Ormai, gran parte della nostra legislazione nazionale viene dettata da norme europee. Molto spesso lo scopriamo «solo vivendo», quando nella vita di tutti i giorni ci imbattiamo in obblighi o restrizioni insopportabili.
Se reagiamo con fastidio e protestiamo, ci sentiamo spesso rispondere: «è l’Europa che ce lo chiede». Allora occorrerebbe fare un po’ più di attenzione a quello che l’Europa pretende da noi, anche perché quello che viene deciso a Bruxelles è frutto di un percorso complesso ma democratico, e quindi partecipato. Chi non ricorda questioni annose come le “Quote latte”, o la direttiva Servizi che ha condizionato il lavoro dei nostri liberi professionisti o le percentuali ammesse di arsenico nell’acqua? Tutte vicende che hanno iniziato il loro cammino normativo a Bruxelles, percorso lungo e democratico ma pressoché ignorato da noi.
Da parte dell’Italia, forse, occorrerebbe un atteggiamento un po’ più partecipato, almeno per cercare di capire i cambiamenti in atto. Cosa non facile, ovviamente, perché basta navigare sui siti delle istituzioni europee per scoprire che la lingua italiana ha la stessa visibilità di quella slovena (non me ne vogliano gli sloveni, ma hanno un’anzianità “europea” leggermente diversa dalla nostra).
Le conclusioni del Consiglio europeo, ad esempio, organismo dell’Unione europea composto da capi di Stato o di governo degli Stati Ue, il cui ruolo è stato confermato dal Trattato di Lisbona (2009) e dà all’Unione europea «gli impulsi necessari al suo sviluppo e ne definisce gli orientamenti politici e le priorità politiche generali», sono solo in tedesco, inglese e francese. Per carità lingue parlate in tutto il mondo, ma perché Spagna e Italia sono state escluse? Lingue vecchie? Utilizzate da pochi? O piuttosto Paesi che non hanno mai voluto contare nella politica europea?
Eppure basta leggere le conclusioni del Consiglio europeo del 24 e 25 marzo scorsi, per capire che la politica europea si ripercuoterà sul nostro Paese in maniera pesante.
Il documento (leggibile in allegato, ovviamente in inglese ma se preferite disponibile in francese e tedesco) riporta le indicazioni comuni per il consolidamento delle finanze pubbliche con nuove regole per l’equilibrio di bilancio e la riduzione dei debiti pubblici, le riforme strutturali necessarie su mercato del lavoro più flessibile con retribuzioni legate alla produttività, l’aumento dei redditi, l’integrazione dei mercati con l’applicazione rigorosa della direttiva servizi.
Per quanto riguarda il mercato del lavoro si chiede di abbandonare la difesa rigida dei posti di lavoro a favore della flessibilità assistita per nuove occupazioni con adeguati programmi di formazione, riduzione del peso fiscale sul lavoro e l’impresa e l’adozione di misure concrete per accrescere i tassi di partecipazione al mercato del lavoro. Si chiede inoltre di allungare l’età pensionabile con le attese di vita.
Le conclusioni del Consiglio, inoltre, stabiliscono che l’opera di consolidamento delle finanze pubbliche dovrà partire subito e le prime verifiche scatteranno nel 2015. Per noi significa che nel triennio 2013-2015 dovremo dovremmo ridurre il rapporto tra debito pubblico e Pil di circa 8 punti percentuale.
Il risanamento dei nostri conti pubblici in direzione del pareggio di bilancio dovrà quindi essere accelerato dal 2012. E scopriremo presto quali iniziative sono in serbo per noi dal momento che il documento di economia e finanza verrà anticipato ad aprile come prevede il progetto di legge sulla contabilità in via di approvazione alla Camera. Il nostro indebitamento dovrà scendere al 3,9% a fine 2011, quindi al 2,7% nel 2012 (attualmente siamo al 4,7%).
Tutte misure che andranno ad incidere pesantemente sul nostro futuro.
Si dirà che il Consiglio europeo detta la linea politica di lungo periodo, per poi lasciare spazio alla commissione europea che svolge un ruolo molto più pratico.
Vero. Come è altrettanto vero, però, che l’Italia non si impegna mai abbastanza su questo fronte, non prepara il campo per affrontare la discussione di strategie comunitarie con una adeguata presenza, attraverso contatti diplomatici, con una preparazione minuziosa dei dossier. Purtroppo consideriamo la politica Ue una politica di secondo piano, un palco meno importante rispetto a quello nazionale. Preferiamo le tribune nazionali con tanto di dibattiti (se proprio così li vogliamo definire) sulle ripercussioni di una direttiva che ha iniziato il suo cammino politico dieci anni prima. Il problema, adesso, è che le decisioni prese la scorsa settimana ci arriveranno addosso nei prossimi cinque anni. In altre parole, non c’è più tempo: occorre che la politica italiana si svegli dal torpore provinciale ed inizi ad affrontare la politica europea seriamente.
Delle conclusioni del Consiglio europeo di fine marzo non si è (da noi) parlato abbastanza. Lo stesso ministro dell’Economia Giulio Tremonti non si è speso più di tanto, per illustrare il cammino che ci aspetta, e non ha anticipato nessuna mossa rispetto al documento di economia e finanza che dovrà presentare a breve.
Quale tribuna migliore se non quella del Consiglio europeo su decisioni di questo tipo per anticipare le mosse del nostro Paese in vista di politiche economiche così stringenti? Verrebbe quasi da pensare che ci si affidi ad iniziative estemporanee o quantomeno prive di quell’ampio respiro che invece l’Europa ci chiede. Si ha l’impressione, piuttosto, che la politica italiana sia ostaggio di quel provincialismo che non le permette di guardare la luna rimanendo invece fissa sul dito che la indica.
In questo caso, saremmo davanti ad una politica non solo miope ma tiranna, che, come il dio Urano, uccide i suoi figli negando loro un futuro.
Conclusioni del Consiglio europeo del 25 marzo 2011