Recenti episodi di cronaca, come la sentenza n. 8254 depositata il 2 marzo 2011, decisione nella quale la quarta sezione penale della Cassazione, annullando con rinvio la decisione dei giudici dell’appello, ha affermato la possibile ricorrenza della responsabilità di un medico che aveva dimesso frettolosamente un paziente, operato di angioplastica e defunto lo stesso giorno della dimissione dall’ospedale, hanno suscitato ampia attenzione da parte della stampa e riproposto all’attenzione del vasto pubblico il problema della disciplina della responsabilità del medico.
Invero la materia della responsabilità per colpa medica è una tematica socialmente assai rilevante, perché interessa non solo i professionisti di questa antica e nobile arte, ma un po’ tutti, perché del medico, prima o poi, tutti abbiamo bisogno.
Ne ha preso atto anche il legislatore che ha introdotto una procedura di conciliazione necessaria, prima che possa chiamarsi in giudizio il professionista dal quale si ritiene di essere stati danneggiati. Questo dipende pure dal fatto che la realtà contemporanea pone di fronte a problemi sempre nuovi. Ad esempio, dopo la prima condanna di un medico, anche nell’ambito di un banale giudizio civile per un modesto risarcimento pecuniario, è per quel medico estremamente difficile trovare una compagnia che lo assicuri, e pure la possibilità del paziente leso di conseguire la riparazione del pregiudizio sofferto rischia di essere vanificata, potendosi rivalere soltanto sul patrimonio personale del professionista, oltre che, solo eventualmente, su quello della struttura sanitaria presso cui il medico abbia operato.
La responsabilità per colpa medica è una materia che, in ambito giurisprudenziale, si mostra in continua evoluzione, e richiede perciò continui aggiornamenti. Sarà pertanto necessario trattare l’ argomento in più articoli, nei quali si potrà dedicare una specifica attenzione a singoli istituti di cui quotidianamente si dibatte nelle aule di giustizia, come le modalità di acquisizione del consenso informato e di corretta tenuta della cartella clinica.
In questo primo intervento, pertanto, occorre cercare di mettere a fuoco la materia della responsabilità per colpa medica in generale.
Un dato certo è che l’ esercizio dell’ arte medica è non solo consentito, ma anche autorizzato, direttamente dalla Costituzione italiana, che all’ art. 32 detta: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’ individuo …”.
A fronte di ciò deve però tenersi conto che a nessuno è consentito provocare lesioni ad altri, e pure del disposto di cui all’ art. 5 C.c., ove si prevede che: “Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente dell’ integrità fisica”. Appare evidente che (quasi) ogni intervento chirurgico comporta una lesione permanente, basti pensare alle cicatrici. Naturalmente non comportano una lesione dell’integrità fisica i piccoli interventi di cura della persona, come tagliare le unghie, o i capelli.
In presenza di lesioni significative conseguenti all’attività medico chirurgica soccorre di regola l’ art. 50 C.p. (Consenso dell’ avente diritto), laddove dispone che “Non è punito chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che può validamente disporne”; attenzione però perché, come abbiamo visto, il proprio corpo è indisponibile in relazione a lesioni permanenti ed è quindi solo sul fondamento della tutela costituzionale della salute che può consentirsi di prestare un consenso scriminante anche ad interventi chirurgici che provocano lesioni gravi e permanenti dell’ integrità fisica, ma sono rivolte ad un miglioramento della salute o a salvare la vita. Si pensi all’ amputazione di un arto ormai in cancrena irreversibile.
Il medico deve quindi prestare attenzione ad acquisire sempre un valido consenso informato all’intervento terapeutico. In assenza del consenso informato l’esercizio dell’attività medico chirurgica diviene illegittimo, e causa di responsabilità civile ed anche penale.
E’ parzialmente diverso il discorso nell’ipotesi di un intervento medico d’urgenza, ad esempio effettuato presso il pronto soccorso su di un paziente non cosciente. In questo caso l’ agire del medico è scriminato ai sensi dell’ art. 51 C.p. (Adempimento di un dovere), perché è un dovere del medico salvaguardare la salute del paziente, anche se in questo caso si pone il problema dell’eventuale possibilità di acquisire il consenso informato dai parenti del paziente.
I danni causati nell’ esercizio dell’ arte medica, come di tutte le professioni che indubbiamente comportano dei rischi, ha ricevuto nel passato una valutazione benevola.
La ragione non sembra da ricercarsi in un buonismo anticipato, e diffuso anche nella giurisprudenza, bensì nel limitato sviluppo delle conoscenze scientifiche, che induceva a valutare ogni intervento sul corpo umano come suscettibile di esiti incerti.
Oggi le conoscenze in campo medico, non solo dei professionisti sanitari, ma pure dei pazienti, dei giudici, degli avvocati, sono molto più evolute, ed ogni condotta è valutata con maggiore rigore.
Occorre allora ricordare una tradizionale distinzione che si opera nel diritto civile, utile anche per esaminare i profili della responsabilità per colpa medica, quella tra le: Obbligazioni di risultato (ad es., la restituzione del libro che mi è stato prestato, in linguaggio giuridico: del libro che mi è stato concesso in comodato; ma è obbligazione di risultato pure il risarcimento del danno); e le Obbligazioni di mezzi (ad es. la prestazione dovuta dall’ avvocato, che deve la propria opera intellettuale e l’impegno, ma estingue la sua obbligazione anche se non vince la causa).
L’obbligazione del medico è tradizionalmente qualificata come una obbligazione di mezzi. Di recente, ad es., Cass. Sez. III, sent. n. 16394 del 2010, ha affermato che “tra gli obblighi di protezione che assume il medico nei confronti del paziente, per effetto del “contatto sociale” tra il primo ed il secondo, non rientra quello di garantire un determinato risultato della prestazione sanitaria, a meno che il paziente – sul quale incombe il relativo onere – non dimostri l’espressa assunzione della garanzia da parte del medico”. Anche in questa materia, però, qualcosa sta cambiando nelle valutazioni della dottrina e pure della giurisprudenza.
Il fatto che oggi la responsabilità del professionista sia ancora prevalentemente valutata partendo dal presupposto che si tratti di una obbligazione di mezzi, non è un principio ontologico. Potrebbero prevedersi, anche convenzionalmente, discipline diverse. Con un po’ di umorismo si può ricordare che nell’antica Cina il medico era continuativamente stipendiato, ma non veniva pagato quando il paziente era ammalato. Questa disciplina aveva una sua logica: io pago il medico per stare bene, non per stare male. In questo senso l’obbligazione dell’antico medico cinese era di risultato.
Del resto pure il fatto che l’obbligazione del medico sia sempre un’obbligazione di risultato è oggi posta in discussione. L’ affermazione è stata sinora confermata, anche dalla giurisprudenza, in riferimento alle attività volte alla promozione del benessere, sia attraverso la terapia sia la chirurgia. In questo ambito l’obbligazione del medico è ancora prevalentemente ritenuta di risultato. In riferimento alla chirurgia estetica, però, si comincia ad affermare che l’obbligazione del chirurgo si atteggia come una obbligazione di risultato che, se non conseguito, diviene fonte di responsabilità per il professionista.
Guardando ad un futuro non lontano, poi, non sembra da trascurarsi che tra le attività tipiche dell’arte medica c’é pure la diagnostica e, poiché in generale non si dubita della responsabilità del medico che sbaglia la diagnosi, in questo caso sembra potersi ritenere che la obbligazione del medico assuma la forma dell’obbligazione di risultato, perché è tenuto a fornire una diagnosi non solo accurata, ma anche esatta.
In generale, poi, la responsabilità del debitore per l’adempimento è disciplinata:
a) all’ art. 1176, I co., C.c., che detta: “Nell’ adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia”. Si tratta di una formula un po’ vaga, e comunque generica.
La responsabilità per l’adempimento del professionista, poi, è più specificamente disciplinata:
b) all’ art. 1176, II co., C.c., che detta: “Nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’ attività esercitata”.
Da questa definizione emerge qualche dato in più. La formula implica che le attività del professionista hanno, di caso in caso, un diverso grado di complessità, e questo significa che la diligenza richiesta per ciascun tipo di prestazione deve essere valutata con un metro diverso.
E’ opportuno anche evidenziare che, nel linguaggio del codice civile, il professionista è chi vanta una preparazione professionale particolarmente elevata. Ne discende che se la prestazione richiesta al medico è semplice, e ciononostante non viene adempiuta, o viene adempiuta male, la responsabilità del professionista è agevolmente accertabile.
Ancora, in sede penale chi esercita un’attività deve farlo con la diligenza, prudenza e perizia, che quell’attività richiede. Ne consegue che, ragionando per assurdo, se sono un ortopedico e mi improvviso cardiochirurgo, rispondo in sede civile e penale della mia condotta secondo il parametro della diligenza, prudenza e perizia, che deve avere il cardiochirurgo. Una delle attività mediche più complesse, in considerazione dell’ elevato numero di prestazioni sanitarie diverse che è possibile si rendano necessarie, rischia di essere quella del presidio di pronto soccorso, in cui pure sono talora impegnati medici non ancora esperti.
Quindi, scontata la responsabilità del professionista che commetta un errore grave, banale, perché da professionista specializzato deve essere in grado di evitarlo, la valutazione della responsabilità del medico pone i problemi più complessi quando la prestazione che gli è richiesta presenta una particolare difficoltà.
A questo proposito di deve tener conto del disposto di cui all’art. 2236 C.c., secondo cui: “Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, il prestatore d’ opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o colpa grave”.
Il disposto normativo sembra semplice, ma non è così.
In primo luogo, tralasciando l’ipotesi che il medico agisca con dolo, quindi deliberatamente diriga la propria condotta a provocare lesioni al paziente o ad ostacolarne la guarigione, perché in questo caso la responsabilità del professionista è, evidentemente, certa, occorre chiarirsi sul concetto di colpa.
Agisce con colpa, il concetto è mutuato anche in ambito civilistico dalla materia penale, chi pone in essere la condotta lesiva senza osservare le regole cautelari che gli impongono di agire con diligenza, prudenza e perizia.
Talvolta, in che cosa concretamente consistono queste regole lo indica l’ordinamento (es. il limite di velocità massima in autostrada), il più delle volte, però, sono desunte dal sentire comune, tenendo in considerazione le regole della scienza.
Occorre quindi sottolineare che il pur meticoloso rispetto di regole cautelari predefinite non sempre esime da responsabilità. Ad esempio, in autostrada vige il limite di velocità a 110 Km. l’ora se piove, ma nessuna regola generale prescrive se c’è anche nebbia quale sia la velocità massima da rispettare. Se in tal caso si procede, neppure a 110, ma a 100, o semmai a 90 Km l’ora, e si tampona un’autovettura, si può ben essere ritenuti in colpa, perché si è osservata la regola scritta fissata dalla legge, ma non la regola imposta dalla comune prudenza, che in quel caso richiedeva il rispetto delle regole della colpa generica, non scritte, in luogo di quelle della colpa specifica indicate in un precetto scritto che pure era stato osservato.
La precisazione è importante perché deve essere chiaro che, nell’esercizio dell’arte medica, la tutela della salute del paziente richiede sempre di agire con diligenza e prudenza, oltre che con perizia. Non basta perciò osservare le regole scritte. Per essere chiari, il pur rigoroso rispetto dei protocolli sanitari non esclude sempre la responsabilità del medico, né in sede civile, né in sede penale. Nell’esempio tratto dalla cronaca che abbiamo richiamato in premessa, il medico è stato condannato per aver dimesso frettolosamente un paziente sottoposto ad un intervento chirurgico delicato, sebbene avesse rispettato le previsioni dei protocolli sanitari.
Occorre però approfondire l’esame dell’art. 2236 C.c. che, come abbiamo ricordato, limita la responsabilità del professionista alla colpa grave. Potrebbe sembrare la soluzione, il medico risponderebbe solo per aver commesso errori grossolani, ma non è così.
Innanzitutto la stessa colpa grave deve essere riferita alla particolare specializzazione che si richiede al medico, in generale. Un errore che potrebbe essere ritenuto non grave se a commetterlo fosse un infermiere, può invece essere valutato grave se è un medico a rendersene responsabile.
Inoltre, la responsabilità del professionista per ciascuna prestazione, lo abbiamo accennato, si stima in base alla complessità della stessa. Ciò vuol dire che se intraprendo un’operazione chirurgica complessa, devo portarla a termine prestando diligenza, prudenza e perizia adeguate. Se provoco una modesta infezione operando un’unghia incarnita la mia responsabilità potrà essere valutata come meno grave rispetto all’ipotesi che abbia provocato la stessa infezione durante un intervento a cuore aperto, anche perché nel primo caso posso produrre, almeno di regola, un danno meno rilevante.
Ancora, ed è un profilo assai importante, la colpa grave si valuta solo in relazione alla perizia, non alla diligenza o alla prudenza, che seguono sempre le regole ordinarie. Questo comporta che se nel corso dell’intervento chirurgico si presenta una difficoltà tecnica particolarmente complessa, per esempio perché un’imprevedibile anomalia dei vasi li rende difficili da suturare, il medico potrà essere ritenuto responsabile degli esiti infausti dell’intervento se avrà eseguito male le suture in base alla migliore scienza ed esperienza. Se però il medico è stato negligente e non ha fatto precedere l’intervento da un’adeguata angiografia, o altro opportuno accertamento pur praticabile, anche se poi è stato bravissimo a suturare i vasi, ed ha operato un vero ricamo ma, purtroppo, il paziente perde ugualmente la vita, quel medico risponderà della sua condotta in sede civile e, se del caso, anche penale. Analogo discorso vale nel caso in cui il medico sia stato imprudente, ed abbia operato sebbene non disponesse degli strumenti chirurgici necessari per fronteggiare complicanze, per quanto di rara verificazione, sebbene, con quello che aveva a disposizione, le abbia tentate proprio tutte per salvaguardare la salute del paziente. In ambito civilistico, peraltro la più recente giurisprudenza tende a limitare la responsabilità del medico in simili frangenti, ed afferma che la responsabilità, in simili casi, deve essere attribuita (anche o solo) alla struttura sanitaria, che doveva mettere a disposizione tutto quanto poteva essere necessario anche per l’ipotesi che insorgessero complicanze ma, in campo penale, ove la responsabilità è sempre personale, si registrano resistenze, da parte del legislatore come della giurisprudenza, ad affermare che in caso di evento infausto dovuto all’ insufficienza degli strumenti posti a disposizione del medico possa dover rispondere penalmente non il medico che ha operato, bensì il responsabile della struttura sanitaria.
Per quanto evidente, vale ancora la pena di ricordare che nei casi di negligenza macroscopica, si pensi al chirurgo che dimentica un tampone nell’addome del paziente, o di imprudenza manifesta, si pensi al chirurgo il quale opera senza essersi accertato che i ferri necessari siano stati sterilizzati, sono sempre fonte di responsabilità. Eventualmente, insieme con il medico, in ambito civilistico risponderà pure la struttura sanitaria.