Fin da quando siamo piccoli veniamo indirizzati a concepire il mondo, a comprenderlo, attraverso dei dualismi: maschio femmina, papà e mamma, assenza e presenza, prendere o lasciare.
Nel frattempo l’esperienza diretta delle cose, però, ci insegna che il mondo è un cerchio che gira, nel quale a volte prende più luce una cosa e poi, poco dopo, la prende un’altra.
Così, piano piano, si struttura in noi il senso della narrazione che è strettamente legato a quello dell’illusione. Chi mai potrà dire, infatti, di essere stato immune dal potere del girotondo?
Da quella caduta che ci fa fare a terra? Dalla sua meravigliosa illusione che ci fa sentire, anche se non siamo in grado di elaborare e dunque di riconoscere ciò che ci inietta, che non solo le cose ma perfino la luce è una specie di miraggio? Una specie di gioco?
I bambini non sono la nostra purezza o la nostra saggezza ma forse, semplicemente, sono il nostro girotondo aperto che si alza e cade a terra con una continuità naturale, con un ritmo elementare in cui tragedia e commedia si rincorrono specchiandosi, magari, in quel riflesso che si muove con noi.
Kantor, una volta, ha detto che ridere e piangere insieme, cosa che spesso accade ai bimbi, è l’atteggiamento più giusto che si possa avere di fronte all’esistenza.
Ma poi il mondo e i suoi drammi ci insabbiano riducendo la nostra naturale apertura. E il nostro bambino, col tempo, diventa così pesante e “bloccato” che per liberarsi non gli basteranno neanche tutti i suoi capricci, tutte le diavolerie che saprà inventare.
Questa premessa per parlare, forse, di conservatorismo e progressismo, di due atteggiamenti che sembrano condizionare le scelte e il carattere della nostra vita, ma che probabilmente e semplicemente non fanno che girarsi continuamente su se stessi, ballando insieme l’assurdo valzer della vita. Il conservatorismo e il progressismo si ritrovano, infatti, come tutti sanno, non solo in politica o nell’etica ma in ogni aspetto del nostro esistere o del tentare di farlo dignitosamente.
Si può ovviamente considerare le cose da un punto di vista “biologico” e ammettere che entrambi gli atteggiamenti corrispondano a delle nostre necessità, appunto, fisiologiche; ma riconoscere che, anche intellettualmente, apparteniamo alla complessità e alla liquidità, è altra cosa.
Molti di noi, infatti, di fronte alle cose, si sentono più conservatori o progressisti, più attaccati allo status quo o devoti del cambiamento, senza lasciarsi sprofondare nelle e dalle sfumature.
Anni fa irruppe nella new wave musicale americana un gruppo che si chiamava Devo.
Esso cantava della devoluzione in atto e lo faceva con uno spirito così irriverente e brillante da metter in campo un’energia assolutamente non nostalgica. Tanto è vero che la loro musica era fortemente influenzata dall’elettronica, dal nuovo suono campionato ed elaborato e non riprendeva affatto il sound del vecchio blues. Il loro “blues” di fronte alla modernità, invece, si vestiva di plastica e senza lamentarsi nell’aperta intimità, si srotolava in un up sbeffeggiante non solo il potente ed estroverso sogno americano ma tutti quei diktat dell’epoca consumistica che la fine degli anni settanta stava definitivamente schiudendo.
Non sono durati molto. Ma a me piacevano e quando ho letto che Bob Casale, membro fondatore del gruppo, è morto improvvisamente qualche giorno fa per arresto cardiaco, mi è dispiaciuto.
Perché parlo di loro? Perché la loro cover (I Can’t Get No)di Satisfacion dei Rolling Stones era davvero lancinante? Il grido beffardo di uomini insabbiati dal loro stesso robot interno? Il cortocircuito dei corpi che non solo non trovano più soddisfazione ma che risolvono la cosa soddisfacendosi con la stessa frustrazione?
Può essere. Il fatto è che quell’irriverenza e quell’energia mi mancano non solo perché allora mi facevano ballare veramente e contenevano le mie inquietudini adolescenziali, ma perché mi insegnavano, senza farlo, ad essere vivo di fronte alla morte. A tenere alto lo sguardo, indipendentemente dal tempo e dalle sue malattie.
In questi giorni si continua a parlare e scrivere tanto sulla grande bellezza.
Come sanno i lettori che seguono questa rubrica, in tempi non sospetti, ho dedicato diversi articoli a questo film e soprattutto ad alcuni temi che esso tocca. Conversando, per questo, anche con altre persone che potessero offrire un contributo interessante.
Nonostante sia del mestiere, non ho fatto, però, un’analisi reale del film (la sola cosa intelligente da fare oggi) ma ho cercato di riflettere sull’arte del potere e sul potere dell’arte. Chi vorrà potrà aprire l’archivio del mercato del vento e scovare vario materiale.
Ma che cosa intendo dire con analisi reale? La migliore risposta sarebbe nel farla quest’analisi: solo quando la si fa, un’analisi diventa emotiva e misteriosa, intensa e destabilizzante. Un lavorio creativo che sa andare contro se stesso, usando il paesaggio analizzato come uno scivolo attraverso cui cadere nuovamente nella vita. Ma questa analisi presuppone la compresenza di me, del film e di altri. Dunque, parlarne teoricamente è cosa non buona e giusta. Soprattutto pensando al fatto che la parola analisi induce a pensare ad un’attività della sola razionalità.
Di fronte, però, a questa superficialità dilagante e onnivora, di fronte a questa presunzione tanto prevedibile e disarmante quanto eccitante fino alla consunzione, vorrei suggerire, comunque, più che di capire o di seguire una mia analisi, di prendere questo film e di guardarlo con il telecomando del videoregistratore.
Vorrei suggerire di farla a pezzi quest’opera, aldilà del gossip e dell’invidia, e di scrutarla e farci scrutare da essa in un modo che ormai non facciamo più.
Di usare quindi la tecnica dei morsi tecnologici per ricostruire non tanto un senso o uno smarrimento, ma un atto di immersione semplicemente inusuale.
Non basta vedere un film al cinema nel buio della sala, senza interruzioni pubblicitarie o familiari, non basta pagare il biglietto per sentirsi ben disposti e inclini all’uso, non basta l’appartenenza antropologica o professionale al mondo dell’arte o del pensiero, non basta perfino la nostra intelligenza e cultura o la nostra inadeguatezza: quello che occorre per fare un atto utile a noi stessi, oggi, è sbranare un’opera che, si badi, potrebbe essere anche non artistica ma un semplice arnese tipo un tavolo di legno o una lampada dell’Ikea.
Bisogna fare tutto a pezzi! E poi provare a ricostruire o, se non ci si riesce, restare a vedere i pezzi che, lì per terra, impietosi ci osservano.
Del resto, che noi siamo affamati delle cose e di noi stessi, dunque potenziali cannibali e potenziali assassini, appare piuttosto chiaro soltanto guardandosi intorno.
Allora facciamola consapevolmente e realmente questa “dilaniazione” e vediamo cosa accade.
L’indagatore dell’incubo non ce ne vorrà se gli rubiamo per un po’ il mestiere o la scena!
Dò diritto di critica solo ai macchinisti, diceva Carmelo Bene, uno dei più citati intellettuali italiani di questi tempi, di cui pochissimi conoscono, però, il lavorio quotidiano. Non tanto avendone visto i risultati ma entrando o solo immaginando la continua ricerca di un artista come lui.
Ma se l’ho citato non è per ricordare l’inutilità dei critici vacanzieri, che siano salottieri “deputati” o cittadini qualsiasi, ma per suggerire che il sociale ha bisogno di un vero privato. Di un coinvolgimento privato che appunto monta e smonta, suda e arranca.
Questo altro dualismo che vanamente separa il pubblico dal privato, non ci fa solo allontanare dalla responsabilità individuale (sostituita dall’egocentrismo più sfrenato) o ci rende impossibile ogni vero abbandono al simbolico o, ancora, ci limita nei gesti creativi, ma ci impedisce costantemente di riconoscere l’anima del modo, che pure, ogni giorno, pazientemente resta ad aspettarci fiduciosa.
Che cosa intendo per anima del mondo?
Preferirei non parlarne qui seduto sulla mia sedia. Faccio l’artista, il viaggiatore e lo spettatore per questo.
D’altra parte qualcuno potrebbe obiettare che il mondo non ha un’anima ma solo una pelle che cambia o resta uguale a secondo della luce. Forse…
Ma guardare la luce non è già una possibilità straordinaria?
E l’anima non si nutre, semplicemente, dello straordinario? Dato che l’ordinario in realtà non esiste, o è solo, magari, un’incessante illusione?
Dunque, il privato e il pubblico.
Tutti ora, stimolati da questo film che assume e non esplora la decadenza, parlano e vedono il disfacimento del nostro mondo (italiano o non… poco importa).
E riconoscono, anche se magari preferiscono non farlo o sono costretti a questo, quel nulla generale e individuale, pubblico e privato, appunto, che ci ha inghiottito come un buco nero.
Ma dove stavano prima? Anzi dove stanno quando, in ogni momento della giornata, incontrano gli altri e il vuoto se li sbrana? Dove stanno quando, dovendo fissare un appuntamento con qualcuno, questi comincia a fare l’elenco di quello che deve fare in tutta la settimana, come se questo fosse piuttosto necessario… per prendere l’appuntamento con loro?
Dove stanno quando le persone dimostrano costantemente disinteresse e incapacità di ascoltare e piangono, parlano, ammiccano tutte in una maniera così simile? Immersi, paradossalmente, in una vanità che ferisce ancor più dell’invidia, della rabbia o della violenza?
Quante di queste persone, che ora vedono, tentano, durante la vita, di fermare la vita con il loro personale telecomando, per cercare di capire o di farsi capire, di non farsi sbranare dalla dilagante e conforme superficialità?
Mi si dirà: ma la vita non si può fermare! Noi siamo dentro di essa, sempre, e il blob possiamo solo concepirlo e ammirarlo! Possiamo vedere la grande bellezza che “attacca” questi momenti emblematici della nostra esistenza (emblematici perché ridicoli e liberatori) e goderne, sentendoci non solo rappresentati ma anche accettati. Il film di Sorrentino, infatti, non giudica e non accoglie. Semplicemente aderisce. Chi ci vede del moralismo o chi non ce lo vede, a mio parere, pensa troppo al film e poco a se stesso.
Comunque sia, ora, sarà il ricordo dei Devo e della soddisfazione che non riesco a trovare in questo film e nel solitario dibattito che ha generato, non solo intriso di dualismo (bello/brutto, morale/amorale, potente/vano) ma sempre così supponente e vanitoso (come i miei ragionamenti del resto), o sarà l’inverno che non molla ancora la sua presa, ma mi viene in mente, non so perché, Arancia Meccanica di Kubrik.
Mi viene in mente, cioè, l’eccitazione che ho provato quando la banda entrava nella casa dell’intellettuale e squassava il suo “privato”. Facendo a pezzi la notte, il giorno e il grande fallo che li ha generati.
Così, di fronte a degli articoli che ho letto in questi giorni, mi verrebbe di bussare alla porta di qualcuno e chiedergli di mettere Beethoven per farci due chiacchere.
Non sono violento e non userei calci e pugni, ma mi piacerebbe usare il corpo in una privatissima discussione sulla grande bellezza.
Non c’è nulla di più conservatore e progressista del corpo. Nel corpo c’è la tradizione e c’è l’infinita possibilità. Il corpo è memoria che si nutre di memoria e sa riconoscere che il tempo è una fisarmonica stonata, il cui suono va ascoltato con tutte e due le orecchie e tutte e due le mani.
Altrimenti diventa noioso.
Così mi farei una bella chiacchierata a più mani, con varie persone. Con il loro nome e cognome. Prendendo il tempo per le corna e salendoci sopra come solo i veri uomini sanno fare.
Perché l’unica grande bellezza resta la lotta che possiamo fare insieme e contro di noi.
Il resto è solo un valzer del moscerino senza più… moscerino!
Il resto è solo un capolavoro… senza di noi!