La decisione presa dal Politecnico di Milano sembrava di quelle senza ritorno: dal 2014, questa l’intenzione dell’ateneo lombardo, tutti i corsi di laurea magistrale si sarebbero dovuti tenere rigorosamente, ed esclusivamente, in lingua inglese.
Ma il 24 maggio, il Tar di Milano ha accolto il ricorso presentato da alcuni docenti dell’ateneo milanese, contrari alla decisione assunta lo scorso anno dal Senato accademico circa l’uso esclusivo della lingua d’Albione. Niente di fatto dunque : i corsi di laurea di secondo livello e quelli di formazione post universitaria, rimarranno in regime di bilinguismo. L’uso dell’Inglese nei corsi universitari non è una novità né al Politecnico di Milano né in altre università del Bel Paese: il principio che la sentenza del Tar della Lombardia ha ribadito è che non si può escludere o addirittura vietare la lingua italiana nei corsi di formazione superiore.
Anche perché sarebbe un bel paradosso che un Paese bandisse la propria lingua madre dalle sue università. Ma una sentenza ovvia e, tutto sommato, abbastanza logica è diventata, come spesso accade in Italia, l’ennesima occasione per imbandire una bella polemica senza senso: da Twitter a Facebook la rete si è presto riempita di grida di dolore per la possibilità persa dal nostro sistema universitario. Ma la polemica è rimbalzata anche su alcuni, noti, quotidiani nazionali (come il Fatto), dove la critica ha raggiunto vertici abbastanza surreali denunciando la “difesa corporativa portata avanti da un manipolo di professori in difesa di rendite di posizione “ e accusando il Tar di aver “messo il sigillo su questa battaglia di retroguardia, accogliendo il ricorso di 234 professori del Politecnico……..Mettiamolo per iscritto, addirittura per legge,” – ha concluso l’indignata cronista de il Fatto – “l’Italia deve diventare una Cenerentola del mondo, un piccolo paese provinciale, rinchiuso nella difesa dei propri assurdi privilegi e vecchi schemi mentali “.
Università in inglese fra internazionalizzazione e farsa
Se i vecchi schemi mentali sono quelli di poter continuare ad usare, anche, l’italiano nell’insegnamento, non si capisce dov’è il problema. Quale sarebbe l’alternativa? Vietare per legge l’italiano e imporre l’uso dell’inglese in tutte le scuole di ogni ordine e grado: bel modo per uscire dal provincialismo! Ma su cosa poggia il ricorso dei docenti che il Tar ha accolto qualche giorno fa? Secondo l’appello sottoscritto dai professori, la decisione di passare all’uso esclusivo dell’inglese viola l’articolo 3 ( “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge”) e l’articolo 33 della Costituzione (“l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”). Ma come al solito quando si indica la luna gli stolti guardano il dito. E così continuare ad usare la propria lingua madre all’università diventa, per alcuni , una “battaglia di retroguardia”. Non esiste alcun Paese al mondo dove si insegni in una lingua diversa da quella nazionale. Diverso sarebbe invece, e di gran lunga importante, studiare in lingua originale e confrontarsi con studenti e docenti di tutto il mondo in lingue diverse dalla propria. Ma nel momento dell’insegnamento si usa la propria lingua madre. E’ così ovunque. Un professore tedesco di letteratura russa studia in russo ma insegna in tedesco. Così come un professore tedesco di storia della lirica studia in italiano e insegna in tedesco. Se il rettore del Politecnico sostiene che l’utilizzo esclusivo dell’inglese possa aiutare gli studenti a trovare lavoro una volta usciti dai corsi di laurea, c’è da chiedersi quanti di quei corsi di laurea sono rivolti a un contesto internazionale e quanti invece preparano ad un lavoro per cui sarà necessario confrontarsi con le regole, la burocrazia e la lingua italiana. L’università “tutta in inglese”, rischiava dunque di trasformarsi in una farsa: anche volendo sottoporre tutti docenti del politecnico a dei corsi intensivi di inglese, difficilmente avrebbero raggiunto, in breve tempo, un livello di abilità tale da poter insegnare efficacemente materie complesse al più alto grado d’istruzione.
“ Imporre l’esclusività dell’insegnamento in inglese è solo una cartolina e alla fine rischia di diventare una questione d’immagine. […].C’è il rischio di fare lezioni manualistiche solo per trasmettere dei contenuti e non per elaborare insieme dei concetti” – ha sostenuto di recente Nicoletta Maraschio, presidente dell’Accademia della Crusca – “Se una lingua perde le sue funzioni superiori, cioè quelle dell’elaborazione scientifica e della formazione superiore nelle università, il rischio di decadenza, e quindi quello di diventare un dialetto, è alto. […] Il rapporto fra lingua e pensiero è molto stretto”.
Linguaggio e identità
Non è un caso che i greci usassero lo stesso termine per indicare sia il pensiero che il linguaggio: logos. Se paragonassimo il nostro cervello ad un computer, il linguaggio sarebbe come il software, il sistema operativo, senza il quale non potremmo utilizzare il nostro strumento. Dunque il modo in cui parliamo, la lingua in cui parliamo ha molto a che fare con quello che siamo, come persone e come appartenenti ad un gruppo sociale. Fra i tratti che caratterizzano l’essere umano, la lingua è indubbiamente quello che esprime i caratteri più intimi di chi parla, rappresentandone un elemento di identità sociale e realizzando una facoltà fondamentale della sua mente. Grazie alla lingua si possiede un’identità . Non a caso la storia linguistica di una comunità rende possibile scoprire la vita sociale e culturale di un popolo. Spiace constatare, dunque, che chi oggi vorrebbe liquidare in quattro e quattr’otto la lingua italiana dalle università ignori completamente il processo di formazione di un’autonoma tradizione di pensiero linguistico nel nostro Paese: dal barocco all’illuminismo, passando per le grandi polemiche politico-linguistiche fra Leopardi, Manzoni e Ascoli nell’800 fino a Gramsci. Proprio la lingua italiana, infatti, ha avuto un percorso complesso e originale nella sua affermazione e oggi sappiamo che l’articolarsi del linguaggio in tante varietà sociali e linguistiche non è un castigo divino, ma una ricchezza. Oggi il predominio della lingua inglese a livello internazionale ha un valore prettamente “di mercato”, ovvero è imposta da fattori di tipo economico e commerciale. Ma a breve la lingua degli affari potrebbe diventare il cinese e allora cosa faremo? Imporremo di insegnare tutto in cinese?
L’Europa delle lingue
Il dibattito sulla pluralità linguistica europea è aperto. Le diverse lingue parlate nell’Ue costituiscono un patrimonio comune di tutti i popoli ed è necessario che i diritti linguistici dei cittadini europei abbiano pieno riconoscimento. La diversità linguistica è dunque un valore, espressione della funzione primaria del linguaggio senza il quale non avremo una mente e, in fin dei conti, non saremmo umani. Oggi le istituzioni europee non devono spingere verso l’omologazione linguistica sotto il segno della globalizzazione dei mercati: ci sarebbe solo un generale appiattimento al ribasso. Le istituzioni scolastiche e formative hanno, invece, il difficile compito di rafforzare o introdurre forme di multilinguismo per garantire non solo la ricchezza del patrimonio delle lingue attuali, ma anche per renderlo utilizzabile dal maggior numero di cittadini possibile. Se all’interno dell’Ue la lingua italiana è costantemente snobbata a differenza di tutte le altre, forse è anche colpa di atteggiamenti come quelli visti in questa vicenda: schiere di pseudointellettuali convinti di lottare per l’internazionalizzazione, confondono lo studio con l’insegnamento. Bisognerebbe introdurre e rendere obbligatorio lo studio sui testi originali, in lingua originale: questo sì avrebbe un reale effetto sul grado di conoscenza delle lingue degli studenti, e, anche dei professori. Leggere e studiare in lingua sarebbe la soluzione giusta: si potrebbe addirittura imparare a parlare un lingua morta, come dimostra il caso di Marcello Gigante, uno dei più famosi filologi dell’evo moderno che sistematizzò la grammatica greca antica (per la gioia dei liceali italiani…) , traducendo i papiri ercolanesi. Gigante parlava greco antico come un abitante della Grecia di Pericle: tuttavia ha sempre insegnato in italiano. Lui e i suoi studenti sono diventati un modello da imitare in tutto il mondo per quel che riguarda lo studio delle lingue antiche, tuttavia non si sono mai sognati di iniziare a insegnare in greco antico.
La presunta intellighenzia nostrana si caratterizza, come sempre, per la bassa densità culturale: mentre si va ripetendo, ossessivamente, che bisogna valorizzare e far conoscere sui mercati internazionali le nostre bellezze, si cerca di cancellare la lingua italiana sempre nel nome dell’internazionalizzazione. Proprio mentre nelle università straniere ci si sforza di studiare i testi della letteratura italiana in lingua originale e si moltiplicano i corsi in italiano. Forse la nostra lingua non è considerata fra le ricchezze del Paese. Così, mentre l’inglesissimo Dan Brown, vende milioni di copie, facendo soldi a palate, con un libro (fantasioso e leggero quanto si vuole) sul padre della lingua italiana e sulla sua opera, noi proviamo a bandire l’italiano dalle università. Andiamo bene!