Abbattere i costi della politica è diventato una specie di mantra che gli eletti di qualunque ordine e grado, a prescindere dalla sponda d’appartenenza, ripetono in continuazione per andare incontro ai sentimenti più viscerali dei cittadini italiani.
La riduzione del numero dei parlamentari, la cancellazione dei vitalizi, l’eliminazione dei finanziamenti pubblici ai partiti sono temi importanti sotto il profilo della giustizia sociale, in un’ottica di equità distributiva della ricchezza, ma un’analisi razionale e piuttosto elementare porta banalmente a concludere che non sarà questo a cambiare le sorti economiche del Paese. Dovendo, ad ogni modo, tener conto della volontà popolare, vecchi e nuovi politici si affannano alla ricerca della “sforbiciata” giusta, in grado di accontentare contemporaneamente la pancia degli italiani, i neo-parlamentari di Grillo, i lavoratori del pubblico impiego e tutti i portatori d’interesse a vario titolo.
Da qualche tempo ci si è convinti che una delle chiavi di volta per sbrogliare la matassa possa essere l’abolizione, diventata poi la riduzione, delle Province. Le ragioni di tale scelta sono diverse e possono essere ricondotte a quanto affermato in precedenza: l’eliminazione di questa entità territoriale accontenta molti, per via del grande impatto mediatico, a scapito di pochi sacrificati, ovvero gli eletti nelle giunte e nei consigli provinciali, che peraltro potrebbero facilmente “riciclarsi” politicamente.
Funzionari e dipendenti sarebbero riassorbiti nelle nuove Province, oppure nelle Regioni in caso di abolizione totale, mentre le funzioni di competenza sarebbero assegnate principalmente ai Comuni. D’altra parte, le Province hanno già perso nel corso degli anni molte delle proprie competenze, arrivando ad occuparsi sostanzialmente di tre ambiti: viabilità e mobilità, manutenzione delle strutture scolastiche superiori di secondo grado, gestione ambientale. La credibilità di questa istituzione è stata poi intaccata dalla proliferazione di piccole province, con una popolazione addirittura inferiore ai 30.000 abitanti, come nel caso dell’Ogliastra e del Medio-Campidano in Sardegna.
A prescindere dai vantaggi e svantaggi reali del processo di accorpamento, osservando l’evoluzione del fenomeno nell’ultimo anno, fino al ritiro della legge attuativa da parte del governo Monti, risalta senza dubbio l’assuefazione all’immobilismo della nostra classe politica, che firma decreti legge senza convertirli, incapace di darsi un indirizzo e soprattutto di metterlo in pratica, in un parlamento dove si vota tutto ed il suo contrario.
La questione delle Province, nonostante sia sul piatto da anni, è stata affrontata in concreto solamente dall’ultimo governo, nell’ambito dei provvedimenti relativi alla Spending Review. Il Decreto-Legge n. 95/2012 dello scorso luglio, convertito in agosto, conteneva le disposizioni generali per la riduzione degli enti, sulla base dei criteri predisposti contemporaneamente dal governo: le province con meno di 350.000 abitanti e superficie inferiore ai 2.500 kmq sarebbero dovute essere accorpate.
Sarebbe toccato alle Regioni presentare un piano di riordino, che permettesse di arrivare alla piena efficacia del provvedimento a partire dal 1° gennaio 2014. A novembre, con l’approvazione di un altro DL, il governo ha certificato di fatto la distribuzione delle nuove Province, passate da 86 a 51, comprese le dieci Città Metropolitane, che rimangono in vigore. Il provvedimento non ha mai visto la luce: il governo Monti è caduto in dicembre e la discussione in Commissione Affari Istituzionali è stata “drogata” dalla presentazione di centinaia di emendamenti, ai quali è stato impossibile dar seguito in tempi così brevi.
Il risultato finale è stato l’invalidazione di tutto il lavoro precedente, visto che sono i scaduti i 60 giorni per la conversione, per cui occorrerebbe ricominciare tutto da capo.
La vicenda legislativa mette in luce l’inquietante estraneità delle valutazioni razionali dal processo decisionale. Il dibattito che normalmente si sviluppa nell’arena politica, infatti, omette troppo spesso l’analisi oggettiva dei fatti, nel caso specifico l’ammontare di risparmi che Stato produrrebbe abolendo o accorpando le Province.
Queste ultime pesano sul bilancio annuale per circa 2,4 miliardi di euro, di cui “solo” 150 milioni destinati alle retribuzioni del personale “eletto”, ovvero Presidente, Consiglieri e Giunta.
L’accorpamento degli enti porterebbe ad una riduzione del numero di eletti, che sarebbero più o meno la metà degli attuali, dimezzando di conseguenza la spesa. Per i dipendenti, invece, i costi potrebbero addirittura aumentare qualora alcuni venissero trasferiti alle Regioni, dove le condizioni contrattuali sono più favorevoli, in media di circa 20%. Una razionalizzazione in tal senso potrebbe realizzarsi solo nel corso di molti anni, nel momento in cui i dipendenti andranno in pensione, bloccando al contempo le nuove assunzioni.
Per quanto concerne le somme destinate all’espletamento dei servizi, il decreto del governo Monti stabiliva il mantenimento dei saldi attuali, distribuiti tra i nuovi enti, per cui non ci sarebbe alcun risparmio. Anche ipotizzando un calo delle consulenze esterne, voce di spesa che supera i 300 milioni annui, il risparmio complessivo ammonterebbe ad una cifra compresa tra 100 ed i 150 milioni, mentre con l’abolizione totale si arriverebbe a circa 300-400 milioni. Lo scenario stimato è nettamente inferiore a quello predisposto dai fautori dell’operazione, le cui stime possono superare i 2 miliardi, ma che spesso non tengono conto di un fatto molto semplice: i soldi che non spesi dalle Province sarebbero utilizzati dalle Regioni, per garantire i medesimi servizi.
L’opinione dominante rimane quella fondata sul senso di giustizia, sull’esempio che la politica deve dare in un momento così difficile, dimostrando la capacità di auto-controllare le proprie spese.
In termini economici, è chiaro che si tende a vedere la classica pagliuzza nell’occhio, ma non la trave, costituita da un sistema di gestione farraginoso ed infestato da norme completamente irrazionali, per cui un ospedale è costretto a pagare una siringa fino a dieci volte il suo prezzo di mercato.
Tralasciando questo tipo di analisi e focalizzando l’attenzione sui costi della politica, basti pensare che il solo Senato, anch’esso oggetto di numerose critiche e proposte abolitive, è costato nel 2011 circa 603 milioni di euro. Ad ogni modo, il punto non è nemmeno questo: sono troppo pochi quelli che si chiedono onestamente quale sia il modello migliore per gestire la cosa pubblica.
Negli ultimi anni quasi tutti i partiti, seppur con caratteristiche differenti, hanno abbracciato l’ideale federalista, per cui una gestione locale funziona meglio di una centralizzata.
In quest’ottica, perché non abolire le Regioni, come peraltro è stato proposto, affidando le competenze alle Province, più vicine ed attente ai bisogni di un territorio? D’altra parte, la riforma costituzionale introdotta da Monti in materia di bilanci ha ribadito la centralità dello Stato rispetto agli enti locali: è questa la strada giusta?
Sarebbe interessante ascoltare un dibattito politico sul tema, perché il compito di un parlamento è proprio quello di stabilire la rotta. Indignarsi per un vitalizio o un pranzo gratis in Senato è lecito e sacrosanto, ma le questioni importanti sono altre, sperando che prima o poi qualcuno se ne occupi.
Se da un lato il governatore della Sicilia, forte della sua autonomia, ha già dichiarato di voler anticipare tutti, le Regioni a statuto ordinario dovranno comunque relazionarsi con l’esecutivo.
Il neo governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, proprio sulla base della confusa fase di transizione, chiede l’apertura di una fase costituente.
“I recenti e incompiuti processi di riforma avviati dal governo – ha detto Zingaretti – ci spingono su una strada molto chiara: quella dell’apertura di una fase costituente non solo per evitare il rischio di un vuoto istituzionale e di rappresentanza ma per costruire modelli di governance adeguati alle grandi trasformazioni economiche e sociali del nostro tempo, capaci di guardare al futuro e di restituire fiducia ai cittadini. La vera sfida è disegnare una riforma complessiva della governance territoriale che parta da una seria e funzionale riorganizzazione delle competenze ai diversi livelli di governo, evitando sovrapposizioni e duplicazioni che oggi rallentano e rendono farraginoso il processo decisionale, mettendo al centro, in linea con le principali esperienze europee, le esigenze di pianificazione, programmazione e organizzazione dei servizi di area vasta, oggi fondamentali per garantire competitività, integrazione e coesione sociale nei territori. Il tema delle Province va inserito all’interno di questa sfida, riprendendo e ripensando i processi di riforma ormai avviati, evitando cedimenti alla demagogia che ne ha fatto un capro espiatorio e che indebolisce la capacità di risposta dello Stato, ma affrontando con coraggio la sfida dell’innovazione”.