Il diritto al risarcimento del danno, derivante dall’inadempimento delle obbligazioni matrimoniali, di norma veniva escluso dalla giurisprudenza.
Tale orientamento, poggiava sulla considerazione secondo la quale, dalla separazione personale dei coniugi, può nascere sul piano economico, a prescindere dai provvedimenti sull’affidamento, collocamento dei figli e sull’assegnazione della casa coniugale, solo il diritto al mantenimento, a carico dell’uno ed a favore dell’altro, sempreché ne ricorrano le circostanze specificatamente previste dalla legge.

Tuttavia, vari tribunali italiani, avevano iniziato a dissentire da tale orientamento che, invero non rende giustizia a determinate situazioni nelle quali comportamenti scorretti che portano al fallimento dell’unione appaiono così macroscopicamente rilevanti da dar luogo non solo alla pronuncia dell’addebito, ma anche ad un pregiudizio sul piano personale, psicologico, e quindi sotto il profilo dell’integrità psicofisica, in danno del soggetto incolpevole.

L’addebito nella normativa e nella pratica
L’art. 151 c.c. prevede che il giudice, pronunciando la separazione dichiara, ove ne ricorrono le circostanze ed ove vi sia richiesta, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio.
I rapporti ed i diritti-doveri intercorrenti tra i coniugi e nei confronti dei figli, sono contemplati negli art.li da 143 a 148 c.c., norme novellate dalla legge n° 151/75, che sostanzialmente statuiscono l’obbligo di fedeltà, l’obbligo di assistenza morale e materiale, l’obbligo di collaborazione nell’interesse familiare, l’obbligo di coabitazione, l’obbligo di contribuire ai bisogni familiari secondo le proprie capacità di reddito e le proprie sostanze ed infine l’obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole.
Gli effetti dell’addebito nella separazione, a parte la funzione morale dell’istituto, sono quelli, come accennato in altre occasioni, di cui agli art.li 156 c.c. e di cui all’art. 548 c.c.
Nel primo caso, il coniuge al quale non sia addebitabile la separazione, ricorrendone i presupposti, ha diritto di ricevere dall’altro quanto necessario al suo mantenimento, quando non abbia adeguati redditi propri, (da ricordare che, comunque anche in caso di addebito sussiste sempre l’obbligo degli alimenti).
Il secondo effetto dell’addebito è viceversa quello dell’esclusione dai diritti successori (che comunque cessano in ogni caso, dopo il triennio, con il divorzio), laddove, il coniuge al quale sia stata addebitata la separazione con sentenza passata in giudicato, non ha più diritto a partecipare all’eredità ma, soltanto ad un assegno vitalizio, se al momento dell’apertura della successione godeva degli alimenti.
Ricordiamo ad colorandum che, la possibilità di addebitare la separazione al coniuge colpevole, in origine non era affatto prevista nel progetto iniziale della legge e venne introdotta solo in fase di votazione in aula.
Pertanto data la modestia degli effetti dell’addebito, la relativa domanda, una volta assunti i provvedimenti presidenziali, difficilmente viene poi coltivata in istruttoria, se non quando l’addebito è finalizzato ad eliminare il mantenimento, nel caso di coniuge privo di reddito.

Così spesso accade che, se al momento del deposito del ricorso della separazione in Tribunale, sotto la spinta dell’animosità iniziale, vengono enucleate, con dovizia di particolari pungenti, le violazioni dei doveri derivanti dal rapporti di coniugio imputabili alla controparte, successivamente alla pronunzia presidenziale, (che dispone circa l’affidamento ed il collocamento dei figli, il diritto di visita, l’assegnazione o meno della casa e la determinazione di un assegno di mantenimento per il coniuge e/o figli), difficilmente viene curata l’istruttoria per pervenire alla declaratoria di addebito, quantomeno per ridurre i tempi del processo.

Addebito e risarcimento dei danni
In molte occasioni i legali hanno cercato di forzare tale valutazione riduttiva della colpa, nel fallimento del matrimonio, dando luogo a numerosi tentativi finalizzati ad ottenere, al di là della mera pronuncia morale, altresì un equo risarcimento del danno.
Ovviamente non vi è discussione allorché la violazione dei doveri matrimoniali consista anche in un vero e proprio illecito previsto normativamente come nel caso di percosse, maltrattamenti, mancanza di prestazione di alimenti e simili, tutte fattispecie che autonomamente sono configurabili come illecito civile e penale e danno luogo ovviamente al diritto del risarcimento economico del pregiudizio subito.

Si vuole invece far riferimento a tutte le altre fattispecie nelle quali pur sussistendo l’addebito della separazione, come per esempio nel caso più frequente di violazione dell’obbligo di fedeltà, o di inesistente collaborazione ed assistenza vicendevole, manchi una specifica norma violata a carattere risarcitorio.
Infatti, tenuto conto che il matrimonio costituisce un istituto, seppure particolarissimo, comunque con effetti di natura contrattuale, la violazione di questi dovrebbe dar luogo senza dubbio al risarcimento dei danni.
Sotto altra luce, il diritto al risarcimento può scaturire certamente sotto il profilo dell’art. 2043 c.c., laddove il comportamento doloso o colposo che dà luogo al fallimento dell’unione sia foriero di un rilevantissimo danno, che non infrequentemente pregiudica la vita futura dell’altro coniuge in maniera irreversibile.

Il pregiudizio subito dal coniuge incolpevole
Al di là della responsabilità contrattuale, infatti, sotto il profilo extracontrattuale ex art. 2043 c.c., anche nell’ambito del fallimento dell’unione coniugale sono ravvisabili innumerevoli fattispecie dalle quali effettivamente scaturiscono i presupposti previsti teoricamente dalla norma per la richiesta risarcitoria.
I casi statisticamente più frequenti di richiesta risarcitoria vedono quasi sempre la donna come soggetto leso.
Estremamente comune è il fallimento dell’unione imputabile al marito il quale dà corso ad altra relazione extraconiugale, lasciando la donna in età non più giovanile con i figli presso di lei collocati e quindi con difficoltà oggettive a ricreare un nuovo menage, e dunque con un danno esistenziale in re ipsa, se non addirittura con conseguenze sul piano psicofisico, con stati depressivi anche gravi.
Altrettanto frequenti sono quelle situazioni in cui, la donna, fidando nella prosecuzione dell’unione coniugale, con l’accordo del marito, si  dedichi alla famiglia abbandonando le possibilità derivanti dal titolo di studio o dalle proprie inclinazioni, e quindi trascurando le occasioni lavorative e poi, in seguito all’abbandono da parte dell’altro coniuge, si trovi non solo nella impossibilità di ricostituire una nuova famiglia, ma soprattutto senza più alcuna possibilità di reinserirsi nel mondo del lavoro e quindi senza possibilità di ottenere le soddisfazioni e i guadagni ai quali avrebbe avuto diritto se non avesse fidato nella continuità del matrimonio.
Si pensi ancora alle situazioni familiari ancora più gravi in cui sussiste la violazione dei principi più elementari di convivenza e di rispetto reciproco, ai rapporti nei quali viene violato il diritto di assistenza morale o materiale, o peggio allorché il coniuge incolpevole venga abbandonato in uno stato di depressione o addirittura di malattia  psichica o fisica.
Senza dubbio se non era possibile ipotizzare o ravvisare in tutte le situazioni di addebito una responsabilità ex art. 2043 c.c., tuttavia, non è neanche accettabile una soluzione che respinga sempre e comunque le pretese del coniuge che ha subito le angherie ed i soprusi dell’altro, sussistendo nella realtà giudiziaria situazioni di rilevante gravità nelle quali, al di là dell’attribuzione di un assegno di mantenimento, se dovuto, il danno subito dal coniuge incolpevole appare di tale entità, gravità ed incidenza oggettiva sulla vita futura, da meritare, su di un piano di giustizia sostanziale, un equo corrispettivo risarcitorio.

L’iniziale orientamento negativo della Cassazione
La Corte Suprema sul punto aveva mantenuto un atteggiamento sempre negativo, non escludendo invero, ma solo in linea teorica, la possibilità di un risarcimento suppletivo, al di fuori dei benefici previsti nella normativa in tema di separazione e divorzio, ma di fatto escludendo tale possibilità, e cioè ritenendo non fondato il diritto di richiedere il risarcimento dei danni al coniuge cui sia addebitabile la separazione, indipendentemente dal tipo e dalla gravità del pregiudizio risentito a causa della separazione.
Le argomentazioni avanzate dalla Corte Suprema si basavano non tanto sul fatto che l’addebito del fallimento del matrimonio ad uno dei coniugi non potesse acquisire, neppure in teoria, i caratteri della colpa ma perché, costituendo la separazione personale un diritto inquadrabile tra quelli che garantiscono la libertà della persona, e cioè un bene di altissima rilevanza costituzionale, e avendone il legislatore specificato analiticamente le conseguenze nella disciplina del diritto di famiglia (cioè nella sua sede propria), doveva escludersi che, al di là di quelle previste legislativamente, potessero farsene derivare ulteriori conseguenze.
La tesi della Cassazione, che fa riferimento all’antico principio “inclusio unius, esclusio alterius”, non appariva tuttavia conforme a giustizia e di tale opinione erano anche diversi magistrati soprattutto del nord Italia.
Nel 1995 con la sentenza 5866 la Corte esaminava approfonditamente la questione in un  giudizio, nel quale la moglie di un noto avvocato si rivolgeva al magistrato richiedendo la separazione dal marito, concludendo per l’orientamento negativo.
Rilevava  la ricorrente che il coniuge, in età non più giovanile, aveva iniziato una relazione extraconiugale abbandonando la casa e venendo meno all’obbligo di versare un’adeguata somma rispetto il diritto della moglie di mantenere il pregresso tenore di vita.
Per di più, la donna rilevava di aver altresì perso il diritto di abitare nella comoda e lussuosa casa coniugale, intestata al marito, in assenza di figli minori o maggiorenni non autonomi, come da orientamento giurisprudenziale costante.
Così del tutto incolpevolmente veniva estromessa dall’alloggio, solo nominalmente del marito, ma costruito ed arredato nel corso di moltissimi anni di unione coniugale, privata del proprio ambiente ove era sempre vissuta, e tutto questo in età ormai avanzata, privata quindi di qualsiasi altra aspettativa, senza alcuna responsabilità, dovendo subire una decisione unilaterale del coniuge che si era invaghito di una donna ben più giovane ed attraente.
Quindi rilevava la moglie di aver subito un danno di notevole entità, in quanto in precedenza con i proventi della attività professionale del marito la ricorrente aveva sempre potuto godere di un tenore di vita estremamente agiato e, fidando nella prosecuzione dell’unione aveva evitato con l’accordo di entrambi, di sviluppare le proprie capacità reddituali, dedicandosi totalmente al coniuge, nonchè all’allevamento ed alla cura dei figli
In età avanzata essa si trovava improvvisamente, solo a causa del comportamento colpevole ed ampiamente ammesso dal professionista, spossessata dell’importante alloggio in cui viveva e, per di più, di tutti quei benefici di cui aveva sempre goduto (domestici, un’imbarcazione di alto valore, etc.).
Quindi la donna richiedeva, sotto il profilo del risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., di ottenere, oltre un importante assegno di mantenimento, altresì a titolo compensativo, la somma necessaria per trasferirsi in un domicilio diverso, ma adeguato  a quello coniugale, dal quale di fatto era stata estromessa, trattandosi in ultima analisi di un danno derivante da un illecito contrattuale per violazione sul contratto coniugale ed extracontrattuale per i comportamenti dolosi, imputabili con evidenza, al coniuge a cui era stata addebitata la separazione.
La Suprema Corte riteneva però privo di fondamento il ricorso rilevando che l’addebito della separazione non rientra nel novero dei criteri di imputazione della responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c. determinandosi, nel concorso delle altre circostanze specificatamente previste dalla legge, soltanto il diritto al mantenimento del coniuge incolpevole.
La possibilità  quindi di configurare la risarcibilità degli ulteriori danni, sussisteva solo ove i fatti che davano luogo alla dichiarazione di addebito integrassero gli estremi di illecito, ipotesi che nel caso in ispecie la Corte non ravvisava.

Valutazione del comportamento colpevole
Orientamenti più recenti di alcuni tribunali, mostravano viceversa un ripensamento sul punto, non condividendo le tesi della Corte Suprema, almeno in tutti quei casi in cui il comportamento del coniuge fosse talmente riprovevole, per l’entità del  pregiudizio provocato, ovvero per la durata nel tempo dell’atteggiamento pregiudizievole, da legittimare il riconoscimento, in taluni casi, oltre che del diritto al mantenimento, ricorrendone gli estremi, anche del diritto ad un equo risarcimento.
In tal senso per esempio il Tribunale di Milano riteneva che, una volta pronunciata la separazione personale dei coniugi con addebito della stessa ad uno di essi è ben ipotizzabile a carico di quest’ultimo una responsabilità risarcitoria ex art. 2043 c.c. allorché l’inadempimento dei doveri coniugali appaia di particolare rilevanza, accertandosi sia l’obbiettiva gravità della condotta assunta in violazione di uno o più doveri nascenti dal matrimonio, sia la sussistenza di un danno oggettivo conseguente subito dal coniuge incolpevole.
Nel caso specifico, la moglie era stata abbandonata in stato di gravidanza e le veniva riconosciuto, tenuto conto del carattere temporaneo della compromissione della sfera esistenziale e relazionale un ulteriore ristoro dei danni, liquidati però in soli € 5.000,00.
Il risarcimento veniva giustificato in quanto la condotta colpevole era riconducibile in sede eziologia non già alla crisi coniugale in quanto tale, bensì alla condotta trasgressiva e perciò lesiva dell’agente, proprio in quanto posta in essere in aperta grave violazione di uno o più doveri coniugali stabiliti dalla legge.

La casistica
Da un esame della giurisprudenza di merito si rilevano numerose fattispecie sulla cui base era stato richiesto il risarcimento dei danni al di là dell’assegno di mantenimento.
Il Tribunale di Savona il 5 dicembre del 2002, in una fattispecie nella quale il marito non aveva ritenuto sussistere i presupposti per procreare un figlio e anni dopo viceversa aveva annunciato di aspettare un figlio da un’altra donna, non ha ritenuto di accogliere la domanda di risarcimento avanzata dalla moglie.
Il Tribunale  precisava che la responsabilità ex art. 2043 c.c.  non può discendere automaticamente da una pronuncia di addebito nei confronti di un coniuge in quanto il legislatore ha specificato analiticamente le conseguenze dell’addebito nella disciplina della famiglia, sussistendo appunto il diritto alla separazione  personale che dà luogo all’interruzione del rapporto.
Di contrario avviso il Tribunale di Milano che, in un altro caso (la moglie veniva abbandonata dal marito all’indomani della notizia della  gravidanza), condannava l’uomo anche al risarcimento del danno in termini economici.
Il Collegio, infatti, accollava al coniuge inadempiente ai  doveri matrimoniali di cui all’art. 143 c.c., una effettiva responsabilità risarcitoria ex art. 2043 c.c., essendo stata accertata sia l’obbiettiva gravità della condotta del medesimo, sia la sussistenza di un danno riconducibile, non già alla crisi coniugale in quanto tale, ma ad una vera e propria condotta illecita, (Trib.Milano 7.3.02, 9° sez., L. c.V.).
Nel 2005 si verificava una prima apertura della Cassazione con la sentenza n. 9801/05 nella quale, nel caso in cui un soggetto aveva contratto matrimonio ma non era stato in grado di portare avanti una normale vita sessuale, riteneva risarcibili le lesioni dei diritti fondamentali della persona sotto il profilo costituzionale, valutando la violazione dei diritti fondamentali della persona come il decoro, il prestigio, la dignità e la salute ed osservando che i doveri che derivano ai coniugi dal matrimonio non sono soltanto di carattere morale, ma hanno natura giuridica (ex art. 143 c.c.) e quindi dalla violazione di questi può derivare l’obbligo risarcitorio allorché risultano violati principi basilari della personalità umana.
Sullo stesso solco numerose decisioni di merito successive, come per esempio quella del Tribunale di Brescia del 14/10/2006 B./C. che nel caso di separazione giudiziale con addebito per infedeltà del marito che aveva intrapreso una relazione omosessuale cessando i rapporti fisici con la moglie, dichiarava sussistere il diritto del coniuge tradito al risarcimento del danno non patrimoniale, proprio in quanto l’infedeltà posta in essere era stata realizzata attraverso comportamenti che, per la loro intrinseca gravità offendevano i diritti fondamentali del coniuge nell’essenza stessa della sua personalità, anche sotto il profilo della tutela dell’interesse costituzionalmente prevalente, ove  dall’infedeltà del marito veniva vulnerata la moglie non solo nella sua dignità, ma anche in ogni possibile legittima aspettativa attinente l’esplicazione della dimensione coniugale e familiare.
In ogni caso, le azioni risarcitorie, secondo l’orientamento prevalente dei giudici di merito, vanno proposte con azioni separate, e non all’interno della separazione.
Ciò soprattutto in quanto domande diverse da quelle tipiche della separazione (addebito, affidamento, collocamento, casa coniugale e mantenimento), non possono essere trattate nelle stesse sedi processuali, sebbene connesse con la domanda di risarcimento del danno.
Ciò fondamentalmente per la diversità del rito che governa le diverse domande, ed in particolare per la specialità del rito matrimoniale che non permette la riunione con altre azioni ordinarie.

Nuovo orientamento della Cassazione. Risarcimento indipendente dall’addebito della separazione
Di particolare interesse sotto questo profilo è la recentissima sentenza della Corte Suprema del 15/09/2011 n. 18853 che opera un allargamento rilevante nel campo dell’azione risarcitoria di un coniuge nei confronti dell’altro, aprendo un varco nelle possibili azioni per danni che potrebbero portare ad un aumento rilevante del contenzioso.
Nel caso esaminato, la donna aveva convenuto innanzi al Tribunale di Savona il marito chiedendo la condanna al risarcimento dei danni (biologico ed esistenziale) derivanti dalla violazione dei doveri nascenti dal matrimonio, in particolare per aver violato l’obbligo di fedeltà.
Situazione per lei particolarmente frustrante, stante la notorietà della relazione da lui intrattenuta con altra donna anch’essa sposata.
Il convenuto si costituiva eccependo, così come da orientamento prevalente, che la domanda fosse dichiarata inammissibile, trovando la violazione dei doveri coniugali, una adeguata valutazione unicamente attraverso il procedimento di separazione personale.
Veniva espletata una consulenza tecnica di ufficio per valutare lo stato di salute dell’attrice, ma il Tribunale respingeva la domanda e altrettanto faceva la Corte di Appello.
La singolarità dell’accoglimento della Corte di Cassazione sta proprio nel fatto della mancanza della preesistente pronuncia di addebito.
Infatti nella fattispecie in esame il ricorso per separazione era stato proposto inizialmente in modo giudiziale e tuttavia era stato chiuso in modo consensuale, sicché mancava la pronuncia di addebito.
Successivamente la donna aveva proposto azione risarcitoria avanti il tribunale ordinario e quindi la domanda di risarcimento prescindeva dal preventivo addebito della separazione.
La Cassazione rifacendosi alla sentenza del 2005 sopra richiamata, rilevava che i doveri che derivano ai coniugi dal matrimonio, non sono solo di carattere morale, ma hanno natura giuridica, talché a fronte della violazione di tali principi sussiste analoga violazione dei diritti soggettivi dall’altro coniuge.
Ne deriva che il mancato rispetto di quei doveri non trova necessariamente la sanzione solo nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, ma anche sotto il profilo risarcitorio.
Rileva la Corte che l’assegno di separazione o di divorzio non hanno alcuna funzione risarcitoria, ma soltanto assistenziale, e quindi resta aperta la possibilità di agire autonomamente per il risarcimento del danno, allorché sussista violazione dei diritti della persona, non necessitando per principio la preesistenza di una pronuncia di addebito nella separazione.
Nel caso in ispecie la Cassazione rileva che la condotta illecita in relazione alla quale veniva chiesto il risarcimento del danno era costituita da una violazione dei doveri di fedeltà nascenti dal matrimonio.
Nell’ottica dell’assetto normativo vigente, se l’obbligo di fedeltà viene violato in costanza di convivenza matrimoniale, la sanzione tipica prevista è costituita dall’addebito con le relative conseguenze giuridiche, non essendo la detta violazione idonea di per sé stessa ad integrare una responsabilità risarcitoria del coniuge.
Ciò sempreché però non si dimostri la lesione in conseguenza di detta violazione di un diritto costituzionalmente protetto.
Tale evenienza può verificarsi in casi e contesti particolari, dimostrandosi che l’infedeltà per le sue modalità ed in relazione alla specificità della fattispecie abbia dato luogo effettivamente alla lesione della salute del coniuge, lesione che deve essere dimostrata anche sotto il profilo del nesso di causalità.
Quindi ove l’infedeltà per le sue modalità, abbia effettivamente oltrepassato i limiti dell’offesa, di norma insita nella violazione dell’obbligo, e siano rilevabili atti specificatamente lesivi della dignità della persona, (bene costituzionalmente protetto), ben legittima è l’azione risarcitoria.
Quindi la Corte di Cassazione ha stabilito il principio per cui i doveri che derivano ai coniugi dal matrimonio hanno natura giuridica e la loro violazione non trova necessariamente sanzione unicamente nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, quali l’addebito della separazione o il mantenimento, discendendo dalla natura giuridica degli obblighi suddetti che l’eventuale violazione ove comporti lesione ai diritti costituzionalmente protetti, possa integrare gli estremi dell’illecito civile e dar luogo al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 c.c., senza che la mancanza di pronuncia e di addebito in sede di separazione sia preclusiva all’azione di risarcimento relativa a detti danni.
Tale innovativo orientamento, (per la cronaca, il presidente del collegio era una donna) aprirà certamente la porta a tutta una serie di azioni risarcitorie in quanto non infrequentemente la violazione dell’obbligo di fedeltà comporta conseguenze personali e psicologiche rilevanti, con traumi facilmente accertabili e giustificabili mediante idonea consulenza medico legale.

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