È da ormai cinquant’anni che la validità del Prodotto Interno Lordo come misura del progresso è messa in discussione dal mondo accademico e politico. Numerose sono le alternative proposte, alcune già recepite a livello istituzionale come l’HDI (“Human Development Index”, l’Indice di Sviluppo Umano, utilizzato dal 1993 dalle Nazioni Unite); ma manca ancora una coesione politica a livello internazionale in merito e, anche a causa della crisi, il Pil resta lo strumento principale delle analisi economiche.
Il Prodotto Interno Lordo, come indice del valore dei beni e servizi prodotti sul suolo nazionale, viene concepito all’indomani del Lunedì nero della Borsa di New York (1929) per fronteggiare un’esigenza molto pratica: misurare i successi – e gli insuccessi- della politica di risanamento dell’economia promossa dall’allora Presidente Franklin D. Roosvelt. Il metodo di calcolo elaborato dal Dipartimento del Commercio statunitense e dal futuro Premio Nobel per l’economia Simon Kutznets è stato poi esportato dopo la seconda guerra mondiale, imponendosi nel mondo intero come misura del benessere di una nazione, e orientando per decenni i piani di politica economica nazionali e internazionali. A poco valse la dissociazione di Kutznets; quest’ultimo, pur essendo l’artefice della relazione “crescita della produzione-crescita del reddito interno” che è alla base della suddetta interpretazione del Pil, rifiutò fin da subito la possibilità di usarlo per misurare il livello di sviluppo di un Paese.
Il mezzo pollo di Trilussa
Infatti, anche volendone tralasciare i problemi di calcolo esatto, nonché quelli strutturali di una media statistica, specie se pro capite (il famoso “mezzo pollo” di Trilussa: da li conti che se fanno seconno le statistiche d’adesso, risurta che te tocca un pollo all’anno; e, se nun te entra nelle spese tue, t’entra lo stesso ne la statistica perché c’è un antro che ne magna due – da La statistica), fin troppo pesano l’esclusione dal conteggio di attività non di mercato ma essenziali per la società civile e, viceversa, la rendicontazione di esternalità negative: entrambe viziano il giudizio sulle reali potenzialità di un Paese. È famoso a questo riguardo uno storico discorso di Bob Kennedy, pronunciato durante la campagna elettorale del 1968, conclusasi con il suo assassinio. Siamo nel pieno della guerra del Vietnam e Kennedy fa riferimento innanzitutto a questa di fronte alla sua platea di giovani studenti dell’università del Kansas: Il Pil – dice – comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana […] cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, e si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte. Conclude poi, un po’ romanticamente, “[il Pil] può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani”. Molto più prosaicamente, una recente ricerca del Fondo Monetario Internazionale ha rilevato che a livello mondiale il riciclaggio di denaro sporco influenza circa il 5% del valore del Pil; come ha dichiarato il vicedirettore generale della Banca d’Italia, Anna Maria Tarantola, per l’Italia le stime sono ancora più pessimistiche e indicano dimensioni mediamente superiori al 10% e crescenti in funzione dell’apertura internazionale dei mercati e del ricorrere delle crisi economiche.
Oltre il Pil. La Dichiarazione di Istanbul
Lo scetticismo nei confronti del Pil è cresciuto man mano che le politiche volte a stimolare la crescita produttiva fallivano nel loro intento sociale, e a volte persino in quello economico, come è accaduto nel Terzo Mondo con risultati spesso gravissimi. Sin dalla fine degli anni Sessanta si discute su quale tipo di benessere si intenda veramente sostenere, ma ancora oggi la questione è parzialmente irrisolta. Nel 2007 si sono riuniti, con l’intento di risolvere il quibus e trovare un orientamento internazionale, i rappresentanti di governo da tutto il mondo, dall’Unione Europea, dall’Ocse, dalla Banca Mondiale, dalle Nazione Unite e persino dall’Organizzazione della Conferenza Islamica. La conferenza, dal nome evocativo, Beyond GDP (“Oltre il PIL”, http://www.beyond-gdp.eu/index.html), ha adottato alla sua conclusione la cosiddetta “Dichiarazione di Istanbul”, in cui si evidenziava il consenso dei partecipanti circa la necessità di misurare “il progresso sociale andando oltre le misure economiche convenzionali come il Pil pro capite”. Al di là di questo gentlemen agreement, ciò che è emerso sono state sopratutto le molteplici divergenze. I Paesi in via di Sviluppo, infatti, rifiutano il Pil, il cui calcolo li vede svantaggiati rispetto alle nazioni occidentali, ma non vogliono rinunciare a quel modello di industrializzazione che ne è il presupposto teorico (e che molto spesso avviene nella devastazione del sistema naturale); nei Paesi della zona Ocse si continua a sostenere l’eguaglianza “più beni, più benessere” alla base, come si è detto, del Prodotto Interno Lordo, alcuni dando però maggiore enfasi alla distribuzione egualitaria, anche a livello inter-generazionale, delle risorse (obiettivo dell’Ue sin dal 1987), e altri invece ponendosi come obiettivi primari la tutela della biodiversità o della qualità del paesaggio, i sostenitori cioè della “crescita verde”. Ci sono poi le eccezioni, come il piccolo Stato asiatico del Bhutan, che dal 2008 ha sostituito il calcolo del Prodotto interno lordo con quello della Felicità interna lorda, e misura annualmente il proprio sviluppo sulla base del raggiungimento di quattro obiettivi, tutti ben distinti dalla produzione industriale: la promozione di uno sviluppo economico imparziale, lo sfruttamento sostenibile dell’ambiente naturale, la protezione dell’eredità culturale, la stabilità politica.
L’indicatore del progresso reale
Al momento due sono gli indicatori alternativi più autorevoli: il Genuine Progress Indicator, l’indicatore del progresso reale, e l’Human Development Index, l’indice di sviluppo umano. Entrambi si prefiggono di valutare la qualità della vita, il GPI distinguendo (e pesando differentemente) tra componenti del Pil positive (come la spesa beni e servizi) e negative (come il costo della criminalità, dell’inquinamento), l’HDI aggregando gli indicatori sull’aspettativa di vita, sul rapporto tra anni medi di istruzione e anni previsti e sul reddito nazionale pro capite misurato a parità di potere d’acquisto. Un indice molto suggestivo è invece l’Impronta Ecologica, quello che stima, mettendo a confronto i consumi di beni e energia con la quantità di terra disponibile pro capite, quanti “pianeta Terra” servirebbero per sostenere un determinato stile di vita.
La commissione Stiglitz
La scelta delle variabili che possono comporre un indice di benessere è in un certo senso strettamente intrecciata al sistema di valori di una comunità civile: non è soltanto una questione di correttezza tecnica, bensì innanzitutto di priorità politiche. Nel 2008 il Presidente francese Nicholas Sarkozy, ispirato evidentemente da Beyond GDP, aveva incaricato una commissione, presieduta dal Premio Nobel Joseph Stiglitz, di 22 economisti e statistici di fama internazionale, come Amartya Sen, altro premio Nobel, il francese Jean-Paul Fitoussi e anche il Presidente dell’Istat Enrico Giovannini, affinché studiasse la relazione tra performance economiche e progresso sociale. Il rapporto elaborato e pubblicato nell’anno successivo ha ribadito la necessità di “mettere l’accento più sulla misura del benessere della popolazione che sulla produzione economica”. Il Pil, si legge nel testo, va integrato con altri indicatori, spostando l’accento dalla produzione al reddito e al consumo delle famiglie. Per ottenere questo, si è proposto di rivedere la base statistica dei dati: invece di raccoglierli in medie pro capite, potrebbero essere divisi in gruppi per fasce di reddito (al netto delle tasse). In questo modo si riuscirebbe anche distinguere chi, spendendo oggi, accresce il benessere immediato della nazione, e chi risparmia a beneficio del benessere futuro. Nel calcolo del Pil andrebbero, sempre secondo la commissione, accolte le attività non legate direttamente al mercato, come il volontariato o il lavoro domestico (se effettuato da personale salariato) e ricalcolare quelle strettamente economiche alla luce della loro “sostenibilità”. È necessario poi «valutare in maniera davvero esaustiva le ineguaglianze» fra persone, sessi, generazioni, con particolare attenzione alle condizioni degli immigrati, se si vuole fornire una misura sintetica della qualità delle vita. Laddove la matematica non può arrivare, il rapporto presentato a Sarkozy ha proposto strumenti di carattere soggettivo come i sondaggi e inchieste, cosa che ha lasciato perplessi gli statistici. La sfida è quella di creare delle proiezioni che integrino le percezioni della popolazione con le statistiche contabili.
Germania, Norvegia e Gran Bretagna all’opera
Approfondimenti e studi su indicatori alternativi restano nel raggio dell’interessamento politico: in Germania e Norvegia sono state istituite commissioni parlamentari apposite, in Gran Bretagna il premier David Cameron ha incaricato l’istituto inglese di statistica di censire la “felicità” del Paese tramite un questionario di dieci domande. Quello della felicità, è uno snodo centrale del dibattito accademico: gran parte degli indici elaborati concernono proprio la percezione che gli individui hanno della propria vita e del grado di soddisfazione che provano per essa. Studi empirici evidenziano che questa stenta a crescere nel tempo in diversi paesi o addirittura diminuisce, come negli USA, nonostante il reddito pro capite in crescita: un paradosso per la scienza economica, che è chiamato “paradosso della felicità” o “paradosso di Easterlin”.
In Italia, l’Istat e Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro) hanno avviato alla fine dell’anno scorso una joint venture per la misurazione del “Benessere Equo e Sostenibile”, mirando a produrre una serie di indicatori in grado di offrire una visione condivisa di progresso per l’Italia : il primo rapporto potrà aversi solo a fine 2012, intanto il 19 marzo scorso sono stati resi disponibili i risultati della consultazione aperta per scoprire “che idea di benessere hanno gli italiani”(http://www.misuredelbenessere.it/). Si conferma un consenso quasi unanime sull’importanza di andare “oltre il Pil”: il 68% degli intervistati ha dichiarato che un nuovo indice basato anche su aspetti non economici può aiutare ad identificare politiche pubbliche migliori. Nel sondaggio erano state proposte dodici “dimensioni” del benessere, che nell’ordine hanno riscosso: per la salute il 98% dei voti, l’integrità dell’ambiente il 95%, l’istruzione e formazione il 92%, la qualità dei servizi il 91%, il benessere economico e la soddisfazione per la propria vita solo il 44,3%, la partecipazione politica e la fiducia nelle istituzioni il 37% e la sicurezza ancora meno, solo un 30% dei voti.
La via italiana
La ricerca insomma non si è fermata. La questione del Pil sembra però essere un po’ scomparsa dalle pagine dei giornali, sostituita dalla spada di Damocle del debito pubblico, al cui contenimento sembrano essere diretti tutti gli sforzi dei governi. Abbiamo chiesto al professor Alessio D’Amato, ricercatore in Scienze delle Finanze presso l’Università di Roma Tor Vergata, il perché di questo appannarsi, come mai gli indicatori alternativi non riescono più a farsi spazio nell’ordine del giorno.
«Molto semplice. Il Pil è conosciuto e facile da leggere. Siamo abituati all’idea che se questo cresce allora il nostro benessere è destinato ad aumentare, anche se, in realtà, questa crescita potrebbe avvenire a seguito di un cataclisma, per il convogliarsi delle risorse sulla ricostruzione. Tutti gli altri indici finora proposti sono più complessi nella loro interpretazione, oltre ad essere potenzialmente legati alla definizione che riteniamo più appropriata di crescita sostenibile o “verde”: gli studiosi della green economy hanno i propri indici, quelli della decrescita fanno riferimento ad altri ancora e così via; così come per alcuni studiosi è sufficiente correggere il Pil per valutare l’impatto ambientale dell’attività economica, mentre per altri è indispensabile utilizzare misure fisiche, ad esempio l’Indice di Impronta ecologica».
A proposito di green economy, pensa che provare nuove strade possa aiutarci ad uscire da questa crisi così prolungata? Investire nel settore ecologico può condizionare un’eventuale ripresa?
«Cercare di rendere sostenibile per l’ambiente il nostro sistema economico e sociale è un obiettivo importantissimo. Una scelta a favore di sistemi di produzione e consumo sostenibili può rendere, però, solo in tempi medio-lunghi i suoi significativi frutti, anche in termini di occupazione. Decidere l’opportunità di interventi coerenti con l’obiettivo della sostenibilità, come gli incentivi alle energie rinnovabili, sulla base di un confronto tra costi e benefici di breve periodo, può portare a risultati deludenti o, addirittura, decisioni errate come nel caso della Spagna».
La Spagna in effetti, grazie all’impegno del Governo Zapatero, è diventata in pochi anni la nazione leader in Europa per la produzione di energia eolica (secondo i dati per il 2010 dell’Osservatorio Mediterraneo dell’Energia e il Consiglio Mondiale dell’Energia Eolica). Già alla fine del 2009 però, il settore aveva visto una battuta d’arresto, forse anche a causa dello scoppiare della bolla edilizia nel 2007; e adesso il nuovo Governo Rajoy ha bloccato gli incentivi statali ai nuovi impianti.
«Ci si è accorti, diciamo “in corsa”, che alcuni degli incentivi statali erano un po’ troppo “generosi” [complessivamente il costo degli incentivi, solo per il 2009, è stato di 6 miliardi di euro]; i relativi aggiustamenti della manovra restrittiva hanno indubbiamente portato ad un ridimensionamento del settore. Gli incentivi in quanto tali sono essenziali per far “decollare” un’industria, ma è necessario costruirne un disegno appropriato; scegliere di rimuoverli in blocco per questioni di bilancio, di penuria di risorse, tipiche dei momenti di crisi economica, è una scelta miope, a cui può condurre la misurazione del benessere basata esclusivamente sul Pil, oltre che l’esaltazione degli obiettivi di breve termine. Bisogna favorire invece i settori che nel lungo periodo costituiranno le basi di un nuovo sistema di produzione e di consumo, e quello delle rinnovabili è sicuramente tra questi, soprattutto per l’Italia. In questo modo, si perde un’occasione importante solo perché non ci si vuole assumere la responsabilità della transizione».
Perché dice “soprattutto per l’Italia”? Non sembra pensarla così il Ministro dello sviluppo economico Corrado Passera, che qualche giorno fa ha invocato tagli di una certa consistenza al settore.
«Come ho detto prima, è cruciale adesso porre le basi per il sistema economico del futuro. Il nostro Paese (in particolare il Sud) presenta un potenziale di generazione fotovoltaica relativamente elevato rispetto a molti altri paesi UE, come si può vedere ad esempio dalla mappa predisposta dal Joint Research Centre della Commissione Europea per il fotovoltaico (http://re.jrc.ec.europa.eu/pvgis/apps3/pvest.php# e http://re.jrc.ec.europa.eu/pvgis/cmaps/eu_opt/PVGIS-EuropeSolarPotential.pdf)».
Lei dunque ritiene che la crisi sia un deterrente all’innovazione?
«Ritengo che la crisi debba essere di stimolo all’innovazione, in particolar modo di quella in campo ambientale, che costituisce uno dei potenziali motori della crescita economica. Purtroppo, come ho già sottolineato, il cambiamento costa tempo e risorse; in momenti come questo, invece, mi sembra che si cerchi solamente di “asciugare” quanto più possibile le uscite, adottando politiche miopi di breve periodo. C’è fretta, insomma, di veder crescere il Pil di nuovo; e questo non mi induce certo all’ottimismo».
Rapporto Stiglitz-Sen-Fitoussi 2009
Rapporto Erec 2010