La sentenza, nella sua scrupolosa e argomentata motivazione, si pone, tra gli altri, il problema della distinzione tra i comportamenti identificativi di ciò che richiede l’art.270 del codice penale e quelli invece riconducibili nella cornice della norma di cui all’art.270bis, e ciò per individuare, nei secondi,le finalità e i metodi terroristici richiesti dal legislatore.
La ragione della ricerca sta nel fatto che la violenza terroristica rappresenta un pericolo più grave per l’assetto istituzionale, tanto che viene punita in misura maggiore rispetto alla violenza eversiva: per cui va scandagliata più attentamente la costruzione dell’accusa al fine di verificare se gli imputati avevano intenzione di usare, sì, la violenza, ma esercitandola con metodi terroristici.
La sentenza annulla con rinvio la decisione della Corte d’appello poiché – si dice –non si capisce dalla motivazione se gli imputati si sono resi colpevoli del reato di cui all’art.270 o di quello previsto dall’art.270bis.
La Cassazione ribadisce che il reato di cui all’art.270bis si connota come delitto di pericolo presunto, volendo reprimere la condotta di associazioni che si “propongano” il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo, anticipando la punibilità al “proposito”, sempre che esso abbia già dato luogo ad una struttura associativa costituita allo scopo di attuare quel proposito con atti di violenza qualificata. E la sentenza riconosce che il programma della banda definitasi “partito comunista politico militare” era attuale, posto che in parte aveva cominciato ad esserlo: ciò era comprovato dal tentativo di scassinare un bancomat, dai furti di auto e di targhe d’auto, dalla predisposizione di “inchieste” su persone da individuare come vittime, il procacciamento e il collaudo di armi comuni e da guerra, la predisposizione di documenti di identità falsi.
Ma, dice la sentenza, sarebbe stato necessario accertare se quella associazione qualificata come banda armata ( art.306 cod.pen.) aveva la intenzione –ripetesi, la intenzione– di utilizzare metodi terroristici. Vale a dire, prosegue la motivazione, doveva chiarirsi se in quei programmi criminosi rientrava il proposito “…di intimidire indiscriminatamente la popolazione, l’intenzione di esercitare costrizione sui pubblici poteri, la volontà di distruggere o quantomeno destabilizzare gli assetti istituzionali del Paese”.
E qui risulterebbe che , secondo la quinta Sezione, questi presupposti dovrebbero coesistere per potersi integrare la fattispecie punitiva: ma da una lettura dell’art.270sexies, cui si richiama la Corte, si ricava che quelle circostanze sono poste come alternative: si parla infatti di condotte compiute allo scopo di intimidire la popolazione , o di costringere i pubblici poteri, o destabilizzare gli assetti istituzionali, e così via. Quindi, è sufficiente l’esistenza di una sola di tali finalità per soddisfare la sete probatoria della Corte.
La sentenza, peraltro, prende in considerazione , tra i programmi della associazione criminosa, l’ipotizzato attentato al prof. Ichino, il danneggiamento della sede del quotidiano “Libero”, della sede dell’Istituto “Marco Biagi” ecc., e, pur qualificandole azioni violente e dirette contro l’ordine costituzionale, conclude che non è stato accertato se quella violenza si sarebbe “…qualificata con modalità terroristiche”.
Ma secondo la consolidata giurisprudenza costituisce finalità di terrorismo quella di voler creare terrore nella collettività con azioni criminose dirette non contro le singole persone o le singole strutture in quanto tali ma per quello che esse rappresentano. E allora l’aver ipotizzato un attentato al prof. Ichino, giuslavorista ritenuto il continuatore delle teorie di Marco Biagi e di ciò che questi ha rappresentato nella politica italiana, o il danneggiamento della sede del quotidiano “Libero” chiaramente riferentesi ad una opinione pubblica di centro destra, cosa altro potrebbero rappresentare?
La Corte da atto che “….i giudici del merito, con motivazione diffusa, rigorosa e analitica,hanno dato conto del loro convincimento circa la sussistenza di una struttura operativa, sufficientemente gerarchizzata al suo interno, ispirata da un ben preciso credo politico, tesa alla realizzazione di un programma rivoluzionario che prevedeva l’uso sistematico della violenza, e a tale scopo dotata di un considerevole quantitativo di armi micidiali” : ma se si richiede una prova ulteriore per poter concludere che si tratta di associazione con finalità di terrorismo, si finisce per chiedere una probatio diabolica.
Un’ultima considerazione. Il filo argomentativo della sentenza parte, come è ovvio, da ciò che hanno ritenuto i giudici di merito i quali, a loro volta, si sono basati su ciò che era stata la costruzione data dal Pubblico Ministero: e il capo di imputazione di cui finora si è discusso era stato impostato come associazione con finalità di terrorismo “mediante costituzione di banda armata”, donde la diatriba, che vi è stata in tutti e tre i gradi di giudizio, sul se l’imputazione di banda armata costituita per finalità di terrorismo assorbisse le altre imputazioni.
Forse sarebbe stato più semplice, ai fini dell’accusa, cristallizzare due diverse imputazioni: la prima, quella di aver costituito una associazione con finalità di terrorismo; la seconda, e conseguente, quella di banda armata.
Ma non tutti i Pubblici Ministeri ragionano allo stesso modo…
Cassazione, sezione quinta, sentenza 12252 del 2 aprile 2012