Poeticamente chiamata l’“isola dalle vene d’argento”, Erodoto la considerava νῆσος μέγιστη, l’isola più grande del mondo. Nei miti greci appariva come una terra felice, simile per grandezza e prosperità alle più celebri isole del Mediterraneo. Le pianure erano bellissime, i terreni fertili, non esistevano serpenti, lupi e altri animali pericolosi per l’uomo, non vi si trovavano erbe velenose, ad eccezione di quelle che provocavano il “riso sardonico”. L’isola appariva notevolmente idealizzata a causa della leggendaria lontananza e quindi collocata fuori dalla dimensione temporale storica.
Nella realtà dei fatti, greci, cartaginesi e romani sentivano il paesaggio come fortemente originale; le montagne erano abitate da mufloni e le lagune da fenicotteri. Una terra fortunata, caratterizzata da una mitica eukarpía, da una straordinaria abbondanza di frutta e di prodotti: latte, miele, olio, vino, che si attribuivano alla generosità del dio Aristeo. L’isola era vista soprattutto come la terra dei nuraghi, le torri a cupola, «le tholoi dalle mirabili proporzioni costruite all’arcaico modo dei Greci» che il mito attribuiva a Dedalo, l’eroe fondatore dell’architettura greca, arrivato in Sardegna su invito di Iolao, il compagno di Herakles.
Ottomila Nuraghi
Ebbene sono circa 8000 i nuraghi di cui si ha conoscenza su tutto il territorio sardo. In passato se ne contavano oltre 20000. Una media di un nuraghe ogni 3 chilometri quadrati. Si tratta di antiche torri di pietra costruite tra l’età del Bronzo e l’età del Ferro (1800/1000 a.C.) e uniche nel loro genere. Sono i monumenti megalitici più grandi e meglio conservati di tutta l’Europa, ma ancora oggi nessuno è riuscito a sciogliere l’enigma della loro funzione. Troppo numerosi e vicini tra loro per essere le regge di re-pastori, troppo pochi per essere abitazioni. Le vere case dei nuragici erano probabilmente le stesse capanne che si trovano nei dintorni delle strutture nuragiche. Potrebbe trattarsi di fortezze militari, questo spiegherebbe la presenza di molti nuraghi in zone impervie e lungo la costa. C’è chi vede i nuraghi come luoghi di culto della dea madre. La loro struttura, infatti, potrebbe simboleggiare un utero materno, che si apre verso un’unica apertura che lo lega alla luce del sole, simboleggiante la forza fecondatrice maschile. Questa interpretazione chiarirebbe l’orientamento della maggior parte dei nuraghi, con l’ingresso posizionato spesso a Sud/Sud-Est. È altresì possibile che fossero utilizzati per diversi scopi, quindi a volte come abitazioni, a volte come luoghi religiosi di culto o come vedette di difesa. Di sicuro c’è che oggi la maggior parte di questi capolavori megalitici versa in uno stato di totale abbandono. Molti presentano crolli a cui nessuno sembra prestare attenzione. I ruderi che affiorano intorno ai nuraghi e che indicano la presenza di altre strutture nuragiche pertinenti sono quasi sempre ancora da indagare. Da appropriate indagini si potrebbero ricavare utili informazioni e numerosi reperti potrebbero essere riportati alla luce. Magari si potrebbe finalmente capire la loro funzione. E invece giacciono nel dimenticatoio, abbandonati a se stessi. La maggior parte sono accessibili liberamente. Altri, i più importanti, sono chiusi da recinzioni facilmente scavalcabili. Nessuna telecamera. Nessun guardiano. Nessuna sorveglianza. Chiunque può entrare liberamente nel nuraghe, e volendo asportare parti o scrivere sui blocchi. Spesso per raggiungerli bisogna percorrere stradine sterrate, piene di buche, disperse tra la campagna, senza opportune indicazioni, spesso le indicazioni non esistono. Altre volte sono talmente vecchie da non essere più leggibili.
Le sei fatiche del nuraghe Ruiu
Un esempio per tutti. Il nuraghe Ruiu. Un meraviglioso manufatto le cui pietre sono state colonizzate da un lichene rosso, da qui il suo nome. L’impatto visivo è meraviglioso, soprattutto al tramonto. Ben conservato, è composto da un’unica grande torre ed ha una particolarità: il soffitto dell’ingresso e quello della scala sono molto alti e coperti con lastroni in pietra messi in orizzontale, incastrati dal muro esterno e dal muro della cella interna della torre. Un’altra rarità è la finestra al primo piano che è posta esattamente sopra la porta. Il nuraghe si trova nel territorio di Chiaramonti, in provincia di Sassari. Su diversi siti turistici sardi si legge che è raggiungibile facilmente, in quanto si trova sul margine sinistro della strada che da Sassari porta a Tempio, e comodamente visitabile perché situato in prossimità di una piazzola di sosta. L’unica piazzola visibile in prossimità del nuraghe è la piazzola di sosta della statale. Qui, fermata la macchina, ci si rende conto che visitare il nuraghe è un percorso lungo e pieno di insidie. L’intrepido visitatore, novello Ercole, dovrà affrontare e superare numerose prove per giungere all’agognata meta. Il nuraghe è infatti protetto da una vecchia recinzione culminante in un cancello chiuso. Intorno solo desolazione. Il sospetto che la piazzola di sosta tanto declamata sui siti esista, magari localizzata in prossimità del cancello. O meglio, la speranza che ci sia nasce dal constatare che forse l’erba alta circa un metro ne impedisca la vista. Con la speranza di ritrovare la macchina nella piazzola incustodita, il visitatore deve subito affrontare la prima prova: scavalcare il guard-rail. Dopodiché deve percorrere un sentierino sterrato, creato dai continui passaggi, tra rovi, ortiche e serpi. Chi ha la fortuna di arrivare indenne alla fine del sentiero, si troverà davanti alla recinzione: una rete arrugginita che qualcuno ha abbassato per permettere il passaggio all’interno. Facendo attenzione al filo spinato, si entra. Poi bisogna farsi strada tra rovi ed erbacce alte, a rischio di essere morsi da qualche rettile o attaccati dai cani delle greggi che pascolano intorno. Finalmente esausti e graffiati si arriva al nuraghe. Li per lì la vista di tanta meraviglia fa dimenticare le insidie superate. Il sollievo dura poco. Basta entrare nel nuraghe per rendersi conto dell’ennesima prova, la più pericolosa: gli escrementi! Ebbene sì, il nuraghe Ruiu è usato come una latrina. Uscendo ci si rende conto dell’ultima prova, la sesta: il ritorno alla macchina. Si consiglia di lasciare i nonni in macchina e di visitare il nuraghe dopo essersi accertati di aver fatto il richiamo dell’antitetanica. Dato che simili posti vengono visitati in primavera ma soprattutto in estate, si sconsiglia vivamente l’uso di pantaloncini corti e scarpe aperte. In bocca al lupo.
Pozzo Irru
Arrivare a pozzo Irru è come vincere una caccia al tesoro. Nessuna indicazione sulla strada principale, nessuna indicazione una volta presa la deviazione giusta. Appunto, la deviazione giusta! Bisogna essere fortunati a trovarla altrimenti si prova e si riprova. Indovinata la deviazione, ci si trova su una stradina sterrata sperduta nella campagna di Nulvi e bisogna solo pregare di incontrare qualcuno del posto che sappia dove si trovi Pozzo Irru. Scopriamo così che tutti sanno che c’è ma in pochi ci sanno arrivare. Eppure si tratta di un meraviglioso tempio a pozzo nuragico, luogo di culto delle qualità salutifere delle acque. Risale al 1100 a.C. (Bronzo Finale), con riusi fino all’età medievale (VII-VIII secolo d.C.). È stato costruito 3000 anni fa. Quanti riusciranno ad arrivare a destinazione, scorgeranno il tempio su un leggero declivio. È indicato da un piccolo cartello sbiadito. Il tempio fa parte di un complesso più ampio costituito da un nuraghe e da un villaggio nuragico, quest’ultimi non ancora fruibili. Il pozzo sacro, costruito in opera isodoma con conci di calcare bianco perfettamente squadrati, ha una lunghezza complessiva di 16 metri, e si compone di tre nuclei: il pozzo vero e proprio, perfettamente circolare e ancora attivo, al cui interno si conservava l’acqua sorgiva oggetto di venerazione, e due atrii a pianta rettangolare in cui si svolgevano le cerimonie sacre. Nel pavimento degli ultimi due ambienti è ancora perfettamente visibile la canaletta centrale di scolo per il deflusso delle acque per il troppo pieno, scaricate al di fuori del monumento in una vasca monolite in calcare. Il prospetto principale del tempio presenta conci a “coda di rondine” (con forma a “T”) che mostrano, sulla faccia a vista, una decorazione a bugnato. Vedere il pozzo è già di per se un’esperienza unica. Se si ha la fortuna di vederlo di notte illuminato dalla luna piena è qualcosa di meraviglioso. La luce lunare esalta in maniera soffusa il bianco del calcare. Il pozzo sembra una nuvola adagiata sul terreno. Ma basta alzare gli occhi e il romanticismo scompare. Qualcuno ha pensato di proteggere il pozzo con una mastodontica copertura in legno pregiato sostenuta da numerose colonne di cemento. Orribile a vedersi, ma ancora più orribile lo stato in cui versa: è scoperchiata e i pannelli di catrame svolazzano al primo vento. Sotto la copertura è stata inserita una rete di ferro per impedire la nidificazione degli uccelli. Astuto provvedimento, dal momento che ora gli uccelli costruiscono i loro nidi direttamente su tutta la superficie della rete. Il risultato? Pozzo Irru è completamente sommerso da sterco di uccelli. Qualcuno ha addirittura rubato le grondaie. L’area, d’altronde, non è sorvegliata. Il sito è infatti protetto da una rete su cui sono stati praticati vari buchi per permettere l’accesso e da due cancelli bloccati con tanto di lucchetti. Il sito, un tempo regno delle sacre acque, oggi è regno di erbacce e rovi, che hanno sommerso anche quello che doveva essere un parcheggio. Tutt’intorno pascolano numerose greggi, i cui escrementi si trovano anche nel tempio risalente a 3000 anni fa. Sarebbe stato meglio lasciarlo sotto terra, di sicuro sedimenti e terra lo avrebbero protetto di più di quanto hanno fatto le autorità competenti.
La foresta pietrificata
Milioni di anni fa in Sardegna si trovava una fitta vegetazione, con boschi che ricoprivano gran parte della superficie. I mutamenti climatici hanno portato ad un radicale mutamento del paesaggio. Le foreste sono state sostituite da paludi e bacini lacustri, che hanno finito per sommergere gran parte dei boschi presenti. Per milioni di anni i giganteschi tronchi di legno hanno subito una lenta ma progressiva trasformazione diventando di pietra pur mantenendo la loro forma originaria. Oggi questa incredibile testimonianza del passato riemerge dalla terra dando vita ad uno spettacolo davvero suggestivo: le foreste pietrificate. Si trovano nel nord della Sardegna ed in particolare all’interno dell’Anglona, verso Martis, Perfugas, Laerru o Bulzi. Enormi tronchi di pietra si alternano nelle campagne come sculture create dal lento incedere della natura. Per valorizzare e tutelare questo patrimonio le amministrazioni di Martis, Bulzi, Laerru e Perfugas, di comune accordo, hanno dato il via nel 2005 ai lavori per il Parco Paleobotanico, con l’obiettivo della promozione turistica e la valorizzazione del territorio in un’ottica di sviluppo locale sostenibile. La valorizzazione dell’area della foresta pietrificata di Carrucana, località sita nel Comune di Martis, prevedeva la realizzazione di un sistema di gallerie-ombrario, poste in punti strategici panoramici o significativi per i ritrovamenti dei fossili, la creazione di un sistema museale diffuso (museo paleontologico, museo archeologico, centro didattico di coordinamento del parco..) in ciascun centro abitato, che avrebbe dovuto costituire il punto d’accesso al Parco. Tutta l’area sarebbe stata fruibile liberamente, la manutenzione e la gestione a carico delle amministrazioni locali, la gestione dei musei, delle visite e l’attività didattica invece affidata alla società di servizi culturali Sa Rundine. Nella realtà dei fatti è difficile raggiungere il Parco, le indicazioni stradali scarseggiano, a un certo punto scompaiono. Il visitatore non sa più dove andare. Uno si aspetterebbe un Parco con un ingresso, un’area recintata, dei cartelloni che spieghino i reperti fossili. Nulla di tutto questo. A Perfugas bisogna avere la fortuna di essere accompagnati da un sardo che conosce il sito archeologico perché all’improvviso, nella totale assenza di qualsivoglia indicazione, ci si trova nel parco. Camminando si vedono dei massi. Il dubbio è lecito: sono rocce o sono alberi fossilizzati? Certo se avessero messo dei cartelli lo sapremmo. Ci sono resti di tronchi fossili persino sul ciglio della strada, pronti per essere rubati. E infatti numerosi sono i fossili depredati e sottratti al loro ambiente naturale. Gli esperti dicono che molto giace ancora nel sottosuolo, ma a queste condizioni forse è meglio che lì rimanga.
Brancaleone e la Torre di Casteldoria
Le più antiche attestazioni sulla presenza del castello si riferiscono al 1282 quando Brancaleone I Doria acquisisce i territori della curatorìa di Anglona, con i castelli di Castel genovese e Casteldoria da Corrado Malaspina. Nel 1321 Brancaleone approva le concessioni agli abitanti del borgo compiute alcuni anni prima dal castellano Pietro de Barra. L’atto è di estremo interesse non solo per l’attestazione del villaggio e delle sue strutture interne (mura di cinta, loggia, orti), ma soprattutto per la comprensione delle modalità di gestione da parte del potere signorile nell’insediamento fortificato. Nel documento Brancaleone si dice che tutte le proprietà erano consegnate in perpetuo godimento ai soli abitanti del borgo che dovevano sopportare il vincolo di non alienare la quota di terreno personale se non agli altri residenti nel castello. In caso di necessità i burgenses erano tenuti a consegnare al castellano «poma, pira et alii fructus». Agli abitanti era concessa la completa autonomia dal podestà del villaggio di Cokinas (attuale Santa Maria). L’elemento saliente della fortificazione è la torre con la sua particolare forma pentagonale. La struttura mostra un unico accesso lungo il lato nord orientale. All’interno è suddivisa in tre livelli più la copertura finale. La separazione tra il piano terra e il primo piano è realizzata da una volta a botte. Il terzo piano, prima del terrazzo superiore, era ricavato attraverso un soppalco ligneo del quale si conservano ancora le tracce delle originarie travature portanti. All’esterno nelle cortine sono macroscopicamente evidenti i segni degli antichi restauri. Nella porzione più alta, in particolare nel prospetto d’ingresso, è ancora possibile rilevare le tracce della originaria merlatura. Tutto il corpo di fabbrica poggia su un basamento di forma circolare caratterizzato da una muratura in bozze di granito senza alcun legante. La torre è perfettamente inserita in un complesso impianto fortificato che occupa tutta la cima. Una imponente cinta muraria che rifila non solo il profilo esterno dell’emergenza rocciosa, ma anche l’area a contatto con il terrazzamento naturale occupato dal borgo. La presenza dei muretti a secco per la suddivisione dei poderi, che in più tratti ricalca le antiche strutture, non permette di individuare gli accessi originari. La copiosa dispersione di materiale sul terreno, dopo una prima analisi compiuta sul campo, mostra al momento solo la fase tardo medievale del sito. E questo perché la torre è ancora in attesa di auspicabili e attente ricerche archeologiche. Una torre dei primi del 1000, ancora in piedi per miracolo, che ancora deve essere indagata. Da questa torre una volta si avvistavano i pirati e gli assalti barbareschi. Oggi la torre di Casteldoria è ancora “imbragata” per via di un intervento di restauro iniziato nel 2000 circa e che ha portato alla distruzione dell’originario tetto. Motivo per cui attualmente il sito è posto sotto sequestro per accertamenti. “Quando ho visitato la torre”, scriveva Grazia Deledda “mi sono chiesta dove fosse il tesoro dei Doria, ma le impalcature montate per restaurare la fortezza, sono tutt’ora in stato di abbandono, quindi non ho potuto esplorarlo come avrei desiderato. Tuttavia, devo dire con estrema sincerità che la vista da lassù è davvero mozzafiato! Andateci e mi crederete… Ci sono le rocce, le campagne e il fiume Coghinas davanti; e, scorgendo lo sguardo all’orizzonte il mare, Blu scuro, profondo e altrettanto limpido. Dalla strada è visibile la torre a cinque angoli, fatta di pietre rettangolari saldate l’una all’altra a incastro…Un marciapiede conduce dalla torre alla Conca di la muneta, dove, si dice, i Doria nascondevano il loro tesoro. Questa Conca, pare sia una grande cisterna di una immensa profondità: nel fondo esisteva una campana d’oro, e i passanti gettavano una pietra, per farla suonare. Ora la cisterna è piena di pietre, e la campana è invisibile”.
La casa delle fate
A Sedini si trova la Domus de janas “La Rocca”. Domus de janas letteralmente significa “la casa delle fate”, perché anticamente si pensava si trattasse delle abitazioni di queste piccole creature magiche. In realtà sono strutture sepolcrali prenuragiche costituite da tombe scavate nella roccia. Una domus può ospitare anche più di 40 tombe. A partire dal Neolitico recente fino ad arrivare all’Età del Bronzo antico, queste strutture si diffondono su tutta l’isola. Ne sono state ritrovate più di 2.400, circa una ogni chilometro quadrato, e molte rimangono ancora da scavare. Sono sovente collegate tra loro a formare delle vere e proprie necropoli sotterranee con in comune un corridoio d’accesso e un’anticamera, a volte assai spaziosa e dal soffitto alto.
La necropoli di Sedini è stata datata tra il 3100 e il 2500 a. C., cioè al periodo del Neolitico Recente. Le tombe sono scavate nel calcare, in un’enorme masso affiorante alto 12 m. , e si presentano come una serie di sei celle di circa 2,4 x 1,5 m. disposte su piani diversi e comunicanti tra loro. In origine l’entrata era situata ad est e rialzata rispetto al suolo, si entrava infatti salendo su un grosso masso, fornito di gradini, che oggi non c’è più. Alcune particolarità rendono “La Rocca” di Sedini unica nel suo genere, al punto da essere definita “la cattedrale delle domus de Janas“: la prima è che si trova all’interno del centro storico e non, come nella maggior parte dei casi, in luoghi sperduti o difficilmente raggiungibili; la seconda è che è stata realizzata in un enorme masso che si trova completamente in superficie e per questo motivo, probabilmente, viene considerata la più grande della Sardegna. La terza particolarità è che, pur avendo mantenuto una parte delle sue caratteristiche originali, nei secoli ha subito diverse trasformazioni ed utilizzazioni che l’hanno resa parte viva del paese: è stata prigione, luogo di ricovero per animali, negozio, sede di partito e abitazione privata. Una parte conserva intatta la struttura medievale, con il focolare scavato al centro della stanza nel pavimento roccioso e scale a chiocciola ricavate nella viva roccia. Oggi ospita il museo delle tradizioni etnografiche.
Nel 2009 la Domus è stata interamente restaurata. Non si capisce per quale motivo invece la cisterna accanto, coeva alla Domus, sia stata completamente abbandonata. Nel 2010 il responsabile della cooperativa che gestiva la Domus aveva sollecitato interventi urgenti per tutelare la cisterna. Ma nulla è stato fatto. Oggi la cisterna, in parte recintata da una grata di ferro, sembra una discarica: al suo interno sono cresciute erbe selvatiche e rovi, sono finiti pezzi di cartoni e altre immondizie.
La necropoli di Su Murrone
La Necropoli ipogeica preistorica di Su Murrone si trova in località Sa Ide, in territorio di Chiaramonti, ed è scavata in un affioramento roccioso naturale. La necropoli si compone di tre domus de janas caratterizzate da una tipologia d’ingresso a dromos (corridoio scoperto), da un ampio atrio e da uno schema planimetrico a “T”. Tutte e tre sono pluricellulari, a più ambienti. La necropoli è datata al Neolitico finale (3200 a.C.), con riutilizzi fino al Bronzo Antico (1600 a.C.) ed in età romana. Di estremo interesse la Tomba I che, seppur danneggiata, conserva significativi esempi di decorazione con motivi architettonici o figurati, scolpiti a bassorilievo su pareti e soffitto. Al suo interno si trova infatti una perfetta riproduzione di una capanna preistorica, con tetto a doppia falda, trave di colmo e travetti laterali; cornici, lesene, riquadri bordati da cornici completano i richiami all’architettura civile di allora. Alle credenze magico-religiose si richiama, invece, la presenza di motivi di duplici corna al di sopra dei portelli di accesso: la loro reiterazione serve a rafforzarne il valore simbolico, che allude alla forza ed alla virilità maschile. Sulle pareti si possono ancora chiaramente ammirare tracce di ocra rossa, simbolo del sangue e della rigenerazione, a completamento del quadro escatologico. Estremamente interessante il sistema di canalizzazione delle acque, ancora visibile, per impedire che le acque piovane penetrassero dentro le tombe.
È evidente la grande importanza del sito. Ebbene oggi è impossibile accedervi perché le tombe sono invase dall’acqua, anche in piena estate. Questo perché in più punti il soffitto della necropoli è stato sfondato. Ed è proprio dai buchi sul soffitto che bisogna affacciarsi per scrutare l’interno, facendo attenzione a non finirci dentro. Tanta fatica per rendersi conto che quelle che un tempo erano tombe oggi sono abitazioni di rane gracchianti. Il sito è completamente incustodito e sguarnito di reti e cancelli. Anche qui manca ogni indicazione per raggiungere e identificare la necropoli. L’ingresso al sito è posto dalla parte opposta rispetto al fronte della necropoli e bisogna fare molta attenzione a non cadere nei buchi. Una volta entrati nel sito, la prima cosa che attira l’attenzione sono i resti del cartello indicante la necropoli. Giacciono a terra. Sono solo alcuni frammenti, gli altri si trovano disseminati intorno le tombe. C’è un piccolo edificio in legno abbandonato che sembrerebbe essere una struttura per picnic, chissà se mai utilizzata. Si lascia questo sito con un grande senso di desolazione e con la certezza che si è persa la percezione originaria della necropoli. E pensare che ad est delle tombe scoperte c’è una zona della necropoli ancora tutta da indagare.
L’arrivo dei monaci
La Sardegna custodisce alcune delle chiese medievali più belle al mondo, legate alla diffusione del monachesimo. I monasteri, oltre ad essere centri di culto e preghiera, erano centri di innovazione tecnologica e culturale. I monaci dell’abbazia di Montecassino giungono in Anglona, regione della Sardegna settentrionale, intorno al 1120. Dopo il loro arrivo vengono costruite numerose chiese, quella di S. Maria a Pefugas (1160), S. Giovanni a Viddalba, S. Nicola di Silanis e tante altre. Ma la prima ad essere costruita è la chiesa romanica di S. Maria a Tergu. È il 1113.
S. Maria di Tergu
Il libellus Judicum turritanorum, una rara cronaca medievale (metà del XII sec. d.C.), riporta che Mariano I giudice di Torres edificò questa chiesa, che presto diventerà l’abbazia cassinense più importante dell’isola. Nel 1445 diventa un noto centro mariano. La chiesa è costruita in blocchi di trachite rossa ed è circondata dai resti di un monastero. Nel 2003 il Comune di Tergu, in collaborazione con la Diocesi di Tempio-Ampurias, promuove e finanzia un progetto di ricerca archeologica presso l’abbazia benedettina di S. Maria di Tergu. La direzione scientifica dei lavori è stata affidata a Letizia Ermini Pani, dell’Università La Sapienza di Roma, che conduce le indagini con un’équipe di esperti di varie discipline. Dall’incontro di questi tre enti nasce il Progetto “Santa Maria di Tergu”, un programma di ricerca multidisciplinare con obiettivi precisi: scavo estensivo dell’area del monastero, pubblicazione integrale dei dati emersi dalla ricerca, realizzazione di un museo; fruibilità del sito. Gli scavi si interrompono nel 2006. A oggi gli scavi sono fermi, il Museo non esiste, il sito è stato reinterrato e abbandonato. Eppure lo scavo aveva prodotto informazioni interessanti circa la struttura del monastero, i suoi diversi momenti costruttivi e l’alimentazione dei monaci. È inoltre emerso che la sede monastica è stata preceduta da un impianto rurale databile tra X e XI secolo. Tutto inutile. Gli archeologi e la popolazione aspettano la ripresa dei lavori. Tergu è gemellata con una cittadina spagnola e ogni anno arriva una moltitudine di visitatori ad ammirare la chiesa santuario. Non è difficile immaginare quanto ne potrebbe beneficiare il paese se esistesse un Museo e se il sito fosse visitabile a pagamento. A Tergu, gli amministratori non sembrano della stessa opinione.
Saccargia (SS)
E che dire della splendida basilica della santissima Trinità di Saccargia, icona della cultura sarda. Quest’anno compie 900 anni. Per celebrare la ricorrenza, l’Arcidiocesi di Sassari e il Comune di Condrongianos hanno organizzato un convegno di studi che si terrà in basilica, il 15 e 16 dicembre.
La basilica fu edificata a partire dal 1112 per volontà di Costantino I, giudice di Torres, e di sua moglie Marcusa de Lacon. Il territorio era frequentato, già in età protostorica, romana e altomedievale, benché di queste fasi non siano emersi resti architettonici. La fondazione dell’edificio sacro ha il sapore di leggenda. Secondo il “Condaghe di Saccargia” (documento apografo del XVII secolo), il giudice e la consorte, durante un viaggio da Ardara (capitale del Regno di Torres) a Porto Torres, furono ospiti dei monaci camaldolesi che lì avevano un monastero. Durante la notte, Marcusa sognò la Vergine che le preannunciava la nascita del tanto desiderato erede. In segno di ringraziamento, la coppia decise di concedere ai monaci una cospicua donazione di terreni, servi e beni di ogni tipo. La basilica venne consacrata ufficialmente nel 1116 e il monastero annesso notevolmente ampliato. Gli scavi archeologici dell’Abbazia, condotti a partire dalla metà degli anni Novanta, hanno portato alla luce strutture relative al primitivo impianto del monastero e consistenti tracce delle modificazioni strutturali avvenute tra i secoli XIII e XIX, consentendo agli archeologi di ricostruire importanti tratti della vita quotidiana dei suoi abitanti. Gli scavi sono stati interrotti e mai più ripresi. Non è possibile visitare gli scavi dal momento che l’area è stata recintata e abbandonata. Tra le erbacce una sola cosa è visibile: il degrado del sito.
S. Pietro del Crocifisso
Altra chiesa di impianto monastico edificata in due momenti costruttivi: il primo risalente all’inizio dell’XII secolo, il secondo alla fine del secolo. Nella chiesa si trovava lo splendido crocifisso, ora custodito nella chiesa di San Sebastiano a Bulzi. Anche qui intorno alla chiesa si sviluppa l’impianto monastico che ancora non è mai stato indagato. A sinistra della chiesa ci sono alcune vasche scavate nella roccia e utilizzate dai monaci per qualche loro attività. Camminare intorno alla chiesa significa camminare sulla cresta dei muri del monastero. È impressionante la quantità di frammenti fittili visibili a colpo d’occhio sul terreno. Il monastero è tutto lì, ancora sepolto. Aspetta solo di essere scavato. Ma anche qui, nulla si muove. La chiesa è chiusa ma l’area monasteriale intorno è completamente aperta.
Menhir
Passeggiando in mezzo alla campagna sarda capita spesso di imbattersi in menhir abbandonati e che chiunque potrebbe portare via. Sono delle grosse pietre allungate che stanno lì da migliaia di anni e continueranno a starci sino a quando qualcuno, e purtroppo non è detto che si tratti dell’autorità competente, decida di spostarli, portarli via o, peggio ancora, distruggerli.
Questi sono solo alcuni esempi della moltitudine di siti archeologi sardi a rischio. A rischio di mancate indagini, a rischio di non ripresa delle indagini, a rischio di sopravvivenza per mancanza di tutela. Siti di cui manca perfino un censimento completo.
(8/Continua. Le precedenti puntate relative a Molise, Toscana, Campania, Calabria, Puglia e Sardegna si possono leggere negli articoli correlati)