimenti in Camera di consiglio che viceversa prevedeva l’efficacia esecutiva soltanto dopo il decorso dei termini per la proposizione del reclamo.
Quanto all’impugnazione l’art. 739 c.p.c. prevede la possibilità di reclamare il provvedimento alla Corte d’appello, (sezione famiglia nei Tribunali in cui questa esiste).
Anche il giudice del reclamo pronuncia in Camera di consiglio.
È da notare che il reclamo deve essere proposto nel termine perentorio di dieci giorni dalla comunicazione se il decreto è dato in confronto di una sola parte, mentre il termine di dieci giorni decorre dalla notificazione se il decreto è stato emesso nei confronti di più parti, come nel caso di un ricorso per la modifica delle preesistenti condizioni.
La Suprema Corte con decisione n° 3670 del 29/04/1997 ha precisato che, mentre nel caso del provvedimento proposto nei confronti di una sola parte il termine del reclamo decorre dalla semplice comunicazione da parte della Cancelleria, nell’ipotesi in cui il decreto viene emesso nei confronti di entrambe le parti contrapposte, il termine decorre dalla notificazione del provvedimento e non dalla semplice comunicazione.
Tale notificazione non può equipararsi a quella eseguita dal cancelliere, ma deve essere effettuata dalla parte processuale interessata al provvedimento nei confronti dell’altra.
In assenza di notifica, la possibilità di reclamo viene a cessare comunque decorsi sei mesi dal deposito della pronuncia, secondo le norme generali in tema di impugnazione.