“Abroghiamo la casta”, “Basta con gli stipendi d’oro ai parlamentari”, “Referendum anticasta”: sono soltanto alcuni degli slogan, carichi d’indignazione, che in queste settimane circolano sul web, e intasano le caselle di posta elettronica, e che da un lato invitano a firmare per il referendum popolare lanciato nei mesci scorsi dall’Unione Popolare (un movimento che ha come obiettivo, sostanzialmente, quello di migliorare il mondo), e dall’altro sputano veleno contro la “stampa asservita ai partiti” che non parla di questa iniziativa che potrebbe dare una svolta epocale all’Italia e si chiedono, allusivamente e maliziosamente, come mai “nessun comune pubblicizza la possibilità di firmare questo referendum”.
In realtà, chi avesse letto i giornali tutti i giorni, e ricevesse i notiziari delle agenzie di stampa, si accorgerebbe che successivamente alla presentazione del referendum d’iniziativa popolare diversi organi di stampa hanno dato la notizia anche intervistando il portavoce del movimento, Vito Pucci, e la segretaria nazionale – ex Udc – Maria Di Prato.
Per quanto riguarda invece la “pubblicità” da parte dei comuni, va detto che tutti i comuni dove la richiesta di referendum è stata depositata dal comitato promotore, e dove quindi è possibile per chi lo volesse firmare a sostegno, hanno regolarmente inserito la notizia nei propri portali on line. Non è prevista altra pubblicità a meno che a farla non siano gli stessi promotori. In teoria sarebbe il “bravo cittadino” tenuto a recarsi di tanto in tanto agli uffici comunali per chiedere: “novità? Cosa c’è da firmare oggi?”. Può piacere o meno, ma questa è la regola.
In sostanza, questo referendum che si ritiene da più parti essere stato “nascosto” dai “poteri forti” perché se passasse metterebbe in ginocchio la “casta”, prevede l’abrogazione dell’articolo 2 della legge 1261 del 1965 (il testo integrale è nei documenti allegati a questo articolo). Quella legge, cioè, che – nel rispetto dell’articolo 69 della Costituzione – stabilisce che i parlamentari abbiano diritto a un’indennità, prevede cosa sia cumulabile con questa indennità e cosa no, e – all’articolo 2, appunto – stabilisce anche che ai parlamentari spetta una “diaria per il soggiorno a Roma” che si aggiunge all’indennità vera e propria (che, come ormai quasi tutti sanno, è pari allo stipendio di un magistrato con funzioni di presidente di sezione della Corte di Cassazione).
La legge, inoltre, rinvia ai presidenti dei due rami del Parlamento il compito di stabilire importi, modalità, ritenute fiscali, versamenti al fondo previdenziale di categoria, accantonamenti per il fondo pensione e così via. In pratica, la legge non dà… i numeri. Non fornisce cifre: quelle le stabiliscono i presidenti delle Camere.
Nella pratica, la diaria per il soggiorno a Roma è fissata, oggi, a circa 3mila e 500 euro mensili. E’ un po’ alta, per usare un eufemismo, e non ci sarebbe nulla di male – anzi, sarebbe consigliabile – che in tempi di crisi venisse abolita o quantomeno ridotta.
Il referendum “anticasta” è in realtà un referendum anti-diaria. Si propone l’abrogazione del solo articolo 2 della legge. Con la conseguenza che, se venissero raccolte le 500mila firme necessarie entro il 31 luglio prossimo, e se venisse poi accettato e se ne prevedesse la votazione, e se la votazione andasse bene, un parlamentare italiano – un esponente della casta, per dirla con i blog – invece di percepire circa 18mila euro netti al mese considerando gettoni di commissione e varie altre voci che non vi sto a dire (lo stipendio base sarebbe di 5mila), ne riceverebbe “appena” 15mila. Una vera tragedia per la casta.
Ma con ciò non si vuol qui certo sostenere che il referendum sia inutile. Se davvero fosse accettato e fosse votato, il valore politico di un segnale del genere sarebbe indubbiamente molto forte e non potrebbe essere (in teoria) ignorato. Ma a doverne tenere conto sarebbe la stessa “casta”…
Intanto però, dicono i promotori, almeno lo Stato risparmierà 3500 euro per i circa 900 tra deputati e senatori. A conti fatti, circa 35 milioni di euro l’anno. Non è poco, anzi. Ma in assoluto non si può dire che sia un taglio risolutivo: basti pensare che solo dal comune di Modena lo Stato, per la quota di sua competenza, incassa 46milioni di euro solo per l’Imu. E pure si è detto da più parti che la reintroduzione della tassa sulla prima casa, per quanto odiosa, non sia risolutiva. Ma questo non vuol dire niente, certo, perché non esiste un sistema per risolvere in un colpo solo i problemi di bilancio: se non si comincia a tagliare un po’ qui e un po’ lì non si arriva mai da nessuna parte.
Dunque il referendum anticasta per togliere alla casta dei parlamentari il 20 per cento scarso delle indennità meriterebbe comunque di essere sottoscritto. Anche se, inutile nasconderselo, dal momento che la legge – che resta in vigore in quanto tale perché l’abrogazione riguarderebbe solo l’articolo 2 – rinvia ai regolamenti delle Camere per le modalità operative, nulla impedisce che una volta abrogato l’articolo 2 i regolamenti ripristinino la diaria con norma, per l’appunto, regolamentare e dunque sottratta a futuri referendum.
Sia come sia, l’obiettivo è raggiungere 500mila firme entro i prossimi 15 giorni (pare che ne manchino un po’ meno della metà ma non è semplice, adesso, fare i conti anche perché non è detto che tutte le firme siano poi convalidate).
Una volta raggiunto questo obiettivo bisognerà aspettare la decisione circa la sua ammissibilità. Se tutto va bene una decisione che potrebbe aversi entro l’autunno. Poi però sempre la “casta” deve decidere quando fissare la votazione. E per legge non si possono svolgere referendum nell’anno che precede le consultazioni elettorali politiche. E allora nella migliore delle ipotesi si andrà a votare, per il referendum anticasta che farà risparmiare allo Stato, di fatto, una somma pari allo stipendio di UN SOLO dirigente superiore della pubblica amministrazione, non prima della primavera 2014.
Chissà: forse per dare un segnale politico sarebbe più utile svegliarsi dal sonno della ragione nel quale tutti (anche quelli che si indignano, perché altrimenti i conti non tornano) sono precipitati da qualche decennio a questa parte.
Legge 31 ottobre 1965 numero 1261, indennità parlamentari