Anticipiamo, per gentile concessione dell’autore, a corredo del video che trovate sopra e per la gioia dell’Orso Ciro e di Pulcinella, questa nota che è in via di pubblicazione per il libro del Comitato di No al referendum sulla riforma costituzionale che sarà edito dalla casa editrice LICOSIA.
PS: “Il povero Piero” è una citazione dello splendido romanzo di Achille Campanile del 1959
L’AUTODICHIA NON LASCIA, ANZI RADDOPPIA
di Giampiero Buonomo
Nel mese in cui avrà luogo il voto sul testo della revisione costituzionale pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 88/2016, cade il trentennale dell’evento che cambiò la mia vita.
Nel 1986 il presidente del Senato Amintore Fanfani – come reazione alla decisione n. 2048/1986, con cui la Camera dei deputati aveva per la prima volta previsto il rimborso delle spese, sostenute dai singoli deputati per l’opera del “portaborse” – decise che il Senato avrebbe fatto “da sé e diversamente”: piuttosto che destinare soldi dell’Erario ad un collaboratore (scelto fiduciariamente dal parlamentare tra soggetti che non giurano fedeltà alla Repubblica), bandì una serie di concorsi per il personale di ruolo dell’Amministrazione del Senato.
Lessi l’annuncio in Gazzetta Ufficiale, compilai la domanda con l’Olivetti “studio 45” di mio padre, superai le prove scritte ed orali ed entrai in Senato.
I trent’anni che si compiono quest’anno sono un’occasione di nostalgia, ma non è per nostalgia che voterò NO al referendum confermativo di ottobre. Anzi.
Avendo da tempo sostenuto anche pubblicamente la tesi Bundesrat, avrei potuto anche convincermi che questo testo cerca di avvicinarsi a quel modello e che, pertanto, chi lo ha proposto merita fiducia. In sede applicativa, mi si dice, le sue incongruità, incompletezze, contraddizioni saranno corrette. Può essere. Ma per fare questo, bisognerebbe credere alla buona fede di chi lo ha proposto, di chi lo ha votato e di chi ne gestirà l’applicazione.
Io ho un potentissimo argomento per non credere a questa buona fede. Si fonda su una disposizione in un angolo in fondo al testo. Non un articolo, non un comma, ma una parte di comma. Ma a me basta.
Mentre tutti si accapigliano intorno all’elettività o meno del Senato, all’articolo 40 il comma 3 della revisione costituzionale Boschi/Renzi si conclude con le seguenti, misteriose parole: “Restano validi a ogni effetto i rapporti giuridici, attivi e passivi, instaurati anche con i terzi” dalle amministrazioni delle Camere.
Per decifrarle, seguiamo l’indicazione dei pochi lettori accurati di questa disposizione: “mentre l’autodichia (lo ripetiamo per l’ennesima volta, è il principio secondo il quale il Parlamento fa un po’ come gli pare) in questo modo inizia a vacillare per i dipendenti, rimane sempre più stabile per appalti e rapporti con terzi”[1].
Ecco che quindi ci avviciniamo ad una delle contraddizioni della revisione costituzionale: si parte dichiarando che è motivata dalla volontà di ridurre i costi della politica, e poi si fa il contrario.
Secondo Bruno Tinti, da quando la Corte Costituzionale sentenziò in favore dell’autodichia (sentenza n. 129 del 1981) “Parlamento e Presidenza consumano soldi come una fonderia e nessuno può dire niente”[2].
Se al vertice dello Stato esistono centri di spese non standardizzate, non è certo sopprimendo una di queste voci di spesa che le si comprime, perché si dilateranno altrove: si mantiene la promessa, invece, solo superando il sistema dell’autodichia, che quelle spese ha fondato, legittimato e perpetuato. Già la procedura di locazione di alcuni immobili aveva curiosamente scavalcato l’evidenza pubblica richiesta dalla normativa europea, con l’argomento dell’interlocutore necessitato: essa diede luogo alla vicenda che è stata comunemente ribattezzata degli “affitti d’oro”, che non ha certo giovato all’immagine del “Parlamento casa di vetro”.
Nella mia esperienza trentennale di consigliere parlamentare, mi sono convinto che l’autonomia delle Camere vale nella valutazione degli emendamenti inammissibili; vale nella decisione sulla corsia da attribuire ai disegni di legge; vale nella decisione sulla disciplina in Aula in caso di cartelloni inalberati. Non vale, secondo me, per la gara d’appalto sulla fornitura di carta igienica dei bagni del Palazzo….
Il fatto è che lo status “privilegiato” delle Camere (e degli organi costituzionali in genere) è come una piramide rovesciata: esso si fonda tutto su una prassi, su un retaggio di epoche lontane in cui a Palazzo c’erano i maggiordomi della Real Casa, assunti senza concorso e vestiti di livrea. Dalla loro (rectius dalla “nostra”) sottrazione al giudice esterno, i vertici politico/amministrativi delle Camere traggono la ragione per disciplinare in house vitalizi, appalti, consulenze ed in generale le attività che abbiano impatto sui terzi. Si tratta delle attività che non hanno alcuna attinenza diretta alla funzione: rapporti “attivi e passivi” in cui, cioè, le Camere agiscono come una qualsiasi pubblica amministrazione, ma che sono gestiti senza accesso diretto al giudice “esterno” (autodichìa) né al principio di legalità “esterna” (autocrinìa).
L’autodichia conviene solo a chi non vuole controlli veri, condotti da parte del giudice veramente terzo. Essa consente alle massime Istituzioni la scelta delle leggi da “importare” perché – all’interno delle loro quattro mura – non vi è alcuno scrutinio giurisdizionale di un organo esterno, ma solo una “giustizia domestica” esercitata da giudici interni all’Istituzione.
Le risposte di alcuni costituzionalisti al questionario della coraggiosa campagna NoAutodichia[3], sul punto, contengono rassicurazioni[4] che non mi rassicurano affatto: l’accademia avrà sicuramente raffinati modelli teorici (“nucleo duro della Costituzione”) per affermare che “la positivizzazione dell’autodichìa in una legge costituzionale, (…) potrebbe non bastare a porla al riparo da una dichiarazione di incostituzionalità in caso di contrasto con i principi fondamentali della Costituzione”. Ma la mia esperienza trentennale – in un’Amministrazione in cui il principio di legalità non accede automaticamente – mi dice altro: se questo testo entrasse in vigore, la strada per uscire dall’autocrinìa sarebbe assai più impervia di quella, già difficilissima, percorsa nei vent’anni dalla sentenza Mezzanotte sull’ingresso a Palazzo della “grande regola dello Stato di diritto”[5].
In effetti, l’occasione della revisione costituzionale era – sulla carta – un goal a porta vuota: bastava dire che i “rapporti giuridici, attivi e passivi, instaurati con i terzi” dalle amministrazioni parlamentari “restano efficaci”, salvo gli ovvi contenziosi qualora se ne dimostrasse la violazione dei criteri di legittimità che presiedono alla disciplina appaltistica. Tutto sommato, non si sarebbe trattato di travolgerli: si sarebbe semplicemente affermato un princìpio che vale per qualsiasi altra pubblica amministrazione, e cioè, per esempio, che – sulla scelta del contraente – lo scrutinio è effettuato dal TAR e non da un “giudice domestico”[6].
Ma questo non avviene nelle Camere e – se passa la revisione costituzionale – continuerà a non avvenire: la norma costituzionale, cioè il massimo grado normativo del nostro ordinamento, si spingerà fino ad affermare apoditticamente la validità di quei rapporti giuridici attivi e passivi. Il Revisore costituzionale entra, cioè, nel dominio della Giurisdizione, che è l’unica a valutare in concreto la riconducibilità di un negozio alla fattispecie legale; dall’approvazione di quel testo in poi, nessuno potrebbe quindi scardinare la legittimità (e persino la liceità) di quei negozi.
Nell’asseverare la “validità” dei rapporti tra le Camere ed i terzi, una serie di consulenze, convenzioni, contratti ed appalti – stretti sotto il regime attuale – vengono ad essere avallati da una disposizione posta al massimo rango della piramide normativa. Tutti coloro che ritengono di avere un titolo giuridico precario, con le Camere, cercheranno di ricadere sotto questa vera e propria sanatoria.
Sono fiero del mio rapporto di lavoro col Senato: per le gratificazioni che in questo trentennio mi ha dato, per la possibilità di accrescimento professionale e scientifico, per la stima che mi ha guadagnato da parte dei componenti degli organi collegiali che ho servito come segretario. Ma sono fiero in primo luogo di quella Gazzetta Ufficiale, firmata Fanfani e Gifuni, che ancora conservo e che mi chiamava da una remota contrada della provincia italiana a cimentarmi con un concorso pubblico per titoli ed esami. Non credo che sarebbe dignitoso – per chi vanta verso le Camere una fonte di legittimazione giuridica altrettanto solida – correre sotto quest’ombrello, per timore che l’ondata populistica dominante possa mettere in pericolo un suo rapporto giuridico “attivo o passivo” con il Parlamento. Saluto per questo le nobili parole pronunciate dall’onorevole Besostri[7].
Se l’iniziativa di “spacchettamento” dei quesiti – propugnata dai professori Pace e Lanchester – ha un senso, per me lo ha soltanto votando separatamente sull’articolo 40, comma 3, ultimo periodo del testo Boschi/Renzi. Se sulla scheda di ottobre non sarà consentito di votare separatamente su questa disposizione, la mia decisa opposizione si trasferirà all’intero testo.
Troppo forte è il sospetto che – nel toccare la Carta – non si sia dimostrato un “afflato costituente”. Se, invece di chiudere il rubinetto, si tappa solo uno dei possibili sbocchi della spesa, si perde l’opportunità di imporre regole veramente nuove per tutti. Un domani si avranno sempre nuovi “nemici” (l’altra Camera, o il Quirinale, o la Corte), da additare all’opinione pubblica (ed al populismo imperante) come artefici di sprechi intollerabili.
Meglio sopprimere l’elettività del Senato, piuttosto che riportare la legge nei Palazzi? Il Governo è più sensibile ad una nicchia della pubblica amministrazione romana, che alle promesse di moralizzazione della spesa? Perché mai?
Forse perché solo abolendo l’autodichia, il Parlamento si sarebbe liberato dal piombo che appesantisce le sue ali.
[1] Paola Alunni, La Mischia, Diario parlamentare, Goleminformazione.it, 11 luglio 2014.
[2] Fatto quotidiano, 17 marzo 2016.
[3] http://autodichia.blogspot.it/2016/04/docenti-universitari-rispondono-al.html. Vi si poneva – assai opportunamente – il seguente quesito: “È verosimile la lettura del disegno di legge Boschi-Renzi, secondo cui il suo articolo 40, comma 3 interverrebbe per dare rango costituzionale all’Autodichia e, così, frustrare l’effetto della pronuncia del 19 aprile prossimo?”. Il riferimento era all’udienza di trattazione del ricorso per conflitto tra poteri dello Stato, instaurato dalle sezioni unite della Corte di cassazione contro il Senato per l’autodichia nei confronti dei suoi dipendenti. La controversia fa seguito alla sentenza n. 120 del 2014, con cui la Corte costituzionale ha pronunciato, sul punto, le prime parole di verità: «Negli ordinamenti costituzionali a noi più vicini, come Francia, Germania, Regno Unito e Spagna, l’autodichia sui rapporti di lavoro con i dipendenti e sui rapporti con i terzi non è più prevista».
[4] PASTORE: “Il diritto di difesa e il diritto di accesso al giudice costituiscono dei diritti inviolabili della persona e, in quanto tali, nel loro nucleo essenziale non possono essere intaccati neppure da leggi costituzionali (come la Corte costituzionale ha chiarito nella storica sentenza n. 1146 del 1988). La positivizzazione dell’autodichìa in una legge costituzionale, pertanto, potrebbe non bastare a porla al riparo da una dichiarazione di incostituzionalità per contrasto con i principi fondamentali della Costituzione (c.d. nucleo duro della Costituzione).” CERRI: “Il comma 3 dell’art. 40 della legge di revisione costituzionale in itinere non riguarda la giurisdizione domestica ma l’esercizio del potere regolamentare in materia di impiego presso le camere. Il potere regolamentare pone le norme che il giudice (domestico od esterno che sia) dovrà applicare ed interpretare. Il giudice non può porre direttamente le norme.” BRUNETTI: “Pur potendo sussistere qualche dubbio al riguardo, non mi pare l’art. 40 della riforma costituzionale in itinere muti il quadro istituzionale sul punto:è vero che esso prevede l’integrazione funzionale delle amministrazioni delle camere, con un ruolo unico del personale delle due camere, le quali “adottano uno statuto unico del personale dipendente nel quale sono raccolte e coordinate le disposizioni già vigenti nei rispettivi ordinamenti e stabilite le procedure per le modificazioni successive da approvare in conformità ai principi di autonomia, imparzialità e accesso esclusivo e diretto con apposito concorso”, ma se la Corte stabilisse che non compete alle camere il potere di disciplinare il ricorso in via esclusiva dei dipendenti ai rimedi interni, il regolamento dovrebbe adeguarsi, permettendo il ricorso all’autorità giudiziaria, nel senso previsto dalla Corte.” CURRERI: “Non credo. A mio parere l’art. 40.3 del disegno di riforma dà una copertura costituzionale all’amministrazione delle camere. In tal senso la scelta d’intervenire con legge costituzionale, anziché ordinaria oppure con delibere monocamerali, rafforza la tesi che vuole tale amministrazione essere espressione dell’autonomia organizzativa delle Camere ricavabile dall’art. 64 Cost. Ciò premesso, però, non mi pare che tale copertura costituzionale possa giustificare di per sé l’autodichia quando essa presenta profili che compromettano l’esercizio di un diritto fondamentale quale quello alla difesa dei propri diritti e interessi legittimi (art. 24 Cost.) o pregiudicare l’attuazione dei principi inderogabili di terzietà ed indipendenza connaturati all’esercizio della funzione giurisdizionale.”
[5] Corte costituzionale, sentenza 2 novembre 1996, n. 379, relatore Carlo Mezzanotte.
[6] È avvenuto al Quirinale nel 2014, senza grande scandalo e senza che la Repubblica ne fosse travolta: un errore nel bando di gara sui servizi bancari, quando è stato accertato, ha prodotto l’annullamento dell’aggiudicazione (v. Consiglio di Stato, sez. IV – sentenza 18 novembre 2014, n. 5657).
[7] Felice Besostri, Riforme in stile “Tempa rossa”, 20 aprile 2016, consultabile alla URL http://politica.avvenirelavoratori.eu/2016/04/riforme-in-stile-tempa-rossa.html: «Qualcuno che se ne intende mi ha sussurrato che se quella norma venisse stralciata, io mi sarei giocato il vitalizio… Io dico che a maggior ragione questa “deforma costituzionale” va combattuta e battuta. E la battaglia in difesa della Costituzione vale per me più del vitalizio. È un grave scandalo. Non ho approfondito chi abbia introdotto la norma, non presente nel testo iniziale, ma intendo qui lanciare un appello alla decenza. E, ciò facendo, mi richiamo agli artt. 54 e 67 della Costituzione per i quali “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore” e “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione”». Per la cronaca, l’emendamento fu introdotto in Commissione referente al Senato con la riformulazione dell’emendamento 34. 26 del senatore Sposetti. Il testo iniziale del Senatore, che si innestava sulla proposta di una nuova Camera alta chiamata “Senato delle autonomie”, prevedeva (in aggiunta all’integrazione funzionale delle amministrazioni parlamentari ed all’adozione di uno statuto unico del personale) che “il Senato delle Autonomie subentra al Senato della Repubblica in tutti i rapporti attivi e passivi con i dipendenti e con i terzi”. La sua riformulazione – con l’emendamento 34. 26 (testo 2), a firma Sposetti, Fedeli, Uras, Zeller, Naccarato, Volpi, Luigi Marino, Mario Mauro, Liuzzi, D’Alì – invece perde ogni riferimento alla successione di un organo di nuova costituzione nei rapporti del precedente cessato, e di connota a tutti gli effetti come una norma a regime per le Camere esistenti, che non registrano alcuna cesura nella loro vita istituzionale futura. Neppure si parla più di subentro nei rapporti in essere, ma direttamente di validità dei rapporti esistenti (senza nemmeno prevedere un dies ad quem, come avviene in tutte le norme che prevedono ingerenze del Legislatore nella giurisdizione: v. articolo 79, terzo comma Cost.).