La riforma dell’articolo 18, contenuto nello statuto dei lavoratori del 1970 e relativo ai licenziamenti, era stata annunciata a più riprese e martedì sono finalmente arrivate le proposte del governo.

Il documento non riguarda solamente modifiche all’articolo citato, ma contiene ulteriori provvedimenti, che dovrebbero cambiare il volto all’attuale impianto normativo sul tema lavoro. Il dibattito, tuttavia, si è subito focalizzato sulla norma che tutela i lavoratori dai cosiddetti licenziamenti “facili”, emblema dello scontro più ideologico che economico tra governo, sindacati e Confindustria.

Il progetto di riforma del mercato del lavoro promosso dal governo Monti è imperniato sul concetto di “flexicurity”, ovvero sulla ricerca di un equilibrio tra la flessibilità operativa, richiesta a gran voce dalle aziende, e la sicurezza economica dei lavoratori prolungata nel tempo, requisito essenziale per il raggiungimento di standard di vita più elevati. Il modello di riferimento è senza dubbio quello nord europeo, con particolare riferimento ad Olanda e Danimarca, dove i cittadini cambiano spesso lavoro e godono di sussidi elevati nel caso in cui perdano improvvisamente il proprio impiego.

L’accusa mossa dal governo e dalle associazioni d’impresa nei confronti dei sostenitori dell’articolo 18 riguarda sostanzialmente la rigidità della norma, in quando volta a scoraggiare i licenziamenti, che invece servirebbero ad un’impresa per riprendere il proprio cammino nel momento in cui deve affrontare una crisi di settore, un calo della domanda o un rinnovamento produttivo. Si tratta del tipico licenziamento “per motivi economici”, peraltro già previsto dal vecchio articolo 18: il problema risiede piuttosto nella giurisdizione, per cui si riscontrano tempi estremamente lunghi per la risoluzione delle cause, mentre l’unica misura prevista è il reintegro in azienda. L’intero procedimento risulta essere dunque estremamente costoso per le imprese, che spesso optano per il semplice mantenimento dello status quo per non dover affrontare una situazione peggiore in seguito ad una condanna. A tal proposito la nuova normativa mantiene in vigore l’impianto originale, introducendo al contempo la possibilità, nel caso in cui il giudice riscontri l’insussistenza di un reale motivo economico dietro un licenziamento, di versare un indennizzo compreso tra le 15 e le 27 mensilità, proporzionato ad alcuni parametri quali l’anzianità di servizio e la dimensione d’azienda. L’indennizzo è previsto anche nel caso di licenziamento per motivi disciplinari, anche se solamente in alcuni casi, mentre in precedenza era il lavoratore a dover scegliere, una volta vinta la causa, tra il rimborso e il reintegro.

Il dibattito che si sta sviluppando in questi giorni è fondato sulla diversità sia nelle vedute che negli interessi. L’impostazione conferita dal governo è sicuramente frutto di una chiara linea teorica, per cui ad una maggiore flessibilità nella gestione del personale dovrebbe corrispondere una maggiore reattività verso le esigenze del mercato, che sono in continua evoluzione. Confindustria ovviamente vede con favore il piano di riforma, anche se non sono mancate le lamentele riguardo l’ammontare degli indennizzi: il massimale di 27 mensilità potrebbe rappresentare infatti un ostacolo insuperabile per le migliaia di piccole imprese italiane, che hanno meno di 50 dipendenti. La reazione dei sindacati, in particolare della CGIL, era invece facilmente prevedibile, anche perché il segretario Camusso aveva già affermato nei mesi precedenti che non ci sarebbe stato spazio per alcuna trattativa sui licenziamenti. A destabilizzare una situazione già critica è sopraggiunta la reazione dei partiti, in particolare del PD: Bersani, al pari del segretario CGIL, ha contestato l’operato nel governo soprattutto nel metodo, ritenuto autoritario. Monti e Fornero, che in un primo momento sembravano aver preso atto che un accordo con tutti semplicemente non è possibile, hanno oggi ammorbidito la loro posizione, ribadendo che il testo potrà essere migliorato in aula.

Al di là del predominio mediatico imposto dalla modifica dell’articolo 18, le proposte del governo coinvolgono altri settori critici del mondo del lavoro. Il punto principale riguarda l’introduzione di un nuovo sistema di sussidi alla disoccupazione, da implementarsi attraverso l’ASPI (Assicurazione Sociale Per l’Impiego), strumento con cui saranno erogati trasferimenti pari a circa 1.100 euro al mese per chi perde il posto di lavoro, per una durata di 12 mesi (18 per gli over 55), a scalare dopo i primi sei mesi. Nuovi vincoli saranno poi introdotti sui contratti a termine, compresi quelli intermittenti e a progetto: dopo 36 mesi di precariato in azienda scatterà l’obbligo di assunzione, mentre le retribuzioni mensili saranno maggiorate rispetto ai contratti a tempo indeterminato. Molto vago invece il riferimento ai contratti di apprendistato, che dovranno essere utilizzati per “scopi formativi” e non come strumento di flessibilità, mentre per quanto concerne i tirocini si punta all’eliminazione della gratuità.

Nel complesso la riforma proposta, nonostante l’indubbio impatto innovativo nei confronti di questioni bloccate ormai da troppo tempo, soffre di alcune criticità che potrebbero comprometterne i risultati. Sono in molti a sostenere, probabilmente a ragione, che l’attuale norma sui licenziamenti abbia avuto un’influenza limitata sugli scarsi risultati economici ed occupazionali riscontrati in Italia ormai da quindici anni. Il declino del nostro sistema produttivo, infatti, ha cause molto più profonde, in primis l’incapacità di adattamento verso un mercato prima europeo e poi globale. I precedenti tentativi di introduzione della flessibilità hanno poi generato una spirale al ribasso, per cui i salari medi sono in caduta da lungo tempo: sono mancati proprio i meccanismi correttivi, senza i quali il precariato è passato da meccanismo economico a piaga sociale. La proposta del ministro Fornero compie indubbiamente dei passi in tale direzione, nel tentativo di assicurare un certo grado di stabilità e di razionalizzare la miriade di forme contrattuali, sulle quali troppo spesso le imprese hanno speculato. Sembra tuttavia difficile che in Italia possano svilupparsi, in tempi ragionevoli, le condizioni necessarie per garantire la sostenibilità di questa riforma, in particole per quanto riguarda la formazione permanente: la carenza di grandi imprese implica necessariamente una scarsità di investimenti sotto l’aspetto delle risorse umane, per cui i processi di rinnovamento risultano più lenti e meno efficienti.

Alla luce degli ultimi sviluppi, sembra lecito chiedersi perché il governo abbia voluto modificare a tutti i costi una norma che rischia di spaccare il paese, quantomeno con una tempistica così accelerata. Se il primo passo fosse stato la riforma degli ammortizzatori sociali e del sistema contrattuale, tematiche ampiamente condivise dalle parti in causa, il clima sarebbe stato più congeniale per un eventuale accordo successivo. Anche dal punto di vista economico ed occupazionale, infatti, il rilancio della nostra economia passa da un ripensamento del sistema produttivo, che dovrebbe permettere ai lavoratori, specialmente i giovani, di sfruttare le proprie potenzialità: l’articolo 18 gioca un ruolo marginale in questo processo, ma con ogni probabilità il dibattito resterà fossilizzato ancora a lungo.

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