Il Gallo d’oro
di Nikolaj Rimskij-Korsakov
Orchestre de Paris e Coro del Teatro Mrariinskij diretti da Kent Nagano
regia: Ennosuke Ichikawa
scene: Isao Takashima
costumi: Tomio Mohri
interpreti: Albert Shagidullin, Ilya Levinsky, Andrei Breus, Ilya Bannik, Olga Trifonova, Yuri Maria Saenz, Barry Banks.
1 Dvd Arthaus 107387
La leggenda dell’invisibile città di Kitež
di Nikolaj Rimskij-Korsakov
Orchestra e coro del Teatro Lirico di Cagliari diretti da Alexander Vedernikov
regia: Eimuntas Nekrosius
scene: Marius Nekrosius
costumi: Nadezda Gultiajeva
interpreti: Michail Kazakov, Vitaly Panfilov, Tatiana Monogarova, Mikhail Gubskij, Gevorg Hakobyan, Marika Gulordava, Valery Gilmanov, Alexander Naumenko.
2 dvd Naxos 211027778
Escono quasi insieme due video delle due ultime opere composte da Rimskij-Korsakov, due capolavori assoluti che rivelano la ricchezza della scrittura armonica e orchestrale e il potere visionario della sua musica. Delle due, quella meno nota è La leggenda della città invisibile di Kitež, opera completata nel 1905, basata su un’antica leggenda russa, carica di valenze simboliche e nazionalistiche, che racconta la storia della grande Kitež, la bellissima cittadella del principe Jurij Vsevolodovič, la Kitežgrad dalle quaranta chiese d’argento e d’oro tempestate di gemme preziose, che sorgeva a distanza di un centinaio di verste, sulle rive del lago Svetlyj Jar. Secondo la credenza popolare, questa città sarebbe sprofondata miracolosamente nel lago, salvandosi così dall’Orda d’oro, dall’invasione dei tartari guidati da Batu Khan (il nipote di Gengis Khan) che iniziarono la dominazione mongola della Russia.
Spesso definita il “Parsifal russo”, quest’opera panteistica e fantasmagoria, impregnata di elementi folklorici, rivela procedimenti wagneriani non solo nell’armonia e nell’orchestrazione, ma anche nell’uso di alcuni Leitmotive. Rimskij Korsakov gioca su un doppio contrasto: quello tra il registro lirico (imperniato sulla fanciulla vergine, Fevronija) e grottesco (rappresentato da Griška, incarnazione del male), e quello tra le pagine dal carattere ieratico, e dalla scrittura diatonica (soprattutto nel primo e nel quarto atto), che sono tra i momenti più suggestivi dell’opera, e le pagine ritmiche, cromatiche e dissonanti, associate alle scene dei tartari (nel secondo e nel terzo atto). La tavolozza armonica e melodica di Rimskij-Korsakov è arricchita anche dal frequente uso di strutture pentafoniche, esatonali, da intervalli aumentati utili ad evocare atmosfere esotiche. Insomma una partitura assi ricca di spunti musicali, non proprio esaltati dalla direzione di Alexander Vedernikov, in uno degli ultimi spettacoli dell’epoca d’oro del Teatro lirico di Cagliari, che aveva inaugurato proprio con questa rarità la sua stagione lirica nell’aprile del 2008. Il direttore russo non coglie tutta la finezza timbrica della partitura, e appesantisce inutilmente i momenti più solenni, come l’apoteosi finale.
Quello firmato da Eimuntas Nekrošius è un allestimento che cerca sempre il movimento, ma ha un carattere cupo, carico di angoscia, accentuato dalle scene spoglie di Marius Nekrosius e dai costumi rustici e primitivi di Nadezhda Gultiayeva, e certo non valorizzato dalla scadente ripresa video. Ottima invece la prova del coro, al quale Rimskij-Korsakov affida un ruolo di primo piano, e anche del cast nel suo complesso: la voce di Tatiana Monogarova fa risplendere la bellezza melodica della parte di Fevronjia, il tenore Mikhail Gubskij dà al personaggio di Griška un’impronta insieme meschina e umanissima, Marika Gulordava sfoggia un’ottima tecnica vocale nel ruolo del paggio. Più riuscito l’allestimento del Gallo d’oro filmato nel 2002 al Théâtre du Châtelet, ma ripreso dalla stagione 1984, grazie soprattutto all’originalissima regia di Ennosuke Ichikawa che ha lavorato con un team tutto giapponese.
Basata su una fiaba in versi di Puškin (scritta nel 1834, per criticare l’indolenza degli zar di allora), l’opera del 1906 racconta la storia dello zar Dodon, che pretende di regnare dormendo, e che per le questioni militari si affida a un astrologo, e a un gallo magico capace di avvertire i pericoli a distanza. Insomma una satira così sferzante contro il potere (e così allusiva nell’epoca della composizione: il paese era appena uscito da una disastrosa guerra contro il Giappone) che l’opera fu considerata una sorta di manifesto antizarista e fu subito censurata. Il regista giapponese ha accentuato la dimensione fiabesca e orientaleggiante dell’opera, dandogli il carattere e la gestualità tipica del teatro Kabuki (genere nel quale Ichikawa è stato anche un celebre attore), trasformandola in un caleidoscopio di luci e di colori, sfruttando i sontuosi costumi disegnati da Tomio Mohri, le barbe lunghissime, i grandi piumaggi. Tutto messo in risalto anche dalle scenografie stilizzate di Setsu Asakura, ridotte in sostanza a una scalinata che abbraccia in larghezza tutta la scena. Kent Nagano, sul podio, è impareggiabile nel sottolineare il virtuosismo orchestrale di questa partitura, le sue invenzioni, alcune soluzioni modernissime che anticipano lo stile di Stravinskij e di Prokof’ev. Impervia anche la scrittura vocale, ma affrontata con bravura dall’intero cast: su tutti spicca la voce tonante del basso Albert Schagidullin, nei panni di Dodon, figura imponente e grottesca, praticamente sempre in scena; il tenore inglese Barry Banks dà all’astrologo la giusta arguzia, Olga Trifanova affornta la parte di coloratura della regina di Cemachan con una voce un po’ spigolosa ma una tecnica notevole.
Elektra
di Richard Strauss
Wiener Philharmoniker diretti da Daniele Gatti
regia: Nikolaus Lehnhoff
scene: Raimund Bauer
costumi: Andrea Schmidt-Futterer
interpreti: Iréne Theorin, Waltraud Meier, René Pape, Eva-Maria Westbroek, Robert Gambill.
dvd Arthaus Musik 101 559
Salome
di Richard Strauss
Deutsches Symphonie-Orchester Berlin diretta da Stefan Soltesz
regia: Nikolaus Lenhoff.
scene: Hans-Martin Scholder
costumi: Bettina Walter
interpreti: Angela Denoke, Kim Begley, Doris Soffel, Alan Held, Marcel Reijans
blu-ray Arthaus Musik 108 037
A distanza di un anno Nikolaus Lehnhoff, uno dei registi d’opera oggi più quotati, celebre per i suoi allestimenti wagneriani, ha diretto due grandi opere di Strauss, Elektra e Salome, entrambe accolte con grande successo: la prima al Festival di Salisburgo nel 2010, la seconda al Festival di Baden-Baden nel 2011. Due regie claustrofobiche, dominate dal grigio e dal nero (colori amati da Lehnhoff), ambientate in scenografie aride e inospitali, spazi privi di connotazioni temporali, dove il regista non gioca a reinterpretare le vicende delle due opere, ma semmai a creare il giusto humus dove far vivere le due eroine. Elektra si muove in un paesaggio sghembo, tre massicce superfici di calcestruzzo, con aperture e feritoie, che delimitano uno spazio complessivamente vuoto (che ricorda la sua vecchia regia di Parsifal, ripresa anche recentemente all’English National Opera): un mondo inquietante, popolato da larve, che pare pronto per un rituale macabro, per un sacrifico, e che coincide perfettamente col mondo interiore di Elektra, schiacciata tra il dolore per la morte del padre e la sete di vendetta. Un grande portellone metallico, chiuso durante tutta l’opera, alla fine si apre svelando il cadavere di Clitennestra appeso al soffitto, in una stanza di un bianco accecante, e imbrattata di sangue. Nel finale Elektra non danza, ma si vedono affiorare le nere ombre delle Eumenidi pronte a trascinare Oreste con loro. Anche al dramma decadente di Salome Lehnhoff imprime la forza di una tragedia antica. Simile l’ambiente, disegnato da Hans-Martin Scholder: una specie di giungla di cemento, sgradevole, con scale, ponti e muri fatiscenti, e una lastra di marmo nero al centro, così lucida da sembrare uno specchio. E simili le dinamiche teatrali, tutte giocate sul contrasto tra la ferrea volontà della protagonista e la varia umanità che le gira intorno. Il soprano svedese Iréne Theorin è un’Elektra dalla voce non possente, ma capace di cogliere tutte le sfumature drammatiche del suo personaggio, bravissima nel recitare quasi immobile: e tutta l’attenzione si concerta sul suo volto, bianco, cadaverico, che quasi si mimetizza col calcestruzzo che la circonda. Una maschera tragica e folle, che lancia sguardi insieme persi e tremendi, in netto contrasto con la grande mobilità e i colori di tutti gli altri personaggi (impareggiabile Waltraud Meier nei panni di Clitennestra, in pelliccia rossa; Eva-Maria Westbroek interpreta, con la sua voce raffinata e piena di accenti lirici, una Crisotemide nervosa, insicura, in perenne agitazione; l’Oreste di René Pape appare vocalmente imponente anche se un po’ rigido sul piano teatrale).
Salome è invece interpretata da Angela Denoke (già acclamanta in questo ruolo al Covent Garden nel 2010): non una donna sensuale, ma una ragazzina viziata e capricciosa, dal fascino androgino e dai capelli corti, che si muove scalza sulla scena, si rotola, si contorce (anche nella non-danza dei sette veli). Una donna dispettosa (che si compiace anche quando Jochanaan dice cose tremende di sua madre) e permalosa, che saltellando persegue lucidamente il suo macabro progetto. Magnifica la sua voce, più brillante che calda, ma sempre a fuoco, mai sguaiata, perfetta nella dizione e nel fraseggio (una creatura che è l’opposto di lei è Jochanaan, il veemente basso Alan Heldcolla, sua cresta punk, grande e grosso ma anche un po’ spaventato; fluente la voce di Marcel Reijans nei panni di Narraboth; Doris Soffel è assai credibile nel ruolo di una Erodiade nevrotica, rigida nel suo vestito d’oro e regale, in netto contrasto con l’abito da ragioniere che indossa Kim Begley nel ruolo di un Erode completamente sopraffatto dalla situazione). Interessante anche il confronto tra i due direttori: Daniele Gatti, sul podio dei Wiener Philharmoniker, offre di Elektra una lettura elegantissima, cura ogni minimo dettaglio timbrico, in modo da far scintillare la partitura come una palla stroboscopica, evita gli effetti brutali e anche gli eccessivi contrasti dinamici, smussa le impennate, disegna frasi ondeggianti, piene di sfumature, spesso rallenta, come se degustasse i suoni: legge insomma di questa partitura non in chiave espressionistica, ma come un profluvio di bellezze armoniche e timbriche.
Anche Stefan Soltesz, in Salome, punta tutto sul gioco di colore orchestrale (quello della Deutsches Sinfonie Orchester Berlin), ma differenzia il carattere di ogni scena, segue l’azione e il canto molto da vicino, e non rinuncia ad esaltare i momenti di grande accensione drammatica, e quelli più voluttuosi.