Il 6 Settembre 2012 è stata depositata la sentenza n. 14936/12 della Cassazione (il testo integrale è leggibile dei documenti correlati a questo articolo) in tema di responsabilità dell’avvocato, che sembra travolgere il principio per cui, chi esercita la professione forense, è tenuto solo ad una obbligazione di mezzi, ma non di risultato.
La stretta di vite dei giudici della Corte Suprema, non può non creare preoccupazione nell’ambito forense, laddove in un procedimento di notevole complessità, è stata ravvisata la colpa dell’avvocato per determinate scelte difensive, non condivise dal Tribunale.
La vicenda da cui trae origine la decisione della Corte di Cassazione, che singolarmente entra nel merito delle decisioni strategiche e processuali dell’avvocato, riguarda un caso abbastanza frequente.
Si rivolgeva al professionista un cliente, lamentando di aver promesso di acquistare una serie di immobili, avendone acquisito il possesso e di dover versare il saldo del prezzo, tuttavia la somma che avrebbe dovuto versare non veniva, dal cliente (l’acquirente), ritenuta congrua.
Infatti il promissario acquirente rilevava che gli immobili erano viziati, mancavano numerose opere di completamento e sostanzialmente egli non era più disposto a versare il saldo nei termini pattuiti, pur essendo interessato all’acquisto.
L’AZIONE PROPOSTA DALL’AVVOCATO
Il legale diligentemente consigliava al cliente di proporre un’azione ex art. 2932 c.c. richiedendo il trasferimento di proprietà coattivo delle unità abitative promesse in vendita, a mezzo sentenza del Tribunale.
Poiché necessitavano importanti somme per completare le opere, il cliente si mostrava disponibile a versare solo una parte degli importi promessi, ma non l’intera cifra pattuita nel preliminare.
In tal senso il legale si recava presso il notaio ed offriva la somma concordata con il cliente, che non veniva tuttavia accettata dalla promittente venditrice.
Seguivano delle contestazioni scritte nelle quali l’avvocato con propria lettera, confermava la disponibilità a pagare una cifra inferiore rispetto a quella pattuita contrattualmente.
Non essendosi raggiunto l’accordo, il legale proponeva dunque l’azione per il trasferimento coattivo della proprietà, chiedendo che il Tribunale pronunciasse detto trasferimento con l’ordine al Conservatore dei Registri Immobiliari, disponendo che il proprio cliente versasse quanto ritenuto equo dal giudice.
In sede di precisazione delle conclusioni, richiedeva che il Tribunale con la sentenza che avrebbe disposto il trasferimento di proprietà, riducesse la cifra.
A tale eccezione del legale, il difensore avversario dichiarava di non accettare il contraddittorio su questo punto, non facendo parte la richiesta di riduzione della cifra della domanda iniziale.
LA SENTENZA DEL TRIBUNALE
Il Tribunale emetteva una sentenza disastrosa per il cliente dell’avvocato, dichiarando che il preliminare di compravendita dovesse essere ritenuto risolto per non avere questi versato l’intero prezzo pattuito contrattualmente.
Ciò in quanto per ottenere una riduzione del prezzo, la domanda andava introdotta ab origine unitamente all’azione ex art. 2932 c.c., non potendosi ammettere la domanda di riduzione del prezzo per il risarcimento solo in corso di causa e comunque precisando che le due domande (trasferimento di proprietà e riduzione del prezzo) potevano essere proposte contemporaneamente.
Il Tribunale anzi, non solo dichiarava risolti i contratti per colpa del promissario acquirente, ma condannava questi a rilasciare gli immobili e a restituire al promittente venditore i canoni di locazione dovuti per l’occupazione dei beni avvenuta a questo punto sine titulo in una cifra di ben 160 milioni.
Avverso la sentenza proponeva appello il cliente dell’avvocato dopo aver cambiato difensore.
La Corte di Appello confermava la sentenza negativa del Tribunale.
IL TENTATIVO DI RIVALERSI SUL PROPRIO PATRONO
A questo punto il cliente citava in giudizio l’avvocato, ritenendo di essere stato mal difeso, nel senso che la scelta processuale di aver agito ex art. 2932 c.c. per ottenere il trasferimento di proprietà, proponendo una somma più bassa, senza però contestualmente aver proposto l’azione di riduzione del prezzo, come ammetteva la giurisprudenza della Suprema Corte di pochi anni precedente al giudizio promosso, fosse la ragione per la quale egli aveva perso la causa. In sostanza, secondo il cliente, la colpa era dell’avvocato che aveva adottato uno schema difensivo sbagliato.
Il Tribunale Civile tuttavia, rigettava la domanda del cliente contro il proprio ex difensore, ritenendo che il mancato accoglimento della domanda non fosse tanto da imputarsi alla linea strategica scelta dal legale, bensì al fatto che il cliente avesse offerto una somma eccessivamente inferiore rispetto a quanto pattuito.
Il danneggiato si rivolgeva a questo punto alla Corte di Appello, la quale confermava la sentenza del Tribunale e rilevava che se il cliente avesse offerto una somma maggiore, avrebbe vinto la causa e dunque il rigetto non era dipeso dal solo fatto che l’avvocato non avesse promosso contestualmente l’azione di riduzione, quanto dalla mancata messa a disposizione della somma pattuita contrattualmente.
IL RICORSO ALLA CORTE DI CASSAZIONE
Il danneggiato non pago delle decisioni di primo e secondo grado ricorreva alla Corte Suprema e anche il Procuratore presso la Corte di Cassazione concludeva per la conferma delle decisioni del Tribunale della Corte di Appello e cioè per l’inammissibilità dell’impugnazione alla Corte Suprema, e in subordine per il rigetto.
Sorprendentemente la Cassazione viceversa ha condannato pesantemente il legale, entrando nel merito delle decisioni processuali da lui assunte, rilevando che vi era stata una insufficiente ed inadeguata motivazione delle decisioni di primo e di secondo grado.
Questo in quanto l’avvocato avrebbe dovuto tener conto che, poco prima della proposizione del giudizio, la Corte di Cassazione aveva già confermato il principio, a sezioni unite, secondo cui il promissario acquirente, nei confronti del promittente venditore inadempiente alla vendita, potesse agire sia con l’azione ex art. 2932 c.c. (trasferimento di proprietà), sia contestualmente e cumulativamente richiedendo la riduzione del prezzo, tenuto conto che il particolare rimedio offerto dall’art. 2932 c.c. non esauriva la tutela da parte adempiente, ben potendosi unire entrambe le azioni.
L’avvocato non si sarebbe dunque attenuto a tale orientamento, e non avrebbe proposto contestualmente l’azione di riduzione.
Inoltre la Cassazione rileva (ciò forzando quanto rilevato in precedenza dai giudici di primo e secondo grado), che comunque la scelta di offrire una somma inferiore, doveva pur sempre farsi risalire al legale, sia perché deve presumersi che il cliente fosse sprovvisto di nozioni giuridiche adeguate e quindi le scelte tecniche erano demandate dall’avvocato, sia perché lo stesso legale aveva inviato la lettera con l’offerta ridotta, per di più solo a propria firma (i giudici precedenti avevano comunque fatto risalire la scelta al rappresentato).
Conclusivamente la Corte riteneva responsabile l’avvocato della scelta processuale errata.
SI SCIVOLA DALL’OBBLIGAZIONE DI MEZZI ALL’OBBLIGAZIONE DI RISULTATO
La decisione della Cassazione, segue il filone di un irrigidimento nei confronti dei legali da parte della Corte Suprema e non sfuggirà tra le righe della decisione come l’orientamento dei giudici di legittimità vada ad insinuarsi anche in quello che era rimasto un feudo degli avvocati, e cioè la libera facoltà di scelta processuale.
Il comportamento del legale imputato in questo procedimento e condannato sorprendentemente e in modo economicamente rilevante, con tutte le conseguenze facilmente immaginabili sulla vita personale e professionale, in realtà sarebbe stato identico a quello di molti altri legali, posti di fronte ad una fattispecie similare.
La cosa che stupisce, oltre il fatto che la Corte è entrata nel merito della discrezionalità dell’avvocato, è anche il fatto che abbia a lui imputato la scelta del cliente circa l’entità delle somme da offrire alla controparte, laddove così facendo, si finirà per imputare all’avvocato anche qualunque decisione assunta autonomamente dal proprio assistito.
La peculiarità della professione forense, a differenza delle altre professioni intellettuali, è quella per cui, in un dissidio giudiziario, una delle due parti è comunque e necessariamente destinata a soccombere.
E se una parte soccombe, e il giudice decide in modo difforme da quanto sostenuto dall’avvocato, non vi è dubbio che in qualche modo egli abbia sbagliato, almeno sotto il profilo della scelta difensiva.
Se il filone che verrà seguito dalla Corte Suprema è questo, considerando anche l’obbligo assicurativo imposto dalla normativa, (con la pessima imposizione di comunicare il nominativo dell’assicuratore e l’entità della polizza al cliente all’inizio del rapporto di difesa), chiaramente il patrocinato avrà due chances, la prima di rivalersi sulla controparte, e in caso di insuccesso di rivalersi sull’avvocato.
Cassazione, sezione terza civile, sentenza 14936 del 6 settembre 2012, Responsabilità dell’avvocato