A prima vista, dall’esterno, il mondo dell’editoria deve sembrare quanto di più scontato: gli autori propongono le loro opere, gli editori – seduti normalmente al caldo di un caminetto, fumando la pipa e sorseggiando un tè nero – leggono il testo e, al termine, esprimono un garbato “perbacco!”, il libro va magicamente in stampa, pile di volumi mirabilmente e invero misteriosamente sorgono dal pavimento – potenza dei semi transgenici di queste cavolo di multinazionali a stelle e strisce – radicandosi a due passi dalla cassa, i lettori entrano, acquistano, leggono, e proprio quando si sta leggendo l’ultima pagina sui giornali si legge: “Evviva, esce il film tratto dal libro taldeitali…”, che, guarda un po’, è proprio il volume che uno dei sei milioni di fortunati lettori del best seller del momento sta terminando di leggere.
Cos’altro? Ah, sì: il libro in questione è senz’altro un romanzo, dentro c’è un morto o più, forse un maggiordomo, si fa sesso perché quello vende sempre, il protagonista ha tra i trenta e i quarant’anni, spesso fa il giornalista, non gli puzzano mai le ascelle e le donne gli cadono ai piedi (magari gli puzzeranno quelli, ti vien da pensare…).
Chiariamo subito le cose: questo non è uno scherzo. E forse qualcuno di voi si starà anche, segretamente, identificando con quanto di cui sopra. E lo ribadisco: non è uno scherzo per il semplice fatto che una quantità enorme di proposte editoriali che giungono nelle case editrici italiane ha le caratteristiche – o alcune delle caratteristiche – descritte poco fa. Raramente gli autori di questi magnifici polizieschi o thriller o noir si sognano di andare a capire quali differenze ci siano nell’ordinamento italiano tra le mansioni e i poteri di pubblico ministero, gip, gup e così via; chi comincia a provare una grossa emicrania preferisce rifarsi al sistema americano, e allora fioccano i Joe, i John e i Frank tra i protagonisti, sempre atletici e ineffabili amanti anche se lavorano 29 ore al giorno e pesano 126 chili, e le Samantha sono gettonatissime. Non è, in definitiva, che “Io uccido” di Giorgio Faletti si distacchi granché dal cliché, direte voi. L’avete detto appunto voi, perché io mai l’avrei neppure lontanamente pensato…
Tutti, inoltre, sono tomi enormi, mezze risme o risme intere, il che spiega anche bene il perché dell’abbattimento di fior di foreste sul pianeta.
E ogni tomo ha la sua belle lettera d’accompagno, che di solito suona così: “Caro editore, quello che ti ho spedito è il mio capolavoro ma non basta, è il capolavoro. Io ci ho messo tutto me stesso – e forse anche un po’ di mia zia, a pensarci bene – e ora sono a consegnarti, madido di sudore ma invero felice, cotanta eccellenza d’opera. Ora sta a te investirci sopra quel tanto che basta per farlo diventare un best seller. Perché a te interessa il mio best seller, vero? In attesa di una tua immediata risposta, vado a fare la doccia…”.
Le prime volte, per inesperienza, quasi ci credi. Poi scopri che la stessa lettera è stata mandata ad altri 4-500 editori scelti nel mazzo degli oltre 8.000 attivi a vario titolo e per varia sorte in Italia. Infine scopri che l’autore (aspirante) neanche sa chi sei e che cosa fai, perché diversamente mai ti proporrebbe un thriller o un noir, visto che fai quasi esclusivamente saggistica orientata ai diritti umani e civili.
Ma, detto questo, resta una domanda alla quale non sai proprio dare una risposta: come faccio a spiegare ai milioni di aspiranti grandi scrittori italiani che per creare un best seller a tavolino servono 50-60.000 euro e tanta fortuna (oltre a una gran dose di faccia tosta da parte di autore ed editore)? E che per scrivere un buon libro prima bisogna leggerne almeno un centinaio, e che siano molto più che buoni?
Certo di non aver offeso nessun aspirante scrittore, magari dopo questa puntata della rubrica – se il direttore non la chiude seduta stante – il prossimo autore di noir busserà alle nostre porte con un assegno da 60.000 euro… Beh, vuoi vedere che potrebbe nascere un best seller?…