L’idea sempre più pervicacemente radicata nella mente dell’autore medio è che “io metto in mano all’editore un best seller, ma se il mio editore non compra almeno un po’ di pubblicità per venderne milioni di copie, allora…”.
Che film avete visto?
Sapete quanto costa una pubblicità e per quanti giorni, settimane o mesi deve continuare a martellare il lettore potenziale per poter sperare d’avere (forse e chissà) efficacia?
E immaginate anche solo lontanamente quanto costa far fare uno studio per individuare il medium o i media più adeguati – e le modalità e i tempi di esposizione – per pubblicizzare un prodotto per il quale poi prima bisogna realizzare la pubblicità, poi comprare I relativi spazi espositivi?
La prima pagina di un quotidiano a grande diffusione nazionale costa migliaia di euro e poco meno costano le pubblicità nelle pagine interne. Il prezzo cala ancora un poco se l’inserzione viene pubblicata nelle pagine locali. Ma quanti sono gli editori interessati a pubblicare pubblicità sulle semplici pagine della cronaca provinciale? I periodici patinati sono inavvicinabili, i costi della radio crescono, la tv manco a parlarne e sui mezzi pubblici fanno pubblicità solo i Paperone e i Rockerduck.
La promozione – non potendo il piccolo editore contare sui canali più ambiti, che rimangono d’esclusivo appannaggio e portata dei grandi gruppi – è una delle anime più problematiche del lancio di un libro e nella maggior parte dei casi ci si trova a dover fare (casuale) affidamento sull’efficacia dei comunicati stampa e della telefonata diretta ai giornalisti delle testate prescelte, cercando poi di fare più movimento possibile su internet, che rimane, per ora, il mezzo più democratico, a buon mercato e immediato per poter provare a promuovere un libro, per quanto ormai anche questo medium sia inflazionatissimo.
La promozione richiederebbe somme ingenti da investire per decretare il successo di un libro. Nessuno però assicura che l’investimento aiuti il titolo a farsi strada nelle preferenze del pubblico. Se così fosse, in effetti, tutti potrebbero investire con la certezza di un rientro, che invece non esiste.
Può capitare il colpo di fortuna di trovare sull’uscio dell’ufficio un aspirante scrittore figlio di papà che magari ha scritto un testo mediamente passabile ma lo porta sospeso su un assegno da 50.000 euro. Nomi non se ne possono fare, però queste sono cose che accadono, senza dubbio, ma solo ai grandi editori. Quindi, come sempre, l’acqua va al mare.
Di conseguenza, tutte le piccole case editrici si trovano a dover fare il massimo con i mezzi che hanno, talvolta per ottenere con immane fatica giusto il minimo, contando soprattutto sul tam tam internettiano e degli eventuali fan dell’autore del momento. D’altronde, il piccolo editore non può neppure contare su “economie interne” proprie invece dei grandi gruppi, che possono contare su spazi pubblicitari e su “marchette” assicurate sulle testate quotidiane e periodiche interne. Così si sopravvive grazie alla buona volontà dei pochi giornalisti che ancora leggono i libri che si fanno spedire, grazie alle mailing list, alle newsletter, al proprio sito-vetrina, a facebook, a twitter, ai blog, al passaparola, alle presentazioni. Ma la forbice tra i pochi che hanno quasi tutto e i tanti che hanno poco o niente – nell’editoria come nella società in cui viviamo – si divarica inesorabilmente, e ogni anno le distanze, e le possibilità, divergono sempre più drammaticamente.
È il capitalismo, ragazzi…