Martedì scorso è stato presentato presso la sede dell’Istat il rapporto dell’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) dal titolo “sempre più divisi: perché le diseguaglianze continuano a crescere”.
Lo studio arriva nel dibattito economico italiano in un momento particolarmente significativo dal punto di vista dell’equità, poiché la sensibilità dei cittadini sul tema della distribuzione del reddito è stata ripetutamente sollecitata sia dalla “manovra di natale” che dal cosiddetto decreto “cresci-Italia” sulle liberalizzazioni. Alla presentazione è poi intervenuto il Ministro Fornero, che sta lavorando ad una riforma del mercato del lavoro “basata sull’equità”, dimostrando con le sue parole la volontà del governo di affrontare la questione, anche se fino ad ora le misure adottate lasciano qualche perplessità sotto tale aspetto.
Per comprendere a fondo il contenuto del rapporto OCSE è necessario mettersi d’accordo sul concetto di uguaglianza, che spesso viene declinato ad uso e consumo di alcuni strati della società, nel tentativo di offuscare la realtà e di sedare sul nascere eventuali critiche alle politiche messe in campo. Il “grado” di uguaglianza è misurato sostanzialmente sulla base del reddito procapite, di cui però esistono diverse metodologie di calcolo. In questo studio si adottano i criteri del reddito di “mercato”, assimilabile al prodotto complessivo di un individuo, non ancora tassato ed al netto dei trasferimenti, e del reddito “disponibile”, ovvero ciò che rimane dopo la tassazione e comprensivo dei trasferimenti statali. L’utilizzo contemporaneo dei due indicatori è fondamentale per due ragioni: da un lato è utile per apprezzare le differenze sul piano internazionale, in quanto due paesi possono riportare redditi disponibili simili e redditi da mercato discrepanti o viceversa, mentre dall’altro è possibile valutare l’incidenza nel tempo delle politiche di welfare. Sotto questo aspetto il dato rilevante è quello sui trasferimenti pubblici, che possono essere costituiti da erogazioni monetarie (assegni familiari e sussidi di disoccupazione) o da servizi (ospedali e scuole gratuite). Il concetto alla base delle stime è che i servizi pubblici aumentano il reddito disponibile: una famiglia che non deve pagare per mandare a scuola i propri figli può utilizzare i soldi “risparmiati” in altro modo. Alla luce degli indicatori individuati, si può valutare la distribuzione del reddito tra la popolazione di uno stesso paese attraverso il coefficiente di Gini, che per inciso prende il nome dal suo creatore italiano. L’indice, variando tra 0 ed 1, fornisce una stima della disuguaglianza tra i redditi: se vale 0, significa che tutti percepiscono lo stesso reddito, mentre se vale 1 esiste un solo individuo che possiede l’intero prodotto di un paese.
L’incipit della nota sull’Italia (in allegato) non è certo incoraggiante: “(…) la disuguaglianza dei redditi in Italia è superiore alla media dei Paesi OCSE, più elevata che in Spagna ma inferiore che in Portogallo e nel Regno Unito (…) Nel 2008, il reddito medio del 10% più ricco degli italiani era di 49.300 euro, dieci volte superiore al reddito medio del 10% più povero (4.877 euro) indicando un aumento della disuguaglianza rispetto al rapporto di 8 a 1 di metà degli anni Ottanta”. Per quanto riguarda il nostro paese, lo studio si concentra appunto sulle variazioni riscontrate tra il 1980 ed il 2008: in questo periodo l’indice di Gini sul reddito disponibile è passato da dallo 0,31 allo 0,34, con una media OCSE poco sopra lo 0,29. L’indice sale a dismisura se si considera la sola distribuzione del reddito prodotto, superando il valore di 0,45 (0,40 media OCSE). Questo dato fornisce un’informazione decisiva sull’importanza del welfare nel nostro paese, in quanto i trasferimenti, composti al 90% da spese sanitarie e scolastiche, riducono la disuguaglianza del 30%: in assenza di tali meccanismi gratuiti la forbice tra ricchi e poveri sarebbe simile a quella registrati negli USA o nel Regno Unito, dove però il sistema è bilanciato da elevata flessibilità lavorativa e maggiore mobilità sociale.
Osservando poi la distribuzione del reddito in percentuale rispetto alla popolazione, il documento conferma le convinzioni di molti, per cui negli anni i ricchi sono diventati sempre più ricchi: “L’1% più ricco degli italiani ha visto la proporzione del proprio reddito aumentare del 7% del reddito totale nel 1980 fino a quasi del 10% nel 2008. La proporzione di reddito detenuta dallo 0,1% della popolazione è aumentata da 1,8% a 2,6% nel 2004. Allo stesso tempo, le aliquote marginali d’imposta sui redditi più alti si sono quasi dimezzate passando dal 72% nel 1981 al 43% nel 2010”. La riduzione delle imposte sui redditi alti discende da una linea economica neoliberista ben precisa, secondo cui un’elevata tassazione dei ricchi frena le capacità di investimento del paese limitandone le potenzialità e frenando la crescita economica. Il tempo sta dimostrando che questo principio non è a priori efficace, in quanto il Pil non è aumentato secondo le aspettative: inoltre, osservando i dati sui paesi scandinavi, caratterizzati da elevata tassazione e maggiore equità distributiva, si riscontra un valido modello alternativo.
Il documento fornisce anche alcune indicazioni di massima per eventuali politiche redistributive, anche se piuttosto vaghe. Si punta soprattutto sull’incremento dell’occupazione attraverso riforme volte ad agevolare l’ingresso nel mercato del lavoro, focalizzando in particolar modo l’attenzione sulla formazione permanente delle risorse umane. Inoltre, mentre il dibattito nostrano si concentra sull’abolizione della cassa integrazione straordinaria e sulla riduzione della spesa, l’OCSE evidenzia “l’importanza del ruolo degli ammortizzatori sociali, dei trasferimenti pubblici e delle politiche di sostegno del reddito”, al pari dei “servizi pubblici gratuiti e di qualità elevata in ambiti quali l’istruzione, la sanità e l’assistenza familiare”.
In questa settimana è stato presentato anche il Rapporto Italia 2012 dell’Istituto di ricerche Eurispes, giunto al suo 30esimo anno di vita. Anche il Presidente, il Professor Fara, ha sottolineato nella sua relazione iniziale la centralità del tema distributivo, punto nodale per garantire la stabilità sociale del paese: “il problema dei problemi, quello dell’impoverimento dei ceti medi e della povertà in generale, e quindi, della redistribuzione della ricchezza, è ormai decisivo non più solo per le prospettive dell’economia e della crescita, ma anche per le sorti stesse della nostra democrazia”.
Il ritorno sul tavolo di queste tematiche, bandite a partire dall’introduzione delle politiche di deregulation degli anni ’80, rappresenta sicuramente una presa di coscienza del problema da parte della classe dirigente. D’altra parte le manifestazioni di protesta di questi giorni, dai pescatori ai camionisti, altro non sono che un sintomo del disagio strisciante, per cui chi è povero se la prende col ricco e chi è ricco si nasconde per non essere additato come il capro espiatorio di turno. Solo la crescita economica e l’aumento dell’occupazione possono garantire una repressione rapida del conflitto, ma al momento i tempi sembrano ancora troppo lunghi.
Rapporto Ocse 2011, note sull’Italia