Riuscirà il giovane premier a piegare le posizioni feudali che regnano in Italia, tra dirigenti, parti sociali e gruppi di pressione? Molto si scoprirà a giugno con il Documento di programmazione economica.
Le misure annunciate dal premier Renzi sono tante, forse addirittura troppe, ma il diritto a promettere, nel nostro Paese, non è mai stato negato a nessuno. L’esito della recente conferenza stampa post-CdM ha avuto quantomeno il pregio di rappresentare un benchmark, un parametro sul quale poter agilmente giudicare l’operato di questo esecutivo.
Renzi, in altre parole, si è sbilanciato e non poco, sbandierando riforme e miliardi come fossero acqua fresca, immemore del fatto che i suoi predecessori non hanno mantenuto promesse ben più abbordabili in tempi così stretti.
D’altra parte, la propaganda renziana ha puntato forte su rapidità e determinatezza, principi ai quali il governo dei “giovani” non può derogare. Lo stile, poi, è stato senza dubbio in linea con le pretese di dinamicità: presentazione in slide, pochissime parole per descrivere le misure e tanti, tantissimi slogan.
A fronte di questa “aria di cambiamento”, occorre comunque fare i conti con l’Europa, la quale non può far altro che alzare le antenne quando Renzi enumera le cifre che intende spendere (o le tasse che vuole tagliare).
I primi segnali non sono certo incoraggianti: l’ultimo bollettino della BCE, guidata dal connazionale Draghi, evidenzia il mancato raggiungimento degli obiettivi concordati con Bruxelles.
Il più macroscopico riguarda il rapporto deficit/Pil, più alto di circa mezzo percentuale rispetto al target del 2,6%.
Il debito poi continua inesorabilmente ad aumentare, mentre la disoccupazione galoppa. Sul fronte dei conti pubblici, insomma, a Bruxelles come a Roma ci si chiede dove intende prendere i soldi il premier, anche perché alcuni interventi sembrano particolarmente onerosi.
Lo sblocco di 68 miliardi di debiti della P.a. entro luglio rappresenta la punta dell’iceberg, ma anche i mille euro annuali nella busta paga di chi ne guadagna meno di 1.500 mensili suscita non poche perplessità.
A questi vanno aggiunti il mezzo miliardo per il credito d’imposta per i giovani ricercatori, il piano casa, la riduzione dell’Irap del 10%, un miliardo e mezzo per la ristrutturazione delle scuole, 500 milioni per lo sviluppo delle imprese sociali ed oltre un miliardo per il fondo di garanzia per i giovani.
La promessa dell’assegno di disoccupazione per tutti a partire dal prossimo anno è la ciliegina sulla torta.
Le idee sono anche buone, ma i meno sprovveduti non possono nascondere un certo scetticismo, abituati ad ascoltare simili proclami da decenni.
La domanda, semplice e spontanea, è: ma chi paga?
I politici, interpellati sul tema, tendono a rispondere senza nascondere un certo fastidio, quasi fosse un dubbio inopportuno, perché i soldi non sono mai il problema, fino a quando non bisogna presentare il conto.
Sul fronte risorse, le spiegazioni fornite da Renzi e Padoan sono quantomeno generiche: un incremento dal 20% al 26% sulle rendite finanziare (titoli di stato esclusi), che dovrebbe coprire la riduzione Irap; l’ennesima spending review, da cui ci si aspetta un risparmio di 3 miliardi («che possono diventare 7» secondo il premier, non è chiaro come); la riduzione dello spread, evento esogeno caduto come una benedizione; dulcis in fundo, lo sforamento del target sul deficit, comunque nei limiti del 3%.
Il vero nodo riguarda, insomma, gli ultimi due punti menzionati, perché senza una deroga al Patto di Stabilità l’applicazione delle misure sembra francamente illusoria.
Sarà dunque necessario fare i conti con la Commissione, anche se la presidenza italiana al Consiglio nel secondo semestre potrebbe essere una carta da giocare in un’ottica di approvazione.
Quantificare le risorse da “liberare” tramite uno sforamento del deficit, previsto anche quest’anno al 2,6%, non è semplice, essendo dipendente dall’andamento del Pil, notoriamente in ristagno se non negativo, almeno negli ultimi anni.
Un allentamento dello 0,4%, che sulla base dei calcoli odierni ci porterebbe al limite del 3%, equivale a circa 6-7 miliardi di euro, anche se tali numeri possono mutare repentinamente.
La Commissione, dal canto suo, si è già dichiarata a favore di alcune proposte di Renzi, tra cui il taglio del cuneo fiscale ed il Job Act, ma la musica non cambia: bisogna rispettare il piano di rientro, pena l’applicazione della procedura d’infrazione.
La spavalderia mostrata dal premier, che non vuole “prendere lezioni” dall’Europa, non è una strategia che paga, visto che sulla base dei trattati attuali Bruxelles ha pieno diritto ad esercitare questo ruolo.
Se non ci sta bene, occorre discuterne nelle sedi opportune, non su Twitter, a maggior ragione quando è chiaro che i nostri conti pubblici stanno migliorando solamente grazie al mutato contesto economico europeo ed all’intervento massiccio della BCE.
Il decantato risparmio da riduzione dello spread è imputabile esclusivamente a questi fattori.
Il muro di Bruxelles, insomma, si può anche scalfire, specie in questo momento di incertezza politica dovuta alle imminenti elezioni ed alla fine del mandato della Commissione in carica.
Le politiche di austerity, inoltre, hanno mostrato evidenti segni di inefficacia, specie nei paesi sotto “programma”, come Grecia e Portogallo, dove la recessione non accenna a fermarsi.
Alle parole, tuttavia, devono seguire i fatti: la prova del nove è senza dubbio il Semestre Europeo, con la presentazione del Documento di Economia e Finanza 2014 in aprile e le conseguenti raccomandazioni del Consiglio in giugno.
Il Consiglio dei Ministri non ha sostanzialmente deciso nulla, visto che venti diapositive in conferenza stampa non rappresentano un intervento normativo.
Al di là del giudizio formale dei tecnici di Bruxelles o Francoforte, sarà necessario convincere i leader politici europei della bontà (e sostenibilità) del progetto di Renzi, perché l’Italia non può permettersi di perdere nuovamente la fiducia internazionale, che pesa sul costo del debito e quindi sulla possibilità di finanziare le misure di stimolo alla crescita.
A fronte di questi nodi così complessi, un misto di economia e politica estera, fa quasi ridere la messa all’asta di cento auto blu, segnale lanciato a fini prettamente elettorali: i passeggeri di queste auto prenderanno il taxi (sempre a spese del contribuente), sai che differenza.
L’Europa, infine, potrebbe rivelarsi uno scoglio tutto sommato facile da aggirare, se paragonato alle barriere che Renzi deve affrontare all’interno.
Il suo governo si regge su una serie di traballanti equilibri politici, mentre l’attuazione pratica delle riforme deve necessariamente passare per una burocrazia ministeriale ingessata, di stampo quasi medievale.
Riuscirà il premier a piegare le posizioni feudali che regnano in Italia, tra dirigenti, parti sociali e gruppi di pressione?
Quando si è giovani, d’altra parte, niente sembra impossibile.