L’occasione della revisione costituzionale del disegno di legge Boschi/Renzi era l’ideale per riaffermare, anche all’interno dei Palazzi del potere, il principio di legalità nella sua più ampia accezione: è rimarchevole che ciò non avvenga, pur affrontandosi – per la prima volta in legge costituzionale – la materia delle amministrazioni parlamentari.
Poco dopo aver dato – al comma 2 dell’articolo 39 del disegno di legge costituzionale n. 1429-A – soluzione assai approssimativa alla questione del personale del disciolto CNEL (destinandolo alla Corte dei conti), il comma 3 si pone un problema derivante dal mutamento della “ragione sociale” del Senato, destinato a funzioni diverse nell’ambito di un sistema non direttamente elettivo e non più bicamerale perfetto.
La soluzione prospettata è stata quella dell’integrazione tra le amministrazioni delle due Camere, mediante servizi comuni, coordinamento nell’impiego delle risorse (compresa la costituzione di un ruolo unico dei dipendenti) e collaborazioni di vario genere: tutto questo, sotto un regime giuridico omogeneo, lo “statuto unico del personale dipendente”, che salvaguarda preziosissimi beni giuridici di queste particolarissime amministrazioni, cioè l’autonomia (di cui l’Esecutivo ha dimostrato essere non sempre entusiasta, come ha dimostrato la polemica nella vicenda degli ottanta euro), l’imparzialità dall’utenza politica e l’accesso esclusivo e diretto per concorso.
I primi problemi, con questa formulazione, dipendono dal fatto che l’integrazione è definita solo “funzionale”, come se su singoli profili amministrativi le dirigenze delle due Camere si riservassero sempre l’ultima parola: nel senso di andare l’una in un percorso diverso dall’altra, e (peggio ancora) di andare ambedue in senso diverso rispetto alla generalità della disciplina del pubblico impiego.
Tutte cose che non soddisfano la richiesta di “mettersi nell’ottica di favorire un piano di rientro nella legalità di tutti gli organi costituzionali” avanzata ripetutamente in Parlamento e nel Paese; il che, peraltro, si presta anche all’ulteriore effetto di rendere fragili tutte le misure di contenimento delle dinamiche retributive dei dipendenti ereditate dalla precedente concezione amministrativa: quanto si apprende ancora di recente dalla stampa, intorno alle decisioni che gli Uffici di Presidenza delle Camere intendono assumere sull’applicazione del decreto n. 66 sul tetto retributivo ai dipendenti degli organi costituzionali, sarebbe il classico caso di moot statement, assunto in modo volutamente precario per soddisfare l’opinione pubblica, salvo poi vedersela annullare tra qualche mese, per inidoneità dello strumento prescelto (la delibera interna invece della legge) a violare la riserva di legge di cui all’articolo 23 della Costituzione.
Ma, soprattutto, nell’emendamento accolto in sede referente, si colgono ulteriori commistioni con l’irrisolto problema dei terzi che vengono in relazione con il Parlamento.
I primi di essi, che vengono menzionati espressamente, sono i titolari di “contratti di lavoro alle dipendenze delle formazioni organizzate dei membri del Parlamento, previste dai regolamenti”: le relative norme verrebbero “regolate di comune accordo” dalle Camere.
Anche qui ottima notizia, che avvicina molto al modello del Parlamento europeo il nostro scalcinato modello di trattamento dei portaborse, sin qui più simile al caporalato della Capitanata che ad un negozio giuridico stipulato da un notaio alsaziano.
Ma la domanda su chi sia il giudice competente – in caso di contenzioso – anche qui manca di una risposta.
A che serva poi questa risposta (e la sua assenza), si capisce leggendo l’ultimo rigo del comma 3, secondo cui tutti i “rapporti giuridici, attivi e passivi, instaurati anche con i terzi” dalle amministrazioni parlamentari “restano validi ad ogni effetto”.
Non, si badi bene, “restano efficaci”: la norma costituzionale, cioè il massimo grado normativo del nostro ordinamento, si spinge fino ad affermarne apoditticamente la validità.
Entra, cioè, nel dominio della Giurisdizione, che è l’unica a scrutinare in concreto la riconducibilità di un negozio alla fattispecie legale; dall’approvazione di quel testo in poi, nessuno potrebbe quindi scardinare la legittimità (e persino la liceità) di quei negozi.
Ma di che rapporti giuridici si tratta?
Va anzitutto ricordato che la riserva di competenza dell’articolo 12 dei due regolamenti parlamentari (dal 1998 alla Camera e dal 2005 al Senato ) è interpretata nel senso sottrae al giudice “esterno” la cognizione anche dei rapporti tra le Camere ed i terzi.
Negli atti del Seminario di Bruxelles sulle relazioni tra Parlamento e Potere giudiziario (8-9 novembre 2007), la definizione di “terzi” – che vengano in relazione con le amministrazioni degli organi parlamentari, per atti extrafunzionali – fu oggetto di un questionario rivolto dall’Unione a tutte le istituzioni europee: la risposta fu la più varia, a partire dai cittadini che chiedevano trasparenza sulle spese dei partiti e dei gruppi, ai fornitori di beni e servizi, ai richiedenti accesso ai documenti, a chi citava per danno un agente parlamentare per una sua condotta di diritto comune (il classico cornicione caduto sul passante, o il motociclista coinvolto in un incidente stradale), ecc. ecc..
La situazione italiana spiccava invece per la sua unicità.
Nella parte IV del rapporto conclusivo, in premessa, si leggeva che «the Italian representative described the principle of “autodichia”»; la costernazione dei redattori del rapporto è evidente è crescente laddove si precisa che – anche per le attività che abbiano impatto sui terzi e che non abbiano alcuna attinenza alla funzione (in cui, cioè, le Camere agiscano come una qualsiasi pubblica amministrazione) – non vi è alcuno scrutinio giurisdizionale di un organo terzo esterno all’Istituzione, ma solo una giustizia domestica esercitata da giudici interni all’Amministrazione.
Rispetto alla disamina effettuata dalla Camera cinque anni prima, nel 2007 era venuta meno anche l’unica altra eccezione, rappresentata dal Parlamento finlandese (citato nel resoconto stenografico dell’Assemblea della Camera, XIV legislatura, seduta n. 162 del 20/6/2002, nell’intervento del deputato Nitto Palma).
Proprio in quell’occasione il medesimo oratore rendeva atto dell’esito della disamina comparatistica disponibile (“tanto ciò è vero che, in tutti gli altri parlamenti europei, i dipendenti delle amministrazioni parlamentari si rivolgono al giudice ordinario o a quello amministrativo”), in termini non dissimili da quelli che avrebbero poi caratterizzato la sentenza n. 120 del 2014 della Corte costituzionale (“negli ordinamenti costituzionali a noi più vicini, come Francia, Germania, Regno Unito e Spagna, l’autodichia sui rapporti di lavoro con i dipendenti e sui rapporti con i terzi non è più prevista”).
Qui la peggiore delle prospettive si materializza: non soltanto il Legislatore costituzionale non “lascia” sull’autodichia, ma addirittura “raddoppia”.
Nell’asseverare la “validità” dei rapporti tra le Camere ed i terzi, una serie di convenzioni, contratti ed appalti stretti sotto il regime precedente alla sentenza n. 120 vengono ad essere avallati da una disposizione posta al massimo rango della piramide normativa.
Chissà che tra questi rapporti non debba rientrare anche quello con gli ex parlamentari, titolari di vitalizi che con sempre maggiore frequenza con legge ordinaria si cerca di ridurre, tassare o revocare, e che così diverrebbero invece inattaccabili….