È dal 2001 che Yahoo! versa in gravi difficoltà, incalzata com’è dal social network Facebook e da Google, il motore di ricerca più usato al mondo; ed è proprio tra le file di Google che la società ha trovato il suo nuovo Chief Executive Officer (Ceo, o amministratore delegato): si tratta di Marissa Mayer, 37 anni, di cui 13 passati a lavorare come former executive per Google, dove si è guadagnata la fama di leader di successo, avendo guidato il team creatore di prodotti vincenti come la famosa homepage, GMail e Google News. Marissa Mayer diventa così la ventesima donna a capo di una delle 500 maggiori società del mondo.
Anche all’interno della stessa Yahoo!, la Mayer resta una figura solitaria, visto che ai vertici dell’organizzazione si può contare solo un’altra presenza femminile, Susan James, che fa parte del consiglio di amministrazione.
C’è di più. Al momento dell’offerta fattale dal Yahoo!, Marissa Mayer era già incinta al sesto mese del marito Zach Bogue, uno dei fondatori e gestori della “Founders Den”, la net community per imprenditori. Secondo la legislazione statunitense, la Mayer non era tenuta a rendere noto al consiglio di amministrazione della gravidanza, né quest’ultimo aveva alcun diritto a chiedere informazioni riguardo la sua vita familiare; nonostante ciò, vista la estrema delicatezza del ruolo propostole, la “Google employee number 20” ha ritenuto importante chiarire la situazione in cui si trovava. Assumendola, la società è entrata nella storia: mai prima d’ora una gravidanza era stata definita così apertamente un “no issue”, cioè un problema inesistente.

 

Marissa-MayerPoche settimane e mezzo
Marissa Mayer (nella foto a lato) partorirà ad ottobre prossimo, e ha già promesso in un’intervista su Fortune, di prendersi solo poche settimane di maternità e di lavorare da casa anche durante quel periodo. La notizia della nomina di una Ceo incinta ha scatenato il dibattito statunitense sulla compatibilità tra gravidanza e lavoro. Se commentatori del Washigton Post hanno apprezzato la scelta meritocratica di Yahoo!, e aspettano di vedere come la Mayer “riuscirà a sostenere le madri lavoratrici e le donne nel mondo tutto maschile dell’high tech”, molti altri hanno espresso perplessità circa un possibile riscontro positivo della gravidanza sull’attività lavorativa della nuova Ceo. Francine McKenna, memore delle oscillazioni delle azioni Apple durante la lunga malattia di Steve Jobs, ha indicato nell’età della Mayer, “troppo avanzata per avere una gravidanza lineare”, un fattore di rischio per l’azienda. Deborah Kolb, autrice di una serie di libri dedicati al “management rosa”, e Mia Freedman, direttrice della testata online Mammamia, hanno accusato la Mayer di sottovalutare la gravidanza e i suoi impegni. Secondo Linda K. Wertheimer, storica speaker della radio Npn, la Mayer, “sacrificando la famiglia alla carriera”, potrebbe addirittura rappresentare un cattivo modello per le donne americane e i loro principali.

 

slaughter395I (tre) figli delle amministratrici americane
Indubbiamente si tratta di un’esperienza nuova. Eppure, secondo uno studio nazionale del professore Douglas Branson (University of Pittsburgh), il 90% degli amministratori donna ha figli, ben tre per la gran parte di queste. A livello internazionale un sondaggio condotto dalla società Korn/Ferry rivela che il 95% delle madri manager ritiene di essere cresciuta professionalmente grazie alla maternità. Non tutte però reggono il doppio carico di responsabilità: proprio a pochi giorni di distanza dalla nomina di Marissa Mayer, Anne Marie Slaughter (nella foto), la direttrice del Dipartimento per la pianificazione delle politiche voluta da Hillary Clinton, ha lasciato la Casa Bianca per dedicarsi ai due figli adolescenti. Di fronte alle polemiche, la Slaughter ha spiegato le sue ragioni in un articolo, comparso su The Atlantic, dal titolo evocativo di “Perché le donne non possono ancora avere tutto”: quando si ha una famiglia, fa notare, “non importa quanta costanza e forza di volontà ci metti, bisogna rinunciare a qualcosa, e spesso si rinuncia al lavoro”; così alla fine anche lei, messa alle strette dalla prospettiva di perdere il ruolo di professoressa di Scienze Politiche a Princeton, ha preferito rinunciare, dopo diciotto “estenuanti” mesi, al posto di alto funzionario di Stato.
Lavorare e avere una famiglia resta difficile in America, se si è donne. Negli ultimi anni si sono succedute innumerevoli azioni legali contro i licenziamenti di genere e il mobbing sulle madri lavoratrici; alcune sono fallite, come quella contro Wall Mart, accusata e poi prosciolta di penalizzare a livello salariale le sue impiegate, altre ancora in corso, come quella contro la rivista economica Bloomberg LP, il cui direttore avrebbe retrocesso tre analiste di alto livello una volta appreso che erano incinte. Judith Czelusniak, portavoce di Bloomberg LP, ha rifiutato l’accusa di discriminazione e ha sottolineato invece i pregi della politica del giornale, che prevede in caso di maternità il lavoro part-time, “laddove la funzione del lavoro lo consenta”, 12 settimane di congedo retribuito e la possibilità di prendere quattro settimane di congedo non retribuito.

 

In aumento le cause per il riconoscimento dei diritti
Da quando è scoppiata la crisi, a causa dei inevitabili licenziamenti, abbattutisi molto spesso sulle madri lavoratrici, il problema della scarsa tutela legislativa delle donne ha trovato ampio spazio sui giornali statunitensi. A maggio scorso, un articolo del New York Times Magazine aveva messo in correlazione i preoccupanti tassi di fertilità (in più di 90 Paesi sono al di sotto del livello di sostituzione di 2,1 figli per donna) con i particolari oneri che le lavoratrici devono affrontare, giungendo alla amara conclusione che essere un genitore che lavora è molto più difficile negli Stati Uniti che altrove, tra i Paesi industrializzati. Gli Stati Uniti sono il Paese che spende meno per la custodia dei bambini (la struttura di asili pubblici è praticamente inesistente) e che non garantisce alcune misure minime di diritto del lavoro: lo stesso congedo per maternità per esempio – 12 settimane al massimo e non retribuito – è concesso solo per chi lavora in società con più di 50 dipendenti. L’avvocato Dina Bakst, fondatrice dell’associazione “A Better Balance”, che si batte per i diritti delle madri lavoratrici, aveva dichiarato, sulla scia del polverone sollevato dal Times Magazine: “la nostra legislazione costringe i datori di lavoro a fornire alloggi sani per i dipendenti disabili, ma dato che la gravidanza non è considerata una disabilità non sono obbligati a rispondere in alcun modo alle richieste delle proprie lavoratrici. Di conseguenza, migliaia di donne incinte sono spinte fuori dal mondo del lavoro quando richiedono una sistemazione ragionevole per proseguire una gravidanza sana. […] a sua volta il datore di lavoro spreca tempo e denaro per trovare un sostituto, causando un danno al suo fatturato. Nuove norme verrebbero incontro agli interessi di tutti”.

 

L’Europa e  la Svezia e l’Italia
Secondo un’indagine della società americana Mercer Human Resourcers Consulting, nella tutela delle madri lavoratrici, ai primi posti in Europa ci sarebbe proprio l’Italia, sia per la durata dei congedi, che per le retribuzioni concesse, seconda solo ai Paesi nordici, di cui la Svezia ne è il caso emblematico. I Paesi scandinavi infatti non hanno costituito semplicemente un welfare favorevole alle lavoratrici in gravidanza, ma soprattutto hanno cercato di scardinare la convenzione che vede nella cura del neonato un compito sostanzialmente femminile. Già nel 1974, la Svezia aveva sostituito il congedo di maternità con un generico congedo parentale; nel 1995 fu invece introdotto lo specifico congedo di paternità, che non è obbligatorio (come lo è in Portogallo), ma il cui mancato utilizzo avrebbe fatto scattare una riduzione di quello materno. Uno studio condotto dall’Istituto svedese per la valutazione politica del mercato del lavoro ha scoperto che, per ogni mese di congedo preso dal padre, i guadagni futuri della madre rientrata in breve tempo sul lavoro aumentano del 7%. In sostanza, la misura ha ridotto i margini di discriminazione, dato che le aziende si aspettano che tutti i dipendenti, maschi o femmine, possano prendere prima o poi un congedo parentale. Non a caso, secondo il New York Times, i più bassi tassi di fertilità in Europa si riscontrano proprio in Paesi come l’Italia, Grecia e Spagna, dove è ancora largamente condivisa una netta divisione dei compiti tra il padre e la madre, mentre i Paesi come la Danimarca, la Finlandia e la Norvegia, si attestano tra quelli più elevati.

 

Vietnam e Brasile, buone notizie 
Al di fuori dell’Europa, le legislazioni all’avanguardia sono in Brasile, dove le donne ricevono l’equivalente di 10.500 euro per sei mesi di congedo, e in Vietnam, dove proprio il mese scorso l’Assemblea nazionale ha varato un emendamento al codice del lavoro che assicura il congedo di sei mesi, prima e dopo il parto, con il supplemento di un mese per ogni nascituro a partire dal secondo figlio e in caso di gemelli.

 

Dalla Fiat con furore
Nonostante la legislazione “relativamente” favorevole, sono tante le madri italiane che escono dal mondo del lavoro: nella fascia 24-54 solo il 55% riesce a gestire famiglia e lavoro e la percentuale di abbandono aumenta con il numero di figli (dal 36% con un figlio al 62% con tre figli o più). Le ragioni di questa scelta sono molteplici, ma le principali sono l’impossibilità di ottenere un part-time oppure degli orari di lavoro più flessibili e di pagare l’asilo o una baby sitter a tempo pieno, in mancanza di parenti sui quali poter fare affidamento. In un sondaggio Infojob, il 57% delle intervistate ha dichiarato che la flessibilità darebbe loro maggiore motivazione e produttività, e per il 19% costituirebbe anche una notevole diminuzione dello stress. Solo il 16% ritiene invece che un orario flessibile porterebbe a una riduzione dei tassi di ritardo e assenteismo: la gestione della famiglia si rivela difficile dunque per la gran parte delle intervistate. A Forlì ad esempio le donne che scelgono un contratto part – time per stare vicino ai loro figli con meno di tre anni di età, ricevono un contributo fino a 2066 euro e l’azienda per cui lavorano riceve un incentivo dal Comune. Statisticamente però le donne che ricorrono al part time sono nel lungo periodo penalizzate rispetto ai colleghi maschi (e padri), in quanto diventa quasi impossibile ritornare al vecchio contratto a tempo pieno (solo una su cinque). Senza contare che per la fascia 30-40 anni due donne su tre di età hanno un contratto di lavoro che ne tutela i diritti alla maternità, mentre fra i 20 e 30 anni solo una donna su tre gode della medesima copertura, tant’è che è proprio tra queste che si registrano i più alti tassi di uscita dal mondo del lavoro, volontaria o involontaria.
Sono tante le storie di discriminazione, magari anche sottile, in Italia. Un caso che aveva destato l’interesse della stampa a marzo di quest’anno è stato quello delle lavoratrici Fiat degli stabilimenti modenesi, escluse in base all’accordo di Pomigliano dai premi di produzione. L’assegno extra di 600 euro annui va ai dipendenti che lavorano più di 870 ore, cifra irraggiungibile per quelle impiegate e operaie che hanno usufruito del congedo di maternità, o di altri permessi concessi per la cura dei familiari. Ricordiamo che il padre lavoratore dipendente può assentarsi dopo la nascita del bambino solo nei casi di morte o grave infermità della madre, abbandono del bambino da parte della madre, affidamento esclusivo al padre o riconoscimento del figlio da parte di un solo genitore. Giocoforza, la cura dei figli, dei malati e degli anziani grava sulle donne, limitandone la partecipazione alla forza lavoro. Un vero peccato, a sentire anche la Banca D’Italia: secondo le sue stime, un tasso di occupazione femminile al 60 per cento comporterebbe addirittura un aumento del Pil, fino al 7 per cento.

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